Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

sabato 19 marzo 2011

Luminarie di San Giuseppe.


'U Luminariu
Come da tradizione il 18 Marzo, sera che precede la festività di San Giuseppe, a Scandale si usa accendere fuochi "I Luminari" in onore del Santo. Questa antica tradizione che si perde nella memoria della nostra gente ha origine pagane che richiama verosimilmente i fuochi di Beltane, di origine celtica, che segnava il tempo della fine dell’inverno e l’inizio della metà luminosa dell’anno, ed era la grande festività dedicata ai riti di fertilità e alla propiziazione dei futuri raccolti, celebrati con banchetti e notti danzanti. In antichità per Beltane si spegnevano tutti i fuochi dentro le case, si preparava un grande falò rituale e con la sua fiamma si riaccendevano i fuochi domestici. Era, quello, il sacro fuoco di Bel o Belenos, importante dio celtico con attributi solari che si associa all’Apollo classico – “bel” significa “brillante” e porta la stessa radice di Belisama, la Sublime Dea “molto luminosa”. Lo ritroviamo in Gallia, in Britannia e in Irlanda, prende anche i nomi di Beli e Bile – quest’ultimo in gaelico significa «grande albero sacro» e nella tradizione popolare, proprio per l’occasione, si innalza il Palo del Maggio adornato da strisce di stoffa colorate. 
Anche da noi nella cultura contadina le luminarie avevano lo stesso scopo.
Con l'avvento del Cristianesimo  questa festa ha perso le sue caratteristiche di esaltazione della natura e venne trasformata in una festa in onore del Santo spostandone anche la data.
I fuochi consistono in enormi ammassi di frasche di ulivo che il popolo raccoglie nei luoghi aperti o in qualunque largo o "rue" ovvero rioni, con al centro un albero Chiamato " 'U San Giuseppi" che verrà arso insieme alle frasche dove simbolicamnte vengono innalzate al Cielo le preghiere, le suppliche e le speranze dei credenti. I preparativi iniziano con la potatura degli ulivi quando ragazzi e adulti si recano nelle campagne racogliendo le fronde tagliate portandole nei propri rioni.
La sera del 18 Marzo, dopo i primi vespri della Festa vengono accesi "I Luminari" durante il quale, per devozione, si preparano pietanze tipiche, come una minestra saporita e piccante di pasta e ceci, ovvero " 'U Cumbitu" dall'italiano convito proprio perchè venie consumato con vicini e parenti; e si banchetta con canti e danze popolari fino a tarda notte.
Infine la brace dei "Luminari" viene divisa fra la gente del quartiere per riscaldare le proprie case. Tanta è la devozione e la fiducia verso il Santo che in ogni rione la gente si mobilità per rendere il suo "Luminario" più bello dell'altro quasi fosse una gara.
In questa sera il paese si anima di uno spirito unico nel suo genere dove ogni asprezza e divisione sembrano sparire per condividere in armonia il dì di festa come una vera comunità fraterna.
Oggi purtroppo poca è la gente che s'impegna per organizzare "I Luminari" tanto che non più in tutti rioni si accendo i fuochi motivo causato anche dall'urbanizzazione del paese. Tuttavia ci sono varie associazioni come la Pro Loco che provvedono all'organizzazione della festa mantenendo viva la tradizione. A loro va il ringraziamento di un'intera comunità.

Buon San Giuseppe a Tutti!

Antonello Voce.

San Giuseppe

venerdì 18 marzo 2011

INNO DI MAMELI.

IL CANTO DEGLI ITALIANI.

Fratelli d'Italia,
l'Italia s'è desta,
dell'elmo di Scipio
s'è cinta la testa.
Dov'è la vittoria?
Le porga la chioma,
che schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò!
Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un'unica
bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l'ora suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò!
Uniamoci, amiamoci,
l'unione e l'amore
rivelano ai popoli
le vie del Signore.
Giuriamo far libero
il suolo natio:
uniti, per Dio,
chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò!
Dall'Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn'uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d'Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d'ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò!
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l'Aquila d'Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò.
Stringiamci a coorte,
siam pronti alla morte.
Siam pronti alla morte,
l'Italia chiamò!
Sì 
Tomba di Goffredo Mameli
 Dal 1947 "Fratelli d'Italia" o il "Canto degli Italiani", scritto da Goffredo Mameli (Genova 1827 - Roma 1849) nel settembre 1847 e messo in musica due mesi dopo da Michele Novaro (Genova 1822 - ivi 1885), è l'Inno Nazionale Italiano. Manca, tuttavia, una esplicita norma in tale senso, poiché rimase priva di seguito la relativa proposta, portata al Consiglio dei Ministri dall'On. Cipriano Facchinetti, il 12 ottobre 1946, Ministro della Guerra dell'epoca.
L'assenza di un'apposita sanzione normativa non ha, però, impedito al popolo italiano di riconoscere, in tutti questi anni, nelle parole e nella musica dell'Inno il simbolo dell'unità nazionale, al pari della bandiera tricolore, con la quale esso forma, anzi, un tutt'uno inscindibile.
Del resto l'Inno di Mameli (questa la denominazione assunta dall'Inno nella cultura corrente) fu associato alla Bandiera Tricolore come segno della volontà di indipendenza nazionale fin dai primi moti popolari che precedettero l'esplosione rivoluzionaria del 1848. E attorno alla Bandiera Tricolore e all'Inno Nazionale si strinsero i milanesi nelle Cinque Giornate del marzo '48. Non meraviglia, quindi, che il primo biografo di Cavour e di Vittorio Emanuele II, Giuseppe Massari, lo abbia definito come il vero e proprio Inno Nazionale italiano. E come tale dovette considerarlo anche Giuseppe Verdi, che lo inserì, accanto alla Marsigliese e all'Inno Nazionale inglese (God Save the King), nell'Inno delle Nazioni, da lui composto in occasione dell'Esposizione Universale di Londra del 1864.
Negli ultimi anni parole e musica di questo Inno sono state oggetto di numerose critiche e non sono mancate le proposte di sostituirlo con altre composizioni risorgimentali o addirittura contemporanee. Bisogna, però, dire che "Fratelli d'Italia", altamente apprezzato da Carducci e dal grande storico francese Jules Michelet, per la sua capacità di coinvolgere emotivamente gli ascoltatori, più di ogni altra composizione risorgimentale riesce ad esprimere un forte sentimento di vera unità nazionale, derivante da una lunga storia comune, che spinge, secondo i princìpi del mazzinianesimo, verso l'unione e l'amore in vista del conseguimento di un fine comune. E anche il ritornello, la parte più conosciuta, perché eseguita nelle manifestazioni ufficiali, sulla quale si appuntano le critiche più malevole, non è manifestazione di pura retorica ma esprime le convinzioni della migliore cultura italiana ed europea dei secoli XVIII e XIX. In questi versi si avverte, infatti, l'eco delle parole scritte da Condorcet nel Quadro storico dei progressi dello spirito umano, ove si legge: "Roma ha portato le leggi in tutti quei paesi in cui i Greci avevano portato la loro lingua, le loro scienze e la loro filosofia. Tutti questi popoli, sospesi ad una catena, che la vittoria aveva agganciato ai piedi del Campidoglio..." (CONDORCET, Quadro storico dei progressi dello spirito umano, Introduzione R. GUIDUCCI, Milano, 1989, p. 188). Ma unità e fusione non devono significare piatta conformità o, peggio ancora, soppressione del grande patrimonio ideale che si racchiude nelle diversità regionali: questo è il significato della quarta strofa, nella quale Mameli, con straordinaria concisione (che non era sfuggita a Garibaldi), rievoca i momenti più significativi della storia delle diverse aree dell'Italia. Ed è proprio per questo motivo che nell'Inno "Fratelli d'Italia" si possono trovare i segni distintivi dell'identità nazionale del nostro paese. 





