Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

martedì 31 gennaio 2012

TONNELLATE D’ORO CUSTODITE DA BANKITALIA: E’ L’ORA DELLA VERITA’.



In una delle puntate del programma “Ulisse” Alberto Angela compie un viaggio all’interno della “sagrestia” di Palazzo Koch, dove viene custodito dalla Banca d’Italia tutto l’oro Italiano. Almeno così ci racconta il figlio di Piero. Nel corso dell’escursione il conduttore racconta che una parte dell’oro italiano è stato esportato, per motivi di sicurezza nazionale, in tre punti strategici del globo: la Federal Reserve in U.S.A., la Bank of England e la Banca dei regolamenti internazionali a Basilea. Ma chi ha preso questa decisione? E perchè? Ma soprattutto, essendo Bankitalia una società di diritto pubblico da sempre in mano a privati (cfr. Bruno Tarquini, La Banca la Moneta, l’Usura – Ed Controcorrente), è ragionevole chiedersi a chi appartenga la proprietà dell’oro custodito nella sagrestia di palazzo Koch.


Quanto raccontato da Alberto Angela trova riscontro in un articolo di repubblica del 1/08/2009 dal titolo: L’oro italiano? A Manhattan La Fed detiene parte dei lingotti.

On. Fabio Rampelli (Pdl)
Due deputati del Popolo della Libertà, Fabio Rampelli e Marco Marsilio, dopo aver visto il programma Ulisse e l’articolo di Repubblica, hanno presentato il 19/01/2012 un’interrogazione al Ministro dell’Economia e delle Finanze per avere delucidazioni in merito.
Restiamo in fervida attesa di conoscere la risposta che, qualunque essa sia, imporrà al mondo politico italiano una seria riflessione sul ruolo delle Banche Centrali, sul meccanismo del debito pubblico e sulla creazione della moneta da parte delle stessa da almeno un secolo a questa parte.

Atto Camera
Interrogazione a risposta scritta 4-14567 presentata da
FABIO RAMPELLI
giovedì 19 gennaio 2012, seduta n.573
RAMPELLI e MARSILIO. -
Al Ministro dell’economia e delle finanze.
- Per sapere – premesso che:
da un articolo pubblicato sul noto quotidiano nazionale La Repubblica, datato 1o agosto 2009 e dal titolo «L’oro italiano? A Manhattan. La Fed detiene parte dei lingotti» si apprende che gran parte della riserva aurea italiana sarebbe custodita presso uno stabile sito vicino la Federal Reserve statunitense, a New York;
dallo stesso articolo, si evince inoltre che altri quantitativi della nostra riserva aurea, seppur minori rispetto al succitato, vengono detenuti presso la Banca d’Inghilterra e presso la Banca dei Regolamenti internazionali con sede a Basilea;
la stessa notizia viene riportata dalla trasmissione televisiva «Passaggio a Nord Ovest», noto programma di approfondimento di RAI 1, nella puntata andata in onda in data 11 settembre 2010;
dalle stesse fonti si apprende inoltre che una parte dell’oro custodito presso i forzieri della Banca d’Italia, nella sede di via Nazionale a Roma, non sarebbe sotto la nostra diretta custodia perché affidato alla Banca centrale europea -:
se quanto citato in premessa corrisponda al vero ed, eventualmente, quando e in base a quale accordo o disposizione di legge sia stata assunta una tale decisione e se tale scelta «strategica» sia ancora ritenuta funzionale agli interessi dell’Italia;
a chi appartengano la proprietà della riserva aurea detenuta a Palazzo Koch e la proprietà della riserva aurea detenuta nelle sedi estere;
se l’Italia abbia la completa disponibilità delle succitate riserve auree, sia di quella detenuta presso la Banca d’Italia, sia di quelle eventualmente detenute presso sedi estere. (4-14567)

E’ POSSIBILE SEGUIRE L’ITER DELL’INTERROGAZIONE QUI:
Bankitalia è, secondo le stime, la quarta banca centrale più ricca di riserve auree del mondo, dopo la FED, il FMI e la BUNDESBANK. Ma l’oro detenuto a Palazzo Koch è veramente di proprietà dei cittadini italiani? Quando Mr. Goldman Sachs farà rispondere al suo ministro a quest’interrogazione lo scopriremo, e ci sarà da divertirsi…



di Francesco Filini.

lunedì 30 gennaio 2012

Rulli di tamburo suonano!


