Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

domenica 30 gennaio 2011

Pagine di Storia...



Bloody Sunday. 30 gennaio 1972


E’ il 30 gennaio del 1972 quando a Derry, in Irlanda del Nord, durante una manifestazione civile promossa dal Nothern Ireland Civil Rights Association, i soldati britannici uccidono quattordici civili inermi, cinque dei quali colpiti alle spalle. Le urla, il terrore e gli spari esplosi vigliaccamente dal primo battaglione del reggimento di paracadutisti di sua maestà furono gli infelici protagonisti di quella giornata. La situazione nella parte dell’Irlanda occupata era tragica, molti giovani irlandesi erano detenuti nelle prigioni con pochissima possibilità di essere rinviati a giudizio o di essere rilasciati grazie ad una nuova norma varata dal Governo di Londra che permetteva l’arresto preventivo per un tempo non definito a chiunque fosse solo minimamente sospettato di essere un militante nazionalista repubblicano. I manifestanti, armati di “pericolosissimi” fazzoletti bianchi, sventolati in segno di pace, furono ripetutamente colpiti da fucili ad alta capacità, calibro 7,62. L’immagine di padre Edward Daly che soccorre una delle vittime sventolando un fazzoletto bianco è forse lo scatto più significativo di quella fredda domenica invernale. Ogni anno, a Derry, la data del 30 gennaio viene ricordata con una tradizionale marcia commemorativa che ripercorre lo stesso tragitto intrapreso dai manifestanti nel 1972, alla quale oltre a migliaia di patrioti irlandesi, partecipano delegazioni da vari paesi europei e mondiali. 

Molto probabilmente, la marcia di commemorazione di quest’anno, che partirà regolarmente da Creggan per arrivare a Bogside, potrebbe essere l’ultima. Dopo la Relazione di Lord Saville e la conseguente ammissione di colpevolezza da parte britannica, alcuni familiari delle vittime hanno proposto di celebrare una festa più che una commemorazione. Altri, invece, sottolineano che la continuazione della marcia di commemorazione sia importante per i diritti civili e i diritti umani di tutti i popoli che lottano per la propria indipendenza. Dopo trentotto anni, il 15 giugno del 2010, il Rapporto di Lord Saville, voluto da Tony Blair nel 1998, ha reso pubblica la verità e ha dato ai familiari delle vittime uno spiraglio di giustizia. Nelle 5000 pagine della relazione Saville viene dimostrato, infatti, che il massacro del Bloody Sunday fu assolutamente ingiustificato e che nessuna delle persone uccise dai soldati della Compagnia di Supporto era armata con un’arma da fuoco o una bomba di qualsiasi tipo. Inoltre, viene sottolineato che nessuno stava minacciando di provocare la morte o lesioni gravi ai soldati e in nessun caso è stato dato alcun avviso prima di aprire il fuoco. Questa indagine che ha avuto un costo di circa 200 milioni di sterline e che è durata dodici anni, è seguita alla prima inchiesta del Widgery Tribunal, dove i militari e l’autorità vennero largamente prosciolti da ogni colpa, compreso l’ex capo di gabinetto di Tony Blair, Jonathan Powell, distorcendo la realtà e nascondendo le tragiche responsabilità del paese di sua maestà. Gli avvenimenti del 30 gennaio del 1972 costrinsero inoltre molti giovani irlandesi ad una scelta tanto drammatica quanto inevitabile: rispondere con le armi, come i loro padri prima di loro, a chi, con le armi, negava loro la libertà e cercava lo sradicamento dell’identità del loro Popolo. 

Ancora oggi, nonostante una pacificazione di facciata e una informazione lobotomizzata dei mass-media di massa, in Irlanda c’è ancora chi brandisce con orgoglio il vessillo della propria identità, in fede a quello che da sempre fu il motto dell’I.R.A, “tiochfaidh àr là” – in gaelico, il nostro giorno verrà -. Tuonano forti le recenti dichiarazioni della Real I.R.A. fatte in esclusiva al Sunday Tribune all’alba del nuovo anno con le quali si annuncia una espansione delle operazioni volte a colpire le istituzioni e il personale militare britannico. Nel ricordo delle vittime del Bloody Sunday e nell’avvicinarsi al trentennale della scomparsa di Bobby Sands, modello non destinato ai più, non ci resta che prendere esempio dal popolo irlandese, quello vero, quello puro, quello ribelle, che con una tenacia d’altri tempi ancora lotta per la propria terra, per la propria gente e per la propria autodeterminazione; quello che non si è scordato di chi, con il sangue, ha lottato per vedere l’isola verde una e unita e senza padroni stranieri. Gli stessi stranieri che tutt’oggi sono esportatori di democrazia alla ruota dei loro degni cugini d’oltreoceano.