giovedì 17 marzo 2011

ITALIA 150 ANNI D'AMORE.


17 Marzo 1861 - 17 Marzo 2011



 PER SEMPRE FRATELLI D'ITALIA



ITALIA: NATA PER UNIRE


1861: Nasce l'Italia:

Il Senato e la Camera dei Deputati hanno approvato; noi abbiamo sanzionato e promulghiamo quanto segue: Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d'Italia. Ordiniamo che la presente, munita del Sigillo dello Stato, sia inserita nella raccolta degli atti del Governo, mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato. Da Torino addì 17 marzo 1861".
Sono le parole che si possono leggere nel documento della legge n. 4671 del Regno di Sardegna e valgono come proclamazione ufficiale del Regno d'Italia, che fa seguito alla seduta del 14 marzo 1861 della Camera dei Deputati, nella quale è stato votato il progetto di legge approvato dal Senato il 26 febbraio 1861. La legge n. 4671 fu promulgata il 17 marzo 1861 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 68 del 18 marzo 1861.
In circa due anni, dalla primavera del 1859 alla primavera del 1861, nacque, da un 'Italia divisa in sette Stati, il nuovo regno: un percorso che parte dalla vittoria militare degli eserciti franco-piemontesi nel 1859 e dal contemporaneo progressivo sfaldarsi dei vari Stati italiani che avevano legato la loro sorte alla presenza dell'Austria nella penisola e si conclude con la proclamazione di Vittorio Emanuele II re d'Italia.

cameraTra il 1859 e il 1860 non ci fu un vero scontro tra l'elemento liberale e le vecchie classi dirigenti ma una rassegnata accettazione della nuova realtà da parte di queste ultime. Solo nel regno meridionale si manifestò una qualche resistenza, dopo la perdita della Sicilia e l'ingresso di Garibaldi a Napoli (7 settembre), senza colpo ferire, con la battaglia del Volturno e la difesa di alcune fortezze. Il nuovo Stato non aveva tradizioni politiche univoche (insieme ad un centro nord con tradizioni comunali e signorili, c'era un mezzogiorno con tradizioni monarchiche fortemente accentrate a Napoli) ma si basava su una nazione culturale di antiche origini che costituiva un forte elemento unitario in tutto il paese, uno Stato - come scrisse all'indomani della conclusione della seconda guerra mondiale un illustre storico svizzero, Werner Kaegi - che cinque secoli prima dell'unità aveva "una effettiva coscienza nazionale" anche se priva di forma politica. Nel rapidissimo riconoscimento del regno da parte della Gran Bretagna e della Svizzera il 30 marzo 1861, ad appena due settimane dalla sua proclamazione, seguito da quello degli Stati Uniti d'America il 13 aprile 1861, al di là delle simpatie per il governo liberale di Torino, ci fu anche un disegno, anche se ancora incerto, sul vantaggio che avrebbe tratto il continente europeo dalla presenza del nuovo regno.
Cominciò infatti a diffondersi la convinzione che l'Italia unita avrebbe potuto costituire un elemento di stabilità per l'intero continente. Invece di essere terra di scontro tra potenze decise ad acquistare una posizione egemonica nell'Europa centro-meridionale e nel Mediterraneo, l'Italia unificata, cioè un regno di oltre 22 milioni di abitanti, avrebbe potuto rappresentare un efficace ostacolo alle tendenze espansioniste della Francia da un lato e dell'impero asburgico dall'altro e, grazie alla sua favorevole posizione geografica, inserirsi nel contrasto tra Francia e Gran Bretagna per il dominio del Mediterraneo. 

 W L'ITALIA! 



mercoledì 16 marzo 2011

ITALIA... MAI STANCHI DI AMARLA, DI DIFENDERLA, DI CREDERE IN LEI.




Questa semplice iniziativa nasce per onorare degnamente questo compleanno della nostra amata Italia. 
Ci lega a questa data il nome stesso del nostro movimento, così come una comune visione del mondo e il dato anagrafico ci fanno sentire vicini ai tanti giovani che 150 anni fa hanno rischiato o sacrificato tutto quello che avevano per edificare una Nazione. Noi, come loro, vogliamo provare a essere degli eroi moderni che hanno il coraggio di gettare il cuore oltre l'ostacolo e di realizzare grandi sogni anche a soli venti anni.


PER SEMPRE FRATELLI D'ITALIA!

lunedì 14 marzo 2011

L'Angolo Culturale.

L'INVASIONE DELL'ITALIA.
 