“Ho sacrificato per la Repubblica Irlandese, tutto quello che un uomo ha di caro: mia moglie, mio figlio. La mia Libertà e anche la mia Vita”.
Wolf Tone


Le anime belle che predicano la correttezza politica e che ostentano una sollecita premura verso le popolazioni del terzo mondo dimenticano che anche nel cuore della vecchia Europa ci sono state storie di razzismo, di discriminazione, di violenza e di prevaricazione.
 Il più clamoroso di questi casi è quello dell’Irlanda, che ha subito secoli di invasione inglese, con qualche strascico che è arrivato ai giorni nostri.
Il giornalista Riccardo Michelucci ha scritto il libro Storia del conflitto anglo-irlandese, che è l’opera più completa e aggiornata sul tema in lingua italiana. 
Il saggio ripercorre la storia irlandese a partire dall’Alto Medioevo: fino al XII secolo l’Irlanda era divisa in piccoli regni tribali tenuti assieme da una forma primordiale di federalismo, poi nel 1155 un esercito anglo-normanno invade l’isola col beneplacito del papa Adriano IV (l’unico papa inglese della storia).
L’ecclesiastico gallese Giraldo Cambrense nel 1188 scrive due opere: Topographia Hibernica e Expugnatio Hibernica, che devono fornire un supporto ideologico all’invasione inglese. In questi testi gli Irlandesi venivano descritti come una popolazione rozza e primitiva che doveva essere civilizzata. In realtà le antiche leggi irlandesi mostrano una civiltà decisamente avanzata, che promuoveva gli studi intellettuali e che metteva al bando le pene corporali per sostituirle con ammende pecuniarie, ma la forza stava dalla parte degli Inglesi e nel corso del Medioevo la presenza inglese si consolida progressivamente. Nel 1366 vengono emanati gli Statuti di Kilkenny che abbozzano le prime forme di apartheid ai danni degli Irlandesi. Alcune infrazioni a questi Statuti erano punite con l’esproprio delle terre, una pratica che gli Inglesi utilizzeranno per secoli per annientare la classe dirigente irlandese.
Con la Riforma Protestante si introduce un ulteriore fattore di differenziazione fra Inglesi e Irlandesi. Per gli Irlandesi la fede cattolica diviene un elemento di aggregazione identitaria e l’invasione dei protestanti inglesi assume i tratti di una guerra di religione. Edmund Spenser, uno dei più grandi poeti del ‘500 inglese, auspicava l’uso di misure sempre più violente contro l’Irlanda arrivando a prospettare ipotesi di genocidio della popolazione locale. Le riflessioni di Spenser sono indicative delle idee sulla questione irlandese che circolavano nella classe dirigente inglese.
Nel clima delle guerre di religione, l’Inghilterra temeva che le potenze cattoliche, Francia e Spagna, potessero istigare gli Irlandesi contro gli Inglesi, perciò nel 1649 il conflitto sale d’intensità: Cromwell sbarca in Irlanda col suo esercito di puritani e mette l’isola a ferro e fuoco. Il condottiero della “Divina Provvidenza” mise in atto una vera e propria pulizia etnica che falcidiò un terzo della popolazione. Si avviò anche un traffico di schiavi irlandesi che venivano deportati nelle piantagioni coloniali dove venivano venduti assieme agli schiavi africani. Commentando questi episodi perfino lo storico inglese Toynbee ha notato come emerga nei coloni anglosassoni protestanti una propensione allo sterminio che si è manifestata per la prima volta in Irlanda, e che poi sarà applicata su più vasta scala nelle colonie d’oltreoceano con i Pellerossa.
Per la Chiesa Anglicana la discriminazione dei cattolici era un motivo propagandistico di grande presa sull’opinione pubblica e in Irlanda serviva anche a fomentare la divisione della popolazione locale. Solo alla fine del ‘700 gli Irlandesi abbozzano un tentativo di rivolta che per la prima volta unisce cattolici e protestanti. Il movimento indipendentista irlandese era guidato dal protestante Theobald Wolfe Tone, che nel 1796 riuscì a ottenere l’aiuto di una flotta francese e tentò di cacciare gli Inglesi. La reazione inglese però fu prontissima e particolarmente feroce: nel 1798 la rivolta era stata completamente debellata. Risale a quest’epoca la fondazione del cosiddetto “Ordine d’Orange”, la loggia massonica che ha come obiettivo la persecuzione dei cattolici e che ha organizzato secoli di violenze sistematiche contro i cattolici e gli indipendentisti irlandesi. Ancora oggi questa istituzione proclama apertamente i suoi fini discriminatori che sono chiaramente in contrasto con le legislazioni “antirazziste” dei paesi europei, ma si può scommettere che le coperture massoniche dell’Ordine d’Orange terranno lontani eventuali sguardi indiscreti della magistratura…