Bloody Sunday.

domenica 16 gennaio 2011

JAN PALACH MARTIRE EUROPEO!




« Poiché i nostri popoli sono sull'orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l'onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana. Noi esigiamo l'abolizione della censura e la proibizione di Zpravy. Se le nostre richieste non saranno esaudite entro cinque giorni, il 21 gennaio 1969, e se il nostro popolo non darà un sostegno sufficiente a quelle richieste, con uno sciopero generale e illimitato, una nuova torcia s'infiammerà »

Pagine di Storia: 
Jan Palach, Martire Europeo! Un esempio per la nostra generazione.
Intervista a Jan Palach.


giovedì 13 gennaio 2011

L' ANGOLO CULTURALE.


Germania e Italia, storia di un amore impossibile...


Johann Friedrich Overbeck, "Italia e Germania" - 1828. München, Neue Pinakothek.

Come osservava il grande storico Ferdinand Gregorovius, autore di una monumentale – e anche letterariamente pregevolissima – Storia della città di Roma nel Medioevo – il popolo tedesco e quello italiano, che insieme sono giunti all’unità e all’indipendenza nazionale, hanno condiviso, nel bene come nel male, gran parte della loro storia, tenuti uniti da un legame ideale tenace, che travalica le contingenze e sembra racchiudere qualcosa di perenne.

L’idea dell’Impero, in particolare, passata da Roma alla Germania, ha rappresentato un legame ideale così forte e durevole, che ha praticamente costretto le due nazioni a rimanere strette l’una al destino dell’altra: con gli imperatori tedeschi, da Ottone il Grande ad Arrigo VII di Lussemburgo, che trascurano gli affari di casa loro per inseguire il miraggio italiano e con i Comuni italiani che lottano per l’autonomia contro l’imperatore, ma senza mai rinnegarne la suprema autorità e senza mai aspirare alla completa indipendenza; come se, appunto, una forza misteriosa e fatale avesse così deciso, a dispetto di tutto e anche della formidabile barriera alpina.

Pertanto, mentre nel resto d’Europa sorgevano le monarchie nazionali, la Germania e l’Italia, tenute strette dal comune ricordo del sogno universalistico dell’Impero, sono giunte in ritardo nel perseguire le rispettive unità nazionali e sono state a lungo campo di battaglia delle altre potenze, toccando il punto più basso l’una – l’Italia – con le guerre tra Francesi e Spagnoli del XVI secolo, l’altra – la Germania – con la rovinosa Guerra dei Trent’Anni, un secolo dopo, quando essa fu corsa in ogni senso da eserciti spagnoli, svedesi, francesi e di altre nazioni.

Dicevamo del notevole ritardo con cui la Germania e l’Italia hanno conosciuto la creazione dello Stato moderno, su base nazionale, nel corso dell’Ottocento; ritardo che si è ripercosso nella loro collocazione sulla scena internazionale, ivi compreso il fenomeno del colonialismo (quando, cioè, gran parte della spartizione coloniale era già stata fatta e la parte del leone era toccata alla Gran Bretagna e alla Francia), cosa che può aver svolto il suo ruolo nella nascita della Triplice Alleanza e, quindi, nello scoppio delle due guerre mondiali.

Uno storico di formazione marxista, abituato a far dipendere gli orientamenti spirituali di una data società dal suo modo di produzione, sarebbe portato ad attribuire il “ritardo” italiano e tedesco al più lento sviluppo di un ceto borghese “moderno”, ossia spiccatamente imprenditoriale; e, di conseguenza, a un ritardo nello sviluppo del capitalismo. Ma una tale conclusione urta con la semplice constatazione che già nel 1914 la borghesia tedesca aveva surclassato non solo quella francese, ma anche la britannica, e che l’espansione dell’economia capitalista in Germania era in grado di porre la candidatura di quest’ultima al dominio mondiale.