Da quando è diventata uno Stato indipendente, nel 1861, l’Italia ha conosciuto tre invasioni del proprio territorio nazionale.
La prima ha avuto luogo dopo lo sfondamento di Caporetto, il 24 ottobre 1917, da parte degli eserciti austro-ungarico e germanico (ossia delle due nazioni ex alleate) e ha coinvolto solo una modestissima porzione del suolo patrio: il Friuli e la parte del Veneto che giace sulla sinistra del Piave, nonché le modeste conquiste in territorio nemico (Gorizia, in particolare), che, però, erano costate letteralmente fiumi di sangue.
Questa prima invasione venne contenuta con la battaglia d’arresto del novembre-dicembre 1917 e rigettata al di là dei confini nazionali con la battaglia di Vittorio Veneto, iniziata il 24 ottobre 1918 e terminata il 4 novembre successivo, al momento dell’entrata in vigore dell’armistizio italo-austriaco di Villa Giusti, presso Padova.
Anche se le province invase erano state poche (Udine, Belluno, un terzo di quella di Treviso e lembi di quelle di Vicenza e di Venezia), il pericolo era stato notevolissimo; anche perché, dopo la dodicesima battaglia dell’Isonzo, - quella che noi chiamiamo battaglia di Caporetto - l’esercito italiano sembrava in stato di dissoluzione e nessuno sembrava in grado di prevedere dove e quando sarebbe stato possibile arrestare la ritirata.
Gli Anglo-Francesi proposero il ripiegamento fino al Mincio; la brillante resistenza sul medio e basso corso del Piave e sugli Altopiani fu una vera e propria sorpresa, non solo per il nemico avanzante, ma per lo stesso popolo italiano e per i suoi dubbiosi alleati.
La seconda invasione incominciò il 10 luglio 1940 e investì la Sicilia, preceduta dalla caduta delle isole di Lampedusa e Pantelleria; quest’ultima, benché fosse stata trasformata in una imprendibile fortezza, si arrese senza aver avuto una sola perdita, prima ancora che il nemico iniziasse le operazioni di sbarco.
Questa volta, l’invasione proveniva dal Sud, dal Mediterraneo, e precisamente dal Nord Africa; dopo che, in Tunisia, le ultime forze italo-tedesche erano state costrette ad arrendersi, nonostante una valorosissima resistenza, davanti all’avanzata congiunta dei Britannici dall’Egitto (battaglia di El Alamein) e degli Americani dal Marocco e dall’Algeria francesi, i quali disponevano di una schiacciante superiorità terrestre, aerea e navale.
Tale invasione ebbe termine alla fine di aprile del 1945 (ai primi di maggio in Friuli e nella Venezia Giulia), con la resa delle ultime forze tedesche e fasciste nel Nord Italia; a meno che non si voglia prendere per buona la versione “democratica”, secondo la quale gli Anglo-Americani, dopo i tragici fatti dell’8 settembre, erano divenuti i nostri “liberatori” e, quindi, non dovevano essere più considerati dei nemici, ma degli amici; mentre gli amici del giorno prima, ossia i Tedeschi, divenivano bruscamente i peggiori nemici che il nostro Paese avesse mai conosciuto.
Sia come sia, liberatori o invasori, gli Anglo-Americani terminarono le operazioni militari solo dopo aver risalito tutta intera la Penisola, dall’estremo sud all’estremo nord, e solo dopo averla bombardata con inaudito accanimento, seppellendo sotto le macerie decine di migliaia di cittadini inermi; mentre, nelle regioni del centro-nord, si scatenava una guerra civile di ferocia belluina, quale il nostro popolo non aveva mai conosciuto in tutta la sua lunga storia.
Tragedia nella tragedia, le regioni dell’estremo nord-est conobbero una ulteriore invasione da parte delle truppe partigiane comuniste jugoslave, che si resero protagoniste di una delle pagine più nere a memoria d’uomo: quella delle foibe; senza contare che, in queste zone, la stessa resistenza partigiana finì per spaccarsi in due e per degenerare in episodi di massacro reciproco, come avvenne nelle malghe di Porzûs, nel febbraio 1945. Per Trieste, l’occupazione straniera – jugoslava i primi 40, terribili giorni; angloamericana poi – durò addirittura fino al 1954.
La terza invasione dell’Italia è quella odierna, intrapresa dagli immigrati provenienti dall’Africa, dall’Asia, dall’America Latina, dai Balcani e dall’Europa orientale ed incominciata verso la fine degli anni Settanta del ‘900 (ossia, meno di una generazione dopo che era terminata l’emigrazione degli Italiani in cerca di lavoro all’estero), grazie alla politica delle “porte aperte” praticata dai nostri governi, allora a guida democristiana, nonché come conseguenza delle politiche più restrittive adottate dagli altri Paesi europei.
Il primo censimento ISTAT degli stranieri presenti in Italia stimava il loro numero in 321.000, dei quali circa un terzo “stabili” e due terzi “temporanei”. Una evidente anomalia del fenomeno immigratorio – peraltro ancora estremamente contenuto – era il numero degli stranieri entrati clandestinamente in Italia e la relativa facilità con cui avevano varcato le nostre frontiere, sia marittime (al Sud) sia terrestri (al Nord-est).
Proprio per porre ordine in una tale situazione, nel 1982 venne proposto un primo programma per regolarizzare la posizione degli immigrati privi di documenti. Come si vede, nessuno pensò di procedere alle espulsioni e al rafforzamento della sorveglianza alle frontiere, ma si considerò inevitabile accettare che quanti erano entrati illegalmente nel nostro Paese, potessero restarvi, purché si fornissero di passaporto.
Allora, forse, quasi nessuno se ne rese conto, ma quella mossa fu disastrosa sul piano psicologico: significava l’inizio di una resa a discrezione. In tutta la sponda sud del Mediterraneo, in tutta l’Africa, l’Asia e l’America Latina, in Albania e negli altri Paesi dell’ex blocco sovietico, si sparse la voce che il governo italiano non poteva o non voleva far rispettare i propri confini ed era più che disponibile a legalizzare la posizione di chiunque fosse riuscito ad introdursi clandestinamente nel suo territorio.
Senza esagerare, crediamo che l’effetto psicologico, fuori d’Italia, fu altrettanto grave di quello prodotto dalla battaglia di Fornovo sul Taro, il 6 luglio 1495. Se in quel fatto d’armi, come ha osservato Luigi Barzini junior, l’esercito francese di Carlo VIII fosse stato distrutto, nessun esercito straniero si sarebbe azzardato a ripetere la sua impresa con altrettanta arroganza e con altrettanta sicurezza, certo di non incontrare alcuna resistenza (la famigerata “guerra del gesso”).
Ma il comandante dell’esercito della Lega degli Stati italiani, Francesco Gonzaga, benché disponesse della superiorità numerica e benché si trovasse in una favorevole posizione tattica, inspiegabilmente si lasciò sfuggire l’occasione di assestare una tremenda lezione agli invasori: e Carlo VIII, benché malconcio e costretto ad abbandonare tutto il suo bottino, riuscì ad aprirsi la strada e a rientrare in Francia con l’esercito.
Da quel momento, tutta l’Europa conobbe il delicatissimo segreto: che l’Italia, il Paese più ricco e più civile dell’intero continente, era anche il più debole e il più facile da conquistare. E incominciò la secolare tragedia delle invasioni stranire e della perdita dell’indipendenza, suggellata dalla tremenda umiliazione nazionale del sacco di Roma, nel 1527.