Per l’Inghilterra l’Irlanda era una riserva di bestiame e di prodotti agricoli a basso prezzo. Nel 1847 l’isola fu colpita dalla tristemente famosa carestia che spinse all’emigrazione buona parte degli abitanti. Molti andavano negli Stati Uniti, ma molti anche in Inghilterra, dove venivano accolti con disprezzo. Il premier inglese Disraeli affermava: «gli Irlandesi odiano il nostro ordine, la nostra civiltà, la nostra industria intraprendente, la nostra religione pura» (chissà poi che cosa intendeva per “religione pura” l’ebreo Disraeli…).
La pubblicistica inglese attribuiva agli Irlandesi i più ripugnanti stereotipi razzisti: nelle vignette satiriche gli Irlandesi erano sempre raffigurati con fattezze scimmiesche. Sui giornali inglesi si sosteneva l’inferiorità…della razza celtica! E questa tesi è stata accolta anche nel mondo accademico inglese fino alla metà del XX secolo.
Soltanto all’inizio del ‘900 in Irlanda si riorganizza una coscienza identitaria che prende corpo attorno alla rinascita della lingua gaelica. Grandi intellettuali irlandesi come Joyce e Yeats guardavano con interesse alla causa indipendentista. Quando scoppia la prima guerra mondiale l’Inghilterra ha bisogno di carne da cannone e il razzismo anti-irlandese viene messo da parte. In Irlanda i manifesti di arruolamento invitano i giovani a combattere per difendere il cattolico Belgio. Ma nelle zone protestanti dell’isola la propaganda spinge gli abitanti a combattere la cattolica Austria!
Dopo la Grande Guerra il partito repubblicano indipendentista Sinn Féin ottenne il 70% dei consensi: ne derivò lo scontro armato durante il quale si mise in luce il patriota irlandese Michael Collins. Alla fine di una fase di sanguinosi scontri, l’Irlanda ottenne finalmente l’indipendenza, pur con qualche compromesso, fra cui il controllo inglese sull’Ulster.
L’Irlanda era comunque una nazione ancora molto debole e poco sviluppata, i suoi abitanti erano spesso costretti a emigrare in Inghilterra per cercare lavoro, e a Londra molto spesso si trovavano sulle case i cartelli con la scritta “non si affitta agli Irlandesi”.
Inoltre nell’Ulster si trascinava una conflittualità strisciante, con continue vessazioni contro i cattolici. Il diritto di voto era concesso sulla base del censo e poiché i cattolici facevano i lavori più umili le elezioni le vincevano sempre i protestanti. Nel 1969 Londra inviò l’esercito per tenere sotto controllo la situazione, ma quest’iniziativa non fece altro che innescare una spirale di violenza il cui episodio più tristemente celebre è la Bloody Sunday del 30 gennaio 1972. In quell’occasione i paracadutisti inglesi aprirono il fuoco sui manifestanti uccidendo tredici persone; a tutt’oggi non si sono ancora definitivamente accertate le responsabilità dei fatti.
Sempre a quegli anni risale l’eroico sacrificio di Bobby Sands e dei suoi compagni che morirono in carcere per sciopero della fame.
Oggi la fase più acuta del conflitto sembra superata, ma permane un sentimento di ostilità fra Inghilterra e Irlanda che lascia traccia in modi di dire volutamente provocatori che sono molto in voga nel linguaggio quotidiano di entrambe le parti.
Inoltre in Inghilterra esiste ancora un filone storiografico ispirato a un malsano revisionismo che pretende di minimizzare la spaventosa portata dei crimini inglesi in Irlanda. E la questione non è affatto trascurabile poiché dopo otto secoli di persecuzioni, l’Irlanda avrebbe tutto il diritto di ottenere dall’Inghilterra un risarcimento di proporzioni esorbitanti!