Conviene perciò ammettere che vi era qualcosa, nello spirito nazionale tedesco – e, per altri versi, in quello italiano – che configgeva con la cultura della modernità, così come essa si era venuta formando ed elaborando in Europa, soprattutto a partire dall’Empirismo inglese e dall’Illuminismo francese.

Tanto per fare un esempio, sia nella letteratura tedesca che in quella italiana si trova un consistente filone della narrativa e della poesia che guarda con malinconia, disorientamento e pessimismo all’avanzata del “progresso”, mito fondante dell’ideologia della modernità: basterebbe fare i nomi, pur tra loro diversissimi, di Nietzsche, di Kafka, di Musil, di Roth, di Wiechert; ma anche degli Scapigliati, di Verga, dello stesso Carducci maturo (quello de Il comune rustico, per intenderci, e non già quello dell’Inno a Satana), di Pirandello, di Svevo, di Tozzi, e poi avanti, fino a quello di Cassola e oltre. Niente di simile si trova, in eguali proporzioni e con pari intensità, nella letteratura inglese o in quella francese.

Se tale fu l’incrociarsi dei destini italiani e tedeschi sul piano politico, dagli ultimi anni di vita dell’Impero Romano d’Occidente e dai regni barbarici degli Ostrogoti e dei Longobardi, su su fino al compimento delle rispettive unità nazionali, nella seconda metà del XIX secolo, e poi alla terrificante e disastrosa avventura dell’Asse per l’egemonia planetaria, nella seconda guerra mondiale, non meno intenso e sofferto è stato il legame culturale e spirituale fra i due popoli, particolarmente sentito all’epoca del Romanticismo.

Da Goethe e da Winckelmann in poi, l’Italia era la Terra Promessa degli intellettuali tedeschi, dei poeti, degli artisti, degli scrittori, il cui numero è legione: da von Platen al già citato Gregorovius, passando per quel Roeseler Franz che ci ha dato, attraverso i suoi acquarelli, l’ultimo ritratto della vecchia Roma, prima che la ristrutturazione urbanistica portata dalla modernità la facesse scomparire per sempre.

Per dire la verità, bisogna constatare che questo amore è stato per lo più, se non proprio a senso unico, prevalentemente degli uomini di cultura tedeschi verso l’Italia, che non di quelli italiani verso la Germania. Il grande Teodorico lo avrebbe trovato perfettamente naturale, dato che nelle sue leggi egli disse di considerare normale che un Goto volesse assomigliare a un Latino, ma riprovevole che un Latino volesse assomigliare ad un Goto; riconoscendo, così, l’indiscutibilità della supremazia culturale di Roma ed il suo eterno fascino verso il mondo germanico.

Anche il caso di Dante è stato sovente strumentalizzato o mal compreso: perché non di amore verso la Germania si trattava per il grande fiorentino, ma di fede nella necessità storica dell’Impero. Il fatto che gli imperatori del XIV secolo fossero tedeschi era, per Dante, del tutto irrilevante, tanto universalistica e sovra-nazionale era la sua concezione politica; ben diversa, in questo senso, da quella esplicitamente nazionale e anti-tedesca di Petrarca.

Eppure, fino alla metà del XIX secolo e forse ancora oltre, anche da parte italiana esisteva una sia pure più contenuta simpatia nei confronti della Germania (non dell’Austria, per le note ragioni politiche): non aveva forse il Manzoni dedicato proprio la più patriottica delle sue liriche, «Marzo 1821», alla memoria del poeta-soldato tedesco Theodor Körner, caduto combattendo contro le armate napoleoniche per la libertà della sua patria?

Ma, nel complesso, nulla di paragonabile, da parte italiana, al trasporto entusiastico che manifestavano verso l’Italia gli intellettuali tedeschi.

C’è un quadro di Friedrich Overbeck, «Germania e Italia», che bene raffigura questo amore bruciante dell’anima tedesca verso l’anima italiana: amore incompreso e spesso indesiderato, talvolta frainteso, mai pienamente ricambiato; amore impossibile, insomma.