A questo punto dobbiamo spiegare perché riteniamo che l’immigrazione straniera in Italia di questi ultimi tre decenni si configuri come una vera e propria invasione; e perché le esitazioni del governo italiano a considerare l’ingresso illegale alla stregua di un reato, nonché la sua rassegnazione alla “inevitabilità” del crescente movimento migratorio, costituiscano l’equivalente psicologico della mancata vittoria di Fornovo del 1495.
Una invasione può essere armata oppure no; può essere violenta o incruenta: le migrazioni dei popoli antichi erano, sovente, caratterizzate da un minimo di violenza o, addirittura, da una pacifica mescolanza. I Germani stavano invadendo la Gallia, allorché Cesare sbarrò loro la strada, li ricacciò oltre il Reno e assoggettò a Roma la Gallia medesima: se non vi fosse stato l’intervento romano, l’occupazione germanica di quel Paese sarebbe stata certa e, quasi sicuramente, pressoché incruenta,.
È molto probabile che anche la migrazione degli Ebrei nell’antica Palestina sia avvenuta in maniera relativamente pacifica, nonostante ciò che dicono in contrario i libri del Pentateuco, i quali parlano di stragi e devastazioni sistematiche: ma come credere che un popolo di pastori nomadi sia divenuto un popolo bellicoso nello spazio di una sola generazione o poco più, al punto da poter sopraffare degli esperti guerrieri come i Filistei?
Il più delle volte, le migrazioni dei popoli assumevano un carattere decisamente violento allorché si scontravano con la resistenza di entità statali bene organizzate, per quanto politicamente e militarmente in declino. Tale fu il carattere delle guerre fra i cosiddetti Popoli del mare e gli Egizi, durante il regno di Ramses III; fra i Mongoli e i Cinesi, all’ombra della Grande Muraglia; fra i Germani e i Romani, a partire dal III secolo dopo Cristo, lungo il “limes” del Reno e del Danubio.
Le invasioni degli Angli, dei Sassoni e degli Juti in Gran Bretagna, a partite dal V secolo, e, in seguito, quelle dei Danesi e dei Norvegesi, per finire con l’ultima, quella dei Normanni che conquistarono l’isola nel 1066, ebbero, sì, carattere violento, ma non si risolsero in un genocidio dei vinti: tanto è vero che i discendenti della popolazione celtica sopravvivono ancora nella Scozia, nel Galles e nell’Irlanda odierni.
Ora, l’attuale flusso d’immigrati in Italia presenta precisamente i caratteri di una invasione: se le parole hanno un significato, “invasione” è l’ingresso massiccio di un gruppo estraneo nel territorio di uno Stato sovrano, senza che quest’ultimo possa opporvisi. E i nostri governanti non osano opporsi: moralmente ricattati da una cultura “buonista” che vorrebbe accogliere tutti, aprire le braccia a tutti, per non sentirsi indegni e spregevoli nel caso si comportassero diversamente, hanno fatto passare nel mondo l’immagine di un Paese colabrodo, dove chiunque può entrare illegalmente e poi, con comodo, regolarizzare la propria posizione.
Nel 1991, secondo il censimento ufficiale, gli straneri erano saliti a 625.000; e, a partire dal 1993, il saldo migratorio è divenuto il solo responsabile della crescita della popolazione italiana, perché gli stranieri fanno molti più figli degli Italiani e ciò significa che, fra due o tre generazioni, anche se – per ipotesi – l’immigrazione cessasse, la percentuale degli stranieri sarà cresciuta di due o tre volte rispetto a quella attuale. Il primo tentativo di regolamentare i flussi migratori – di regolamentarli, si badi, e non di respingerli – è stato fatto con la legge Martelli, del 1990: che, dopo sei mesi, portò al riconoscimento della presenza di altri 200.000 illegali (o, come si preferisce dire, “irregolari”).
Seconda dati della Caritas, nel 1996 il numero totale degli stranieri era salito a 924.500, vale a dire poco meno di un milione; nel 2001, era già passato a 1.335.000; nel 2005, a 1.990.000.
Il 1° gennaio 2011, secondo i dati ISTAT, gli stranieri sono arrivati alla cifra di 4.563.000: crescita vertiginosa, dovuta non solo al costante afflusso di immigrati, ma anche al saldo naturale, come già accennato, di quelli presenti in Italia.
In percentuale, il 7,5% della popolazione italiana risulta ormai composto da stranieri; e tale incremento non accenna a rallentare.
Solo nel 1998 la legge Turco-Napolitano cercò di intervenire nuovamente per regolarizzare la condizione dei clandestini ed istituì i Centri di accoglienza temporanea per gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione.
Ma bisogna arrivare al 2002, con la legge Bossi-Fini, per fare un po’ di maggiore chiarezza e per autorizzare anche l’eventuale espulsione immediata dei clandestini – il tutto sotto il fuoco di fila delle critiche dei “progressisti”, degli “umanitari” e di molti cattolici che non sanno fare alcuna distinzione fra il senso della cristiana accoglienza, come virtù personale dell’individuo, e le esigenze di protezione di un grande Paese che non potrebbe, anche volendolo, accogliere milioni di stranieri ed offrire loro un posto di lavoro – non parliamo poi dei molti, dei troppi, che vengono in Italia al preciso scopo di delinquere, di sfruttare la prostituzione, di spacciare droga o, peggio, di vivere di furti, rapine e altre forme di criminalità organizzata.
Per anni ed anni ci siamo sentiti dire che l’immigrazione è una risorsa; che gli stranieri svolgono quei lavori, più pesanti e meno remunerati, che gli Italiani rifiutano; che la società multietnica e multiculturale è la vera società democratica del futuro.
Per anni ed anni ci siamo sentiti ripetere, specialmente dagli uomini politici della parte che si autodefinisce progressista, che chi la pensa diversamente è un bieco reazionario, un incivile, che non sa vedere al di là del proprio naso, che è fuori della storia e fuori della realtà.
In poche parole, l’immigrazione non è mai stata oggetto di una seria riflessione o anche solo di un dibattito a livello nazionale: la si è sempre data per scontata, come un evento ineluttabile e, nel complesso, molto positivo; anche se pochi si sono presi la briga di articolare tali argomentazioni e di supportarle con cifre e con dati di fatto.
Si è fatta, semplicemente, molta retorica.
Non abbiamo fatto distinzione, sinora, nel presente ragionamento, tra immigrazione legale e illegale, e ciò per una buona ragione: se quella illegale è semplicemente assurda, e qualunque altro paese al mondo, a cominciare dai nostri vicini come la Francia, la Svizzera e l’Austria, non lo tollerano in alcun modo, quella cosiddetta “regolare” si svolge pur sempre in un clima di ricatto: impossibile impedirla, al massimo si può pensare di limitarla, contenerla, selezionarla, ma molto, molto timidamente e, comunque, consapevoli che il flusso continuerà, anno dopo anno, inarrestabile, fatale come il destino.