PER UN'IRLANDA UNITA, 
LIBERA E REPUBBLICANA.

Pagine di Storia: 

domenica 29 gennaio 2012

OSCAR LUIGI SCALFARO...


E’ morto Oscar Luigi Scalfaro. Come già per Giorgio Bocca possiamo immaginare la classica “santificazione post-mortem” che, il tipico tempismo italiano, investirà anche questo padre della "patria". Per questo ripubblichiamo due vecchi articoli di giornale per inquadrarne un pò meglio le origini… ed i “meriti” che sono valsi a quest’uomo i tanti onori che gli verranno oggi tributati.

Oscar Luigi Scalfaro: da P.M., mandò al muro 8 persone
di Paolo Pisanò

Sono otto, salvo conguaglio, le condanne a morte di fascisti,chieste ed ottenute, dal pubblico ministero Oscar Luigi Scalfaro, con i suoi colleghi del “tribunale del popolo”, e della “Corte d’Assise Straordinaria” di Novara, dopo il 25 aprile 1945. Ciò, a dispetto della biografia ufficiale dell’attuale presidente della Repubblica, diffusa subito dopo la sua ascesa al Colle, che parla invece dello Scalfaro di cinquant’anni or sono, come di un giovane magistrato “sbalzato in Corte d’Assise a soli 26 anni”, che si trovò alle prese, suo malgrado,con il caso di un solo imputato per il quale ”secondo la legge allora in vigore, la condanna a morte era inevitabile”…
E Scalfaro fu costretto a chiederla, ma non rinunciò ad esternare ai giudici il suo tormento, chiudendo la sua arringa con queste parole: ”A questo punto, però, il pubblico ministero rende noto alla corte che non crede nella pena di morte”.
E c’è anche il lieto fine; l’imputato, condannato alla fucilazione,venne poi graziato, e la condanna non ebbe mai luogo. Fin qui la favola presidenziale. Ma la realtà è un po’ diversa.
Ecco infatti le tappe salienti della carriera del magistrato Scalfaro, ricostruite in base ai fatti certi che siamo in grado di documentare:
1943 - Il futuro presidente della Repubblica entra in magistratura durante l’ultimo fascismo.
1°Maggio 1945 - Lungi dall’essere “sbalzato” in Corte d’Assise suo malgrado, Oscar Luigi Scalfaro assume volontariamente la carica (politica, lottizzata dal CLN locale), di vice presidente del “tribunale del popolo” di Novara.
13 Giugno 1945 - Sostituiti i “tribunali del popolo” con le CAS “Corti d’Assise Straordinarie”,nell’opera di pulizia antifascista, Oscar Luigi Scalfaro passa a fare il Pubblico Ministero presso la CAS di Novara, e sostiene con altri due colleghi, l’accusa nel processo contro Enrico Vezzalini, soldato valoroso e pluridecorato, fascista integerrimo e fedele fino all’estremo ai suoi ideali, già capo della Provincia di Novara durante la RSI. Basti pensare che durante il clima di linciaggio di quei giorni, il cronista de “La Voce del Popolo” di Novara, il 14 giugno 1945, tratteggia la figura di Vezzalini mescolando alla faziosità più scontata anche queste annotazioni. ”E’ un lottatore fortissimo…..Ha un ingegno superiore alla media…Non è un cieco sanguinario, non un manigoldo, non un losco…..Supera tutti i suoi per innegabili qualità personali…..Era un tribuno avvincente e un profondo conoscitore delle passioni popolari:nessuno dimenticherà infatti gli applausi riscossi in un teatro cittadino con un’astuta tirata contro gli industriali…”