Il quadro è del 1828 e raffigura due fanciulle, allegorie dei due popoli, che siedono l’una accanto all’altra, tenendosi per mano, sullo sfondo dei due rispettivi paesaggi “tipici”, il nordico e il mediterraneo. Ebbene, osservandole anche solo di sfuggita, non si può non notare al volo quale delle due sia l’amante e quale l’amata: ardente e volitivo lo sguardo della bionda fanciulla tedesca, languido e abbandonato quello della bruna ragazza italiana coronata di alloro, che sembra quasi in cerca di protezione e di conforto alle sue pene segrete.

Un amore precario, quindi: cementato, a ben guardare, più dalla comune reazione all’Illuminismo di matrice francese, ma di diversissima origine nei due casi – romantica la tedesca, classicista l’italiana – che ha fatto della cultura di queste due nazioni, a ben guardare, una sorta di prolungamento dei valori premoderni fin nel cuore della modernità; se è vero – come è vero – che la modernità è figlia di Cartesio prima, di Voltaire e di Rousseau poi. Ed è così che si spiega anche la convergenza tra l’idealismo filosofico tedesco e quello italiano; tra Fichte, Schelling ed Hegel da una parte, e Gioberti, Rosmini e, poi, Croce, dall’altra.

Ancora.

Se la modernità è rappresentata, economicamente e politicamente, dalla Rivoluzione industriale e dalla Rivoluzione francese, è altrettanto vero che sia il fascismo, sia il nazismo (così diversi per tanti altri aspetti, giova ricordarlo sempre) si possono entrambi considerare come aspetti di una comune reazione, o come parti di una comune reazione, all’urbanesimo, al materialismo, all’utilitarismo, insomma alle due grandi manifestazioni politico-economiche della tarda modernità: il capitalismo speculativo e il bolscevismo; in nome di un mito ruralista che voleva riproporre, quasi in chiave virgiliana, la sanità morale della vita dei campi e del ritorno ai valori patrii, alla corruzione e alla decadenza tipiche della borghesia urbana cosmopolita, affarista, cinica e infettata dalla “malattia” del giudaismo.

In questo senso, non si può considerare casuale il fatto che la Germania e l’Italia abbiano finito per stringersi l’una all’altra in una alleanza politica e militare – quella dell’Asse prima, del Patto d’Acciaio poi – in vista di una resa dei conti con il mondo del denaro e della macchina, rappresentato dalle potenze plutocratiche occidentali nonché dalla sua versione in chiave rivoluzionaria, ossia lo stalinismo in Unione Sovietica (cfr. il nostro precedente articolo Gli ultimi trionfi del denaro e della macchina nella filosofia della storia di Oswald Spengler).

Schematizzando alquanto, ma forse non travisando una sostanziale verità di fondo, potremmo quindi considerare la storia europea dell’ultimo secolo come il luogo dello scontro, ideale e materiale, fra due opposte e inconciliabili visioni del mondo: quella materialista e razionalista dell’Inghilterra e della Francia (le cui radici sono, oltre che in Cartesio e Spinoza, in Francis Bacon, Hobbes, Newton, Locke e Hume) e quella spiritualista e idealista della Germania e dell’Italia (che parte da Paracelso, Bruno, Campanella e arriva fino a Heidegger e Gentile, passando per Vico).

Se nel quadro che stiamo delineando vi è una plausibilità di fondo, allora bisogna riconoscere che il “Nuovo ordine europeo” propagandato dai pubblicisti dell’Asse negli anni della seconda guerra mondiale non nasceva dal fortuito incrociarsi delle mire di potenza della Germania nazista con quelle dell’Italia fascista, ma nasceva da una intima logica che aveva condotto le due nazioni all’appuntamento con la storia nell’ora della contesa per il potere mondiale.

Del resto, il fatto che scrittori e poeti come il norvegese Knut Hamsun, come i francesi Céline e Drieu La Rochelle, come l’americano Ezra Pound o come il romeno Mircea Eliade, per non parlare di uomini politici come Quisling, Pétain, Léon Degrelle, Mosley, abbiano, sia pure in tempi e modi diversi, aderito a quel progetto o si siano riconosciuti in quei valori (“il sangue contro l’oro”), dimostra che si è trattato di fenomeni e tendenze culturali e spirituali che, pur facendo perno su due realtà nazionali ben delimitate, possedevano nondimeno una certa carica espansionista e perfino potenzialmente universalistica (basterebbe pensare alla diffusione delle ideologie naziste e fasciste in Sud America, nel Medio Oriente arabo e in altre aree del mondo).