Il nostro destino è segnato: dobbiamo accogliere sempre più stranieri, indefinitamente: questo vuole la nostra educazione; questo proclama la Chiesa cattolica, per bocca sia dei vertici, sia dei parroci; e chi la pensa diversamente è considerato poco cristiano, poco caritatevole, poco umano.
Non importa se la crisi ci sta mettendo in ginocchio, se le fabbriche chiudono, se migliaia di famiglie si trovano letteralmente allo sbando per la perdita del posto di lavoro: dobbiamo stringerci e aggiungere un posto a tavola. Non possiamo accettare un’immagine egoista di noi stessi; non possiamo sopportare i sensi di colpa che ci verrebbero dal sospetto di essere considerati razzisti: siamo condannati ad essere “buoni”.
Sì, è duro fare questo discorso: non lo si vorrebbe fare; e tuttavia, bisogna che qualcuno lo faccia: non possiamo permetterci di continuare così. O si pone un drastico freno all’immigrazione, non solo clandestina, ma anche regolare, oppure la situazione sociale diverrà ingovernabile.
Paesi come la Gran Bretagna, ove gli stranieri residenti sono già arrivati alla quarta generazione, sanno quanto sia difficile l’integrazione; sanno che il sogno di una società multiculturale è tramontato.
Paesi come la Francia, che pure hanno una antica tradizione multietnica per via della loro storia coloniale, hanno imparato, dai roghi delle banlieues, che queste cose non si possono gestire con ingenua faciloneria.
Chiunque possieda un sia pur minimo senso di responsabilità, dovrebbe avere imparato che una immigrazione di queste proporzioni, che si rovescia sull’Europa in tempi così brevi e che non lascia margini di discussione e di eventuale rifiuto da parte dei Paesi ospitanti, non può portare a nulla di buono.
È difficile trovare l’atteggiamento giusto, davanti a simili problemi.
Non vi è alcun dubbio che una politica meno egoista e più lungimirante, da parte dei Pesi del Nord della Terra, avrebbe disinnescato la bomba migratoria o ne avrebbe ridotto di molto gli effetti: non si può tacere che, se tante persone fuggono dal Sud per rifarsi una vita altrove, ciò è dovuto anche allo sfruttamento delle multinazionali, al cinismo degli organismi finanziari internazionali, alla maniera furbesca e cialtrona con cui è stata portata avanti la politica dei governi del Nord nei confronti dei Pesi del Sud del mondo.
Pure con tutto ciò, non ne consegue che il popolo italiano debba subire le conseguenze disastrose di quegli errori, di quelle manchevolezze, di quella cecità.
Quando si vedono gli immigrati clandestini tunisini, a torto chiamati “profughi” dai telegiornali, che, appena sbarcati a Lampedusa, a centinaia, a migliaia per volta – tutti uomini giovani e sani, nessuna donna, nessun vecchio, nessun bambino – sventolano la bandiera del loro Paese, alzando l’indice e il medio nel segno di vittoria, non si può non restare perplessi.
Non fuggono dalla guerra e dalla fame; prendono a pretesto la caduta di Ben Alì per rovesciarsi in massa sull’Italia, pretendendo, dall’oggi al domani, una vita diversa: quella, fasulla e scintillante, che la nostra televisione, dall’altra sponda del Mediterraneo, ha fatto intravedere loro per tutti questi anni, ma che in realtà non esiste nemmeno per noi.
Vengono come un esercito di conquistatori: pacifici, per ora: ma non accettano un respingimento. Se respinti, giurano che torneranno: una, cinque, dieci volte. Hanno pagato mille euro agli scafisti, vendendo i loro beni: si sono bruciati i ponti alle spalle. Non chiedono di entrare in Italia, lo esigono.
Però, lo ripetiamo, non stanno fuggendo da guerre o da pericoli: al contrario, questo sarebbe il momento per ricostruire la loro Patria, con rinnovate speranze nel futuro. Se democrazia e libertà valgono qualcosa, questo sarebbe il momento per restare, per prendere in mano il loro destino e creare condizioni di vita migliori per le loro famiglie.
La loro folle corsa verso l’Italia assomiglia a un gigantesco sciopero dalla propria cittadinanza, dalla propria condizione; però, al tempo stesso, quelle bandiere tunisine, tirate fuori al momento dello sbarco (e tutti ricordiamo le bandiere della Cina, all’epoca della sommossa della colonia cinese di Milano), dicono che essi non vengono per integrarsi, ma per conquistarci.
Qualcuno si immagina i nostri nonni, che raggiungevano il Brasile o l’Argentina dopo settimane di navigazione, stipati sulle navi dei poveri emigranti, ma con tutti i documenti in regola e un contratto di lavoro nella tasca della giacca, che, appena sbarcati a San Paolo o a Buenos Aires, tiravano fuori la bandiera tricolore e alzavano le mani in segno di vittoria? Quelli, erano dei veri emigranti; questi, invece, sono dei conquistatori.
Lo diciamo senza odio e senza cattiveria. Non si può non provare rispetto per ogni essere umano, specie se povero e sfortunato. Ma si hanno dei doveri nei confronti del proprio Paese: non si può far salire a bordo di una scialuppa, capace di imbarcare venti persone, cinquanta o cento naufraghi. Sarebbe crudeltà verso quei venti che potrebbero salvarsi.
Perfino coloro che fuggono dalla guerra o dalla carestia – e non è il caso, oggi, né dei Tunisini, né degli Egiziani, e solo in parte dei Libici – non dovrebbero essere accolti indiscriminatamente. Se bastasse lo status di rifugiato per autorizzare chiunque a venire in Europa, o in Italia, allora nel giro di pochi anni decine o centinaia di milioni di esseri umani si precipiterebbero qui. Gli effetti delle guerre e delle carestie non si curano accogliendo intere popolazioni, ma cercando di creare condizioni migliori di vita nei rispettivi Paesi di provenienza.
Vorremmo che così non fosse; ci piacerebbe che si potesse accogliere chiunque, ospitare chiunque, magari senza nemmeno chiedergli chi è e cosa lo spinge lontano della sua casa e dai suoi affetti, come fece Nausicaa con Odisseo, sulle spiagge rocciose dell’isola dei Feaci.
Ma questo non è possibile: bisogna essere realisti e prenderne atto. Non possiamo ipotecare l’avvenire dei nostri figli e dei nostri nipoti con una politica di accoglienza che è null’altro che una resa camuffata davanti ad una invasione.
Certo, vorremmo che a dire queste cose fossero gli intellettuali “perbene”, e che a legiferare in materia fossero dei politici umani, aperti, intelligenti: non dei demagoghi che cavalcano le paure del cittadino medio quando fa loro comodo per strappare un pugno di voti in più, salvo poi dimenticarsene non appena sono stati eletti.
Ma è proprio la demagogia di costoro che ci obbliga a parlare in questo modo, senza alcun sentimento di razzismo o, meno ancora, di odio, nei confronti degli altri popoli. Ogni civiltà, ogni cultura meritano rispetto, così come ogni essere umano: da ciò, tuttavia, non deriva un dovere di accoglienza illimitata.
La compassione, quando si parla della difesa del bene comune, della pace comune, della sicurezza comune, deve accompagnarsi ad una giusta severità.
Una maggiore severità oggi, potrà permetterci di essere più generosi domani.
Una ulteriore, malintesa forma di generosità oggi, ci costringerà, domani, a pentirci amaramente delle nostre scelte: se non per noi, per quelli che verranno dopo di noi.