15 e 28 Giugno 1945 - L’ufficio del pubblico ministero ottiene la condanna a morte di Enrico Vezzalini e di altri cinque fascisti: Arturo Missiato, Domenico Ricci, Salvatore Santoro, Giovanni Zeno e Raffaele Infante. Condanne eseguite all’alba del 23 settembre 1945. Il cronista de “La Voce del Popolo” annota: ”Vezzalini non smentì se stesso fino all’ultimo”
A questo punto, Oscar Luigi Scalfaro ha già chiesto o contribuito a chiedere e ottenere la condanna di almeno sei persone.
16 Luglio 1945 - Settima vittoria dell’accusa antifascista a Novara: il Pubblico Ministero chiede e ottiene la morte di Giovanni Pompa, 42 anni, già appartenente alla Guardia Nazionale Repubblicana. Sentenza eseguita il 21 ottobre 1945.
12 Dicembre 1945 - Sono trascorsi quasi otto mesi dalla “Liberazione”, ma la sete di “giustizia” capitale in Oscar Luigi Scalfaro, che pure ha già visto scorrere il sangue della vendetta politica, non si è placata:lo zelante magistrato chiede ed ottiene la condannate di un ottavo fascista, Salvatore Zurlo. Dal “Corriere di Novara” del 19 dicembre 1945: ”Il PM Scalfaro parla con vigoria ed efficacia che lo fanno ascoltare senza impazienza dal pubblico che partecipa alle considerazioni dell’egregio magistrato con frequenti assensi.Il PM, dopo la chiarissima requisitoria conclude domandando la pena di morte per lo Zurlo, e il pubblico esprime la sua approvazione e con sentimento”.
E questo, che strappa perfino l’applauso a un pubblico ancora inebriato di morte, sarebbe il giovane magistrato pieno di dubbi e di tormenti ”sbalzato in Corte d’Assise suo malgrado”, come vorrebbe farci credere l’icona presidenziale di cinquant’anni dopo?
L’unica verità del quadretto postumo,  è che di lì a poco,il ripristinoi della legalità vera, consentì un processo d’appello e che la sentenza di morte contro lo Zurlo (non la prima e l’ultima, ma l’ottava),almeno di quelli che siamo in grado di confermare a dispetto delle lacune delle fonti dopo mezzo secolo) fu annullata.
2 Giugno 1946 - Almeno otto condanne a morte ottenute, sette eseguite nell’arco di otto mesi, costituiscono per un pubblico accusatore agli esordi un successo superiore alle possibilità di carriera offerte da un tribunale di provincia.
Oscar Luigi Scalfaro, brillante inquisitore da “tribunale del popolo” si è ormai messo in luce abbastanza per tentare le vie della politica, candidandosi con successo all’Assemblea Costituente e, pur senza abbandonare la magistratura con relative prebende, avviarsi verso la gloria di Roma.