Anche nella reazione così rabbiosa di Hitler al tradimento del re e di Badoglio dell’8 settembre 1943, non è difficile scorgere i tratti dell’amore deluso; perché di vera fascinazione si era trattata, da parte del dittatore tedesco, nei confronti di Mussolini: su questo punto, tutti gli storici sono ormai d’accordo. Così come sono d’accordo sul fatto che la liberazione del Duce dal Gran Sasso non fu soltanto dettata da ragioni di Realpolitik, ma anche da un autentico sentimento di amicizia e devozione del Führer per il suo antico “maestro” italiano: sissignori, proprio lui, Hitler, l’uomo dal tenebroso cuore di ghiaccio. Amicizia e devozione, peraltro, che non furono mai ricambiate: sempre Mussolini ebbe nei suoi confronti sentimenti di diffidenza e scarsa simpatia.

Dopo il 1945 le strade dei due popoli, per la prima volta dai tempi di Tacito e di Odoacre, si sono parzialmente separate: in un’Europa costretta a ripartire da zero, con la Gran Bretagna sempre più arroccata nel ruolo di sentinella avanzata degli Stati Uniti e con la Francia costretta a cercare ovunque, perfino verso l’Unione Sovietica («L’Europa va dall’Atlantico agli Urali», diceva De Gaulle), una “sponda” per recuperare margini di autonomia nei confronti della strapotenza dell’alleato d’Oltreoceano, i secolari legami italo-tedeschi si sono allentati e, in parte, addirittura sciolti, forse per sempre.

Pesa, nella memoria collettiva degli Italiani, il terribile periodo del 1943-45, con le sue stragi e le sue barbariche violenze; e pesa del pari, nel ricordo dei Tedeschi, il “tradimento” di Badoglio, nel bel mezzo di una lotta durissima per la vita e per la morte contro la più ampia coalizione di popoli che si fosse mai vista.

Rimangono la sincera ammirazione dei Tedeschi per l’arte italiana, nonché la loro predilezione per le belle (un tempo) e relativamente economiche spiagge italiane; e rimane, permeata di invidia, l’ammirazione degli Italiani per l’efficienza tedesca, per la buona amministrazione tedesca, per i risultati dell’industria e dell’economia d’Oltralpe, con un operaio della Volkswagen che guadagna almeno una volta e mezzo lo stipendio di un operaio della FIAT, a fronte di un costo della vita che non è poi tanto più alto rispetto al nostro.

Si ritroveranno, un giorno, queste due amanti ritrose e conflittuali?

Per ora, quello che si può vedere è che la Germania ha subito, più dell’Italia (e questa è stata per molti una sorpresa), il rullo compressore dell’americanizzazione, entrando a vele spiegate in quella tarda modernità post-industriale cui l’Italia, invece, offre ancora qualche sia pur debole resistenza. Il fatto stesso che, in Italia, siano ancora molte le persone che non conoscono l’inglese, o che lo parlano poco e male, dimostra che l’Italia è stata, finora, meno pesantemente americanizzata della Germania; ma che, per la stessa ragione, non è entrata a pieno regime, anche a livello psicologico, nei processi della modernità avanzata: ciò che, da un punto di vista materiale, appare certamente come un ritardo.

Una cosa possiamo immaginare, comunque, con relativa sicurezza.

Se mai verrà il tempo in cui l’Europa deciderà di ritrovare se stessa; se tornerà a porsi con fierezza verso la propria cultura e la propria civiltà, e si libererà dai suoi assurdi complessi di inferiorità verso l’America: allora sia la Germania che l’Italia torneranno a svolgere un ruolo centrale nella rinascita spirituale di questo continente.

E si ritroveranno: come due vecchi innamorati che, pur dopo mille litigi e incomprensioni, non hanno mai smesso, nel loro intimo, di volersi bene.

FONTE: Centro Studi la Runa.

domenica 9 gennaio 2011

Giovane Italia Scandale: Tesseramento 2010 - 2011. SEMPRE E PER SEMPRE DALLA STESSA PARTE!