sabato 12 marzo 2011

In ricordo di Angelo Mancia.


Nato e sviluppatosi negli anni ’60 ad opera dei soliti palazzinari senza scrupoli, con strade strette e senza strutture pubbliche, Talenti, è ben presto diventato un quartiere dormitorio senza spazi per i giovani, costretti per vedersi a formare le solite comitive davanti ai bar della zona. Era proprio tra queste comitive che Angelo era diventato assai popolare. Simpatico ed irruento, dall’atteggiamento guascone ma allo stesso tempo rassicurante, Angelo riusciva a convincere i giovani di Talenti, che la mattina erano tormentati nei licei "rossi" della zona (Orazio e Archimede in testa...) a lasciare i bar e le bische ed a frequentare la "Sezione di Via Martini". In poco tempo si creò un gruppo molto unito che oltre alla militanza politica iniziò a dividere una grande amicizia. La militanza politica si alternò quindi ai momenti di svago, tutti trascorsi insieme: si andava insieme a sciare o al mare, mentre a primavera tutti eravamo concentratissimi sul torneo "Fiamma" che per diversi anni fu accanitamente conteso tra tutte le sezioni missine di Roma. Talenti era però accerchiato da veri e propri feudi "rossi" (da una parte S. Basilio e dall’altra Tufello e Val Melaina con il tristemente noto collettivo autonomo) ed era quindi facilmente raggiungibile dai "gruppettari". Qui più che in altre zone si viveva quindi in attesa delle immancabili aggressioni e provocazioni. Più volte respinti in piazza, ai compagni non restò che adottare tattiche di partigiana memoria quali l’agguato, l’imboscata e l’attentato dinamitardo notturno. Un po’ tutti noi, chi prima chi dopo, chi in un modo chi in un altro ne rimanemmo vittime. Quando poi con l’istigazione dei partiti di regime, la complicità della stampa e la copertura delle istituzioni si scatenò una vera e propria persecuzione nei confronti della Destra e dei suoi militanti che assunse a Roma la forma di una vera e propria guerra civile "strisciante", agguati, assalti ed attentati alle nostre sedi e ai nostri militanti non si contarono più. " Talenti" pagò allora un prezzo assai alto con l’assassinio, nel 1977, di Bruno Giudici, papà di Enzo, intervenuto in difesa del figlio aggredito sotto casa, e con quello, nel 1979, di Massimo Cecchetti avvenuto davanti al " Baretto " di Largo Rovani. Riuscirono anche a chiuderci la sezione, in base alla famigerata legge sui "Covi", quando, in seguito ad una delle tante perquisizioni di "regime" venne trovata una tanica che, a detta degli inquirenti, doveva aver contenuto benzina per fare attentati e che, a seguito di successive analisi i cui risultati vennero rivelati solo dopo tre anni, risultò aver contenuto solo colla per manifesti! Angelo riuscì tuttavia a tenere unito il gruppo e continuammo ad essere presenti sul nostro territorio e dovunque servisse la nostra presenza in supporto dei camerati degli altri quartieri... ...si arrivò poi, purtroppo, al 1980...
Il mese di marzo del 1980 rimane una tappa indiscutibilmente tragica nella triste storia del terrorismo rosso a danno del mondo anticomunista, di quel nostro mondo così fiero da restare in piedi di fronte ai drammi più immani. Quando il 7 di quel mese ignoti avevano cercato la strage nella tipografia del "Secolo d’Italia", facendo esplodere due bombe, si credette che l’apice della violenza sanguinaria e barbara, posta in essere dal marxismo, fosse stato ormai raggiunto. Non era purtroppo così. Infatti domenica 10 marzo gli assassini rossi, non riusciti nel loro intento omicida al "Secolo" ci riprovavano, ritentavano la strage. Volevano uccidere i militanti del Fronte della Gioventù di via Sommacampagna, sede provinciale dell’organizzazione giovanile. La fortuna volle che un giovane entrato in uno sgabuzzino per prendere un pennello, vide una borsa sospetta. Avvisato il locale comando dei carabinieri; l’artificiere, una volta tanto prontamente arrivato, disinnescò l’ordigno contenuto nella borsa alle 11:28, appena due minuti di ritardo e sarebbe esploso, con chissà quali conseguenze.
I compagni organizzati in "volante rossa", questo l’appellativo che si erano dati i protagonisti dell’attentato al "Secolo d’Italia", firmavano anche questa volta la tentata strage, il loro disegno criminoso, andato in fumo grazie alla prontezza di uno dei giovani militanti del Fronte della Gioventù. Ancora una volta contro il coraggio e la forza delle idee , il comunismo dimostrava di saper rispondere solamente con il tritolo, con le bombe, alla ricerca di stragi. Il bisogno di sangue non si poteva quindi placare, non avevano potuto ben vendicare il compagno Valerio Verbano.