(Fonte: “Il Giornale”, 1995)

Introduzione a “La crisi del mondo moderno”, di Julius Evola


Diremo soltanto che quello in questione è un testo fondamentale, imprescindibile, per chiunque voglia condurre oggi una (reale) battaglia contro il mondo moderno. Come pochi altri, infatti, Guénon riesce a elaborare con chiarezza e assoluta ortodossia, le linee guida per un’autentica “rivoluzione” di contro alla sovversione ed al cancro modernista. Di seguito l’introduzione di Julius Evola che accompagna lo scritto di Guénon.
“La crisi del mondo moderno” (Introduzione di J.Evola)


Nella pienezza del suo senso la parola «rivoluzione» comprende due idee: anzitutto quella di una rivolta contro un dato stato di fatto; poi l’idea di un ritorno, di una conversione - per cui nell’antico linguaggio astronomico la rivoluzione di un astro significava il suo ritorno al punto di partenza e il suo moto ordinato intorno ad un centro.
JULIUS EVOLA
Ebbene, prendendo il termine «rivoluzione» in questo senso complessivo, può dirsi che nel mondo attuale pochi libri siano così risolutamente «rivoluzionari» quanto quelli di René Guénon. Infatti in nessun altro autore è così recisa e inattenuata come in lui, la rivolta contro la moderna civiltà materialistica, scientista, democratica, profana e individualistica. Ma, in pari tempo, in nessun altro autore dei nostri giorni è così precisa e consapevole l’esigenza di un ritorno integrale a quei principi, che per essere al disopra del tempo non sono né di ieri né di oggi ma presentano una perenne attualità e un perenne valore normativo, costituendo i presupposti immutabili per ogni grandezza umana e per ogni tipo superiore di civiltà.
Questo secondo punto differenzia nettamente il Guénon da tutti coloro che, da un certo tempo, si son dati ad accusare il «tramonto dell’Occidente», la «crisi della cultura moderna» e via dicendo - temi, questi, che dopo il crollo costituito dalla seconda guerra mondiale si ripresentano con rinnovata forza. Infatti in tutti costoro - si chiamino Spengler o Massis, Keyserling o Benda, Ropps o Ortega y Gasset o Huizinga - invano si cercherebbe un sistema di punti di riferimento che giustifichi e renda integrale la loro critica; le loro, non sono che reazioni confuse e parziali; malgrado tutto, essi appartengono spiritualmente al mondo stesso che criticano, al «mondo moderno», e le posizioni assolute a cui dovrebbero riferirsi o le ignorano, o le evitano temendo l’accusa di reazionarismo e di anacronismo. E non parliamo poi del livello su cui si trovano le cosiddette tendenze «contestatarie» contemporanee e i corifei di essi, partendo da Marcuse e da Horkheimer.
Di ciò non è il caso, in Guénon. È per avere una coscienza precisa di quel che è positivo e, in senso superiore, normale, che egli attacca le varie forme dello spirito moderno. E in lui non si tratta di «filosofia» e di posizioni più o meno personali, ma di vedute che si rifanno ad una tradizione nel senso più alto e universale del termine. È tutto un mondo che egli rievoca come misura, mondo di cui l’Occidente già da tempo ha dimenticato non solo la dignità, ma quasi la stessa possibilità di esistenza.

sabato 28 gennaio 2012

Ungheria: contro l’UE e i suoi poteri (forti).