Domenica 9 Dicembre dalle 17:00 alle 20:00 saremo in piazza Oberdan per raccogliere le adesioni alla Giovane Italia, il movimento giovanile del Popolo della Libertà. 
Sempre e per sempre dalla stessa parte, questo è lo slogan che accompagna la nostra campagna tesseramento. Dalla parte di chi ha ancora speranza di poter cambiare, dalla parte di chi non ha tradito i propri valori e le proprie  idee. 
Da anni continuiamo a combattere per la salvaguardia della nostra Terra, con la stessa forza continueremo a difenderla abbiamo bisogno di nuove forze per portare avanti il nostro progetto che non si è mai fermato. Cerchiamo Giovani ottimisti, capaci, forti e coraggiosi.
Giovani che abbiano il coraggio di schierarsi, con il coraggio di combattere per tutto ciò che c’è di buono, con il coraggio di amare, con il coraggio di concretizzare le nostre idee!
L’unica cultura che riconosciamo è quella delle Idee che diventano Azioni!

ADERISCI ANCHE TU!

 IL FUTURO E' QUI!

sabato 8 gennaio 2011

Apre il primo tesseramento della Giovane Italia.

 
Finalmente aperto il tesseramento della Giovane Italia. 
Un passaggio imprescindibile per la costituzione di movimento giovanile forte, indipendente e che conserva l'ambizione di assumere un ruolo centrale nello scenario politico italiano.
Ci teniamo che questo tesseramento venga interpretato come uno slancio verso l'esterno, come uno strumento utile a far conoscere il nostro nuovo simbolo e la nostra proposta culturale ad un intera generazione, ad aumentare la nostra capacità di incidere sulle dinamiche sociali ed a relazionarci con i bisogni e le aspettative della futura classe dirigente della nostra terra.
Avere molti iscritti ed un tesseramento autonomo significa, soprattutto, poter dare sostanza e peso alle proprie proposte, alla propria visione del mondo; ma significa anche avere un enorme bacino di utenza dal quale attingere esperienza e capacità: dobbiamo dimostrarci all'altezza di questa sfida affrontando questo periodo con un enorme senso di responsabilità.

venerdì 7 gennaio 2011

Strage di ACCA LARENTIA.

 