Dall’esecuzione di Verbano all’assassinio di Angelo Mancia

In quei giorni un grave fatto aveva contribuito a ridestare un clima di antifascismo militante, di caccia all’uomo. Era morto in circostanze oscure Valerio Verbano, militante dell’Autonomia Operaia. I comunisti addossarono subito all’ambiente di destra la responsabilità di quell’assassinio, nonostante nessuno lo avesse rivendicato e non avesse alcun significato l’omicidio di un esponente che nell’estrema sinistra, aveva un ruolo non di primo piano.
Ciò nonostante fu affisso un manifesto, in quei giorni, che prometteva una pronta vendetta del Verbano, c’era scritto che non sarebbero bastate "100 carogne nere". Purtroppo, ancora una volta, la magistratura non intervenne, gli autori del manifesto, firmato dai compagni dell’Autonomia non vennero arrestati, quasi che non fossero noti alla questura. L’11 marzo colpirono ancora, ed ancora una volta si sbagliarono, volevano uccidere questa volta un dirigente romano del MSI ed andarono sotto casa sua ad aspettarlo. Spararono, più volte, contro colui che credettero essere il loro obiettivo, rivendicarono il crimine convinti di essere riusciti nel loro intento, invece avevano sbagliato ancora una volta, avevano assassinato un cuoco, Luigi Allegretti, tra l’altro iscritto alla CGIL, che nel buio avevano confuso con il militante missino designato. L’attentato al "Secolo", la bomba alla sede di via Sommacampagna, l’omicidio per "sbaglio", così fu etichettato dalla stampa a noi avversa, quasi che se i terroristi avessero colpito chi desideravano sarebbe stato giudicato un omicidio "giusto", non erano riusciti a dare agli odiati "fascisti" una risposta precisa all’omicidio di Valerio Verbano. Ci voleva un fatto eclatante, infatti in quei giorni numerose abitazioni di militanti del MSI furono bombardate dal tritolo sovversivo e sempre per puro caso non ci furono danni alle persone. Bisognava colpire un simbolo, una persona che non aveva mai avuto paura di loro, qualcuno che aveva sempre risposto in prima persona alle loro provocazioni, con il coraggio della lotta a viso aperto, incurante del numero degli avversari e sicuro della propria fede, uno che non si sarebbe mai piegato se non a causa di un colpo di pistola! Avevano trovato quella persona, quel "fascista di razza" (così lo definirono nel volantino di rivendicazione), era Angelo Mancia, segretario della sezione Talenti, dipendente del "Secolo d’Italia", rappresentante sindacale aziendale (RSA) della CISNAL. Stava uscendo di casa, poco dopo le 8:30 di quel 12 marzo, come ogni giorno diretto al lavoro, come addetto ai servizi esterni del "Secolo" e della Direzione Nazionale del Partito; ad attenderlo c’erano i suoi assassini, appostati dietro un furgone blu posteggiato davanti al cancello di via Tozzi 10, da dove Angelo stava uscendo, avvicinandosi al proprio motorino. Bastò un attimo per rendersi conto di quanto stava succedendo. Visti i terroristi, Angelo cercò rifugio nel portone di casa, non fece in tempo, il fuoco assassino dei comunisti lo raggiunse alla schiena; non contenti, gli assassini spararono ancora, alla nuca, volevano essere sicuri di non aver fallito anche questa volta. 
Le barricate per un ora erano cadute, ma solo per quella triste ora, quando il mondo "democratico" sembrava essersi stretto intorno al nostro lutto. Subito dopo durante lo stesso corso dei funerali, il volto sanguinario del regime, che aveva armato la mano dei delinquenti rossi, riappariva spettrale e fanatico. Già la mattina del 14 marzo alcuni giornali cominciavano, odiosamente, a disegnare variegati volti di Angelo Mancia: squadrista, picchiatore, furono alcuni epiteti con cui dei pennivendoli al soldo del sistema cercarono di infangare il nome del Martire. La stampa antifascista, doveva in qualche modo "giustificare" o "attenuare" quest’omicidio, tanto, dicevano alla Rai e scrivevano sui giornali, era un violento. Niente di più falso, lo ribadiamo, il fatto che egli fosse un ragazzo di destra "pulito" era dimostrato anche dal suo certificato penale che dichiarava in relazione alle sue presunte colpe: NULLA! Sotto scrosci di pioggia battente, insieme con i familiari, tantissime persone accompagnarono Angelo alla Basilica di S. Maria degli Angeli e dei Martiri, dove veniva officiato il rito funebre, dando la dimostrazione con la presenza attiva e silenziosa, che dietro ogni nostro caduto altri giovani erano pronti a continuare la lotta in nome di chi era stato vilmente assassinato. Tanta era la commozione, insieme ai fiori, alle corone, ai cuscini, c’era una corona su cui era scritto: "Caro Angelo, il tuo ricordo sarà sempre nel nostro cuore, insieme con il nostro Francesco, che ti voleva molto bene. Valeria, Maria Carla e Antonio Cecchin": la comunione nel martirio. Terminato il sacro rito, il Segretario del Partito, on. Giorgio Almirante pronunciava una toccante orazione funebre “Al bestiale e blasfemo urlo dei barbari noi opponiamo le grida degli uomini forti e vivi che per ogni caduto sono pronti a combattere nel tuo nome, Angelo, con il metodo della libertà, per la libertà.". Era andato, nel dolore, tutto bene, la commozione prevaleva sul, sia pure umanamente giustificabile, senso di rabbia, ma la provocazione doveva purtroppo scattare. Qualcuno, lontano dalla folla, scagliava una bottiglia incendiaria, riuscendo così ad intaccare il suggestivo silenzio della piazza. Immediatamente i lacrimogeni della polizia diffondevano il loro acre odore, a guastare quello cristiano del divino incenso. La gente presente al funerale veniva manganellata e malmenata dagli agenti, scoppiavano incidenti, alla fine dei quali veniva arrestato un estremista di sinistra. Fino ad oggi non è stata fatta ancora giustizia, per Angelo, come per tanti altri giovani martiri; non sono state, volutamente, fatte indagini per scovare chi lo aveva assassinato, per non disturbare i piani di chi voleva che tutto rimanesse immutato. La nostra lotta per ricordare e vendicare con la forza delle idee che ci guidano Angelo Mancia, quindi, prosegue, senza paura, sulla strada per cui Egli è Caduto! Continueremo, nel suo nome, a percorrere il suo cammino, certi che sia con noi nelle nostre riunioni e nelle battaglie politiche, ideali e sociali che quotidianamente combattiamo nel nome del nostro mondo, un mondo che sa guardare a faccia alta i suoi avversari, così come Angelo ha sempre fatto.