Eccolo qui lo squallido servilismo e l’occhiuta vigilanza democratica della stampa e dei media occidentali che pur di difendere e diffondere la vulgata del politicamente corretto non perdono occasione di tacere quando qualcuno o in questo caso migliaia di cittadini ungheresi cantano fuori dal coro, pronti a supportarre il premier Orban, autore di provvedimenti legislativi attuati al fine di provare a frenare la deriva dissolutrice e distruttiva del tessuto sociale nazionale magiaro. Come si evince dal silenzio dei media europei la storia è sempre la stessa: se non ti adegui e non sottostai ai vessilli ed alle imposizioni della contraffazione mondialista non è legittimo parlarne, ogni azione in contrasto verrà schiacciata, nulla sarà perdonato e il giudizio inappellabile.
A ben vedere non sono mancati i colori dalle manifestazioni che negli ultimi dieci giorni hanno sfilato per le strade del centro di Budapest. Il verde, il bianco e il rosso della bandiera ungherese erano facilmente individuabili, giacché orgogliosamente sventolati da decine di migliaia di cittadini magiari intenti ad esprimere appoggio al loro Governo, la cui rediviva sovranità è insidiata da quelli che gli ungheresi definiscono “burocrati dell’Unione europea”.
Nulla di rivoluzionario, dunque, negli intenti di queste enormi folle di persone, bensì la volontà di affermare corrispondenza tra le scelte del Governo Orbán e le istanze del popolo. E’ per questo, evidentemente, che la stampa occidentale ha, se non ignorato, minimizzato l’entità o diffamato i contenuti di queste manifestazioni. Là dove le folle brandiscono le proprie bandiere nazionali, sostengono i propri sovrani e decidono di non voler spalancare le porte dei propri confini alle ingerenze straniere, per i media occidentali mancano i crismi del politicamente corretto. Il principio che sta alla base delle scelte editoriali è semplice: se non è “rivoluzione colorata” (dai vessilli monocromatici del pensiero unico mondialista), non è legittimo parlarne. Desolante che questo selettivo e arbitrario principio finisca per nascondere all’opinione pubblica una realtà invece meritevole di venire approfondita, non fosse altro che per assolvere la funzione di imparzialità che dovrebbe qualificare la stampa. Una realtà molto vasta, stando ai numeri dei partecipanti a queste manifestazioni in solidarietà del Governo ungherese e contro l’Unione europea.
L’ultimo di questi appuntamenti si è registrato sabato scorso. Un gruppo di figure pubbliche - giornalisti, scrittori, accademici, imprenditori - vicine alle idee del partito di Governo Fidesz ha indetto un raduno, al centro di Budapest, per esprimere vicinanza al premier Orbán. L’iniziativa è stata definita “marcia della pace per l’Ungheria”, e ha avuto lo scopo di affermare “il progresso e l’indipendenza” della nazione magiara. L’adesione è stata gigantesca, la strada che collega la centralissima piazza degli Eroi al Parlamento si è trasformata in un fitto fiume di gente (stime parlano di almeno centomila partecipanti). Tantissime le bandiere ungheresi, ma anche tante le torce accese, le quali, nel buio del tardo pomeriggio, hanno reso suggestiva l’atmosfera. Tra i partecipanti anche Szilard Nemeth, sindaco del distretto di Csepel, a Budapest, il quale ha rivolto un appello al popolo affinché preghi per Orbán, in modo da difenderlo dagli “attacchi brutali” cui è sottoposto in questo periodo.
Marcia della pace per l’Ungheria a Budapest 21 gennaio 2012
Il massiccio corteo di sabato scorso ha convogliato una serie di iniziative susseguitesi nei giorni precedenti, altrettanto espressive delle istanze di una larga fetta della popolazione ungherese. Il 14 gennaio, esattamente una settimana prima del grande raduno di sabato scorso, in strada era invece sceso il partito Jobbik, attualmente all’opposizione. L’iniziativa di Jobbik - caratterizzato da una linea fortemente nazionale e sociale, oltre che contraria all’Unione europea - ha riscosso un ampio successo, si parla di diverse migliaia di manifestanti. Dal palco della manifestazione Elod Novak, eletto in Parlamento tra le file di Jobbik, ha dato alle fiamme una bandiera dell’Unione europea, gesto seguito alle parole appassionate di un suo compagno di partito, l’europarlamentare Csanad Szegedi: “Questa settimana l’Ue ha dichiarato guerra all’Ungheria in modo aperto e violento”. E’ bene ricordare che Jobbik, partito che i media italiani bollano sbrigativamente come la deriva fascista di un marginale drappello di squinternati, è il secondo partito d’opposizione in Ungheria e, nelle elezioni del 2010, ha guadagnato 47 seggi in Parlamento.
L’Ungheria, tallonata da speculazioni finanziarie che rischiano di