Il tempo per un funerale, l’ennesimo a Roma e, nel gelo di un inverno cupo, arriva il capodanno 1978. Il clima politico è ancora più tetro e raggelante di quello invernale e ne sanno qualcosa i ragazzi della sezione di via Acca Larentia, che il giorno dopo l’Epifania si ritrovano per decidere cosa fare alla riapertura delle scuole.
La sezione è un povero stanzone chiuso da una saracinesca in un vicolo non transitabile dalle auto perché chiuso da una breve gradinata. Una sezione di estrema periferia, come la Primavalle dei fratelli Mattei, una di quelle sezioni dove si esprime l’anima popolare e sociale della Destra italiana: ben lontana dall’immagine borghese, capitalista, arrogante e becera che la stampa, come il cinema o la tv cercavano di darle. Una Destra autentica, radicata nei problemi del proprio tessuto sociale; una destra capace di proporre un modello di economia basato sul lavoro e la partecipazione non sullo scontro sociale. In questo senso una Destra che faceva molta più paura di quella “pariolina” (o “sanbabilina” a Milano). Questa Destra, antagonista nella realtà popolare, che “per definizione” doveva essere di sinistra, andava sradicata con ogni mezzo. E quello scelto per Acca Larentia fu: la mitraglietta… E’ sabato pomeriggio, si preparano i volantini per un imminente concerto a Roma degli Amici del Vento. Alle 18 i ragazzi escono per volantinare in piazza Risorgimento. In sezione restano solo cinque ragazzi : Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, Vincenzo Segneri, Maurizio Lupini, Giuseppe D’Audino. Dopo venti minuti anche loro si apprestano ad uscire. In tre sono già fuori quando un commando di cinque o sei giovani, fra cui sembra di scorgere anche una donna, apre il fuoco su di loro. Franco Bigonzetti, colpito alla testa, cade davanti alla porta della sede. Francesco Ciavatta tenta di fuggire lungo la scalinata, raggiunto da una raffica di colpi si trascina per alcuni metri poi rotola giù dalla rampa. Vincenzo Segneri, benché ferito al braccio, riesce a rientrare in sezione e a chiudere la porta blindata.
“Gli assassini non sono ancora sazi di sangue – scrive Adalberto Baldoni in “Il crollo dei miti” (Settimo Sigillo, Roma, 1996) – si fermano davanti alla porta della sezione. Imprecano, bestemmiano poiché non sono riusciti ad ammazzare anche gli altri, prima di raggiungere una Renault 4 rossa, lasciare le armi nel bagagliaio e fuggire a piedi”. I soccorsi tardano ad arrivare. Bigonzetti, 19 anni, studente in medicina, figlio di un impiegato, è ormai senza vita, ma Ciavatta non ha ancora perso i sensi e rantola poche parole, prima di perdere i sensi tra le braccia dei suoi camerati. Morirà durante il trasporto in ospedale, aveva solo 18 anni, era figlio di operai e pochi mesi dopo suo padre, per la disperazione, si getterà dalla finestra della sua casa in piazza Tuscolo.
La notizia della strage attraversa Roma come un fulmine. Decine e decine di militanti giungono da ogni parte della città. La tensione è al massimo. Polizia e carabinieri, che hanno effettuato i rilevamenti, confermano la dinamica bestiale dell’agguato. Nei volti delle decine di ragazzi accorsi sul posto c’è sgomento e una rabbia profonda, tanto terribile quanto impotente. Un operatore della Rai butta con disprezzo (o con colpevole distrazione) una cicca di sigaretta sulla macchia di sangue ancora fresco di Ciavatta. E’ la scintilla, volano pugni, calci, interviene la polizia. Urla, bastonate, lancio di lacrimogeni, un’auto dei Carabinieri viene presa a calci. Il capitano Edoardo Sivori impugna la pistola, tenta di sparare, ma l’arma s’inceppa. Prende allora la pistola dell’autista e apre il fuoco ad altezza d’uomo contro il gruppo di missini. Stefano Recchioni, 19 anni, militante della sezione di Colle Oppio, viene colpito in fronte.
Morirà due giorno dopo, il 9 gennaio, all’Ospedale S. Giovanni dopo che, inutilmente, i suoi genitori si erano offerti di donare i suoi organi.
Nei corridoi dell’ospedale dove si sta spegnendo la sua giovane vita si consuma anche il dramma dei suoi camerati. Un dramma non scevro di amare conseguenze. La strage di quella notte s’inciderà, infatti, come un marchio di fuoco e il nome di Acca Larentia diventerà, per tutta una generazione, sinonimo stesso di martirio innocente e impotente. I colpevoli dell’agguato sono rimasti ignoti e liberi e ciò nonostante la rivendicazione firmata dai Nuclei Armati di Contropotere Territoriale e le confessioni di una pentita, Livia Todini, che portarono, nove anni dopo i fatti, all’arresto di Mario Scrocca, un infermiere che il giorno dopo essere stato interrogato dai giudici si tolse la vita in cella. Altri tre arrestati: Fulvio Turrini, Cesare Cavallari e Francesco de Martiis furono assolti in primo grado “per insufficienza di prove”, come pure Daniela Dolce, rimasta latitante.

 

FRANCO,FRANCESCO,STEFANO:
PRESENTE! PRESENTE! PRESENTE!




MAI PIU' ODIO, MAI PIU' INTOLLERANZA POLITICA, MAI PIU' TERRORISMO!

mercoledì 5 gennaio 2011

Il popolo italiano non ha dimenticato, Cesare Battisti deve essere estradato!


Il Ministro della Gioventù Giorgia Meloni al sit-in sotto l'amabascita brasiliana
Grande successo del sit-in sotto l'Ambasciata brasiliana per chiedere l'estradizione di Cesare Battisti. L'accorato appello di Torregiani, figlio di un gioielliere ucciso dal terrorista nel 1979, non ci ha lasciato indifferenti e ci ha spinto manifestare, riempiendo quella piazza di tricolori e voglia di giustizia. Non accettiamo che il Governo brasiliano si prenda gioco della credibilità internazionale dell'Italia per difendere gli interessi di un vile terrorista che da più di 30 anni scappa di paese in paese per evitare di espiare le sue colpe. Non accettiamo a nessun costo che le vittime del terrorismo assistano ancora una volta al cattivo utilizzo della giustizia, che non viene garantita a causa di scelte di parte. Siamo a loro fianco, e continueremo a manifestare, perché a loro e all'Italia tutta il Brasile deve GIUSTIZIA!