Oggi, nell'anniversario del suo sacrificio, quelle parole non si sono asciugate nell’inchiostro di un manifesto o nel rito della commemorazione. E’ un epigrafe che diventa grido, urlo. Contro un martirio che  aspetta risposta. Che non ha giustizia. Perché nessuno verrà mai arrestato, nessuno verrà mai indagato o processato. Nessuno si pentirà mai o parlerà. Eppure chi fossero gli assassini era chiaro a tutti. Avevano firmato perfino un manifesto il giorno seguente il vile attentato, con cui vigliaccamente avevano tappezzato il quartiere. Eppure le autorità non fecero niente. Ma noi non dimentichiamo, e nella nostra memoria è inciso come segno indelebile, l’esempio del suo estremo sacrificio. E allora una piccola rivincita, doniamogliela noi, col cuore puro. Perché a trent’anni di distanza e per mille anni ancora, leviamo sempre forte quella voce, che senta bene fra le stelle, che chi cade combattendo non muore mai:

CAMERATA ANGELO MANCIA … PRESENTE!

  

lunedì 7 marzo 2011

Giorgia Meloni: “Niente immunità con questa legge elettorale”


 
“Non credo che il ritorno dell’immunità parlamentare sia un tema nelle carte che vedremo giovedì in Consiglio dei ministri”. Giorgia Meloni, nell’intervista a SkyTG24, si dice contraria alla reintroduzione dello scudo parlamentare.
E’ un tema sul quale è legittimo discutere, ma il ripristino dell’immunità non può prescindere dalla modifica della legge elettorale”, ha spiegato il ministro dei Giovani. “Non possiamo calare l’immunità in un arlamento di nominati, se invece ripristiniamo la scelta dei cittadini è un’altra cosa”, ha aggiunto.
Più in generale, sulla riforma della giustizia attesa in Cdm per giovedì prossimo, la Meloni ha detto: “Vedremo le carte, la questione è complessa. Un tema come la separazione delle carriere mi sento di sostenerlo. Altre questioni sono da vedere più a fondo, come la discrezionalità dell’azione penale”. “Comunque – continua- è sbagliata l’idea di un governo che passa le giornate a occuparsi di giustizia. Se ne occupa il ministro Alfano, tutti gli altri si occupano di altro”.

Il ministro dice poi di non avere alcun problema a confrontarsi con le istanze emerse dal movimento delle donne che ha organizzato la manifestazione dello scorso febbraio “Se non ora quando?” (l’8 marzo sono previste altre iniziative).
“Al di là delle manifestazioni contano gli strumenti che si mettono a disposizione delle donne, e questo governo Berlusconi è quello che ha dato più risposte di tutti”, ha sottolineato.
“Noi non dobbiamo prestarci a una patetica guerra tra donne, ma non è che i milioni di donne che non sono scese in piazza il 13 febbraio non vogliono essere giudicate per il merito”, ha proseguito Meloni che ha anche parlato dell’assenza di Daniela Santanchè alla manifestazione delle donne del Pdl di ieri a Roma e delle voci che fosse una assenza polemica: “Non commento i ‘qualcuno dice’, ci si fanno camminare i treni. Ognuno fa politica come crede, verrà giudicato dal popolo”.
Il ministro ha anche puntato il dito sulla sinistra: “Se citassi tutti gli insulti che dobbiamo subire ogni giorno senza che dall’altra parte arrivi una parola faremo notte. E’ sull’incapacità della sinistra di esprimere solidarietà che questa battaglie perdono credibilità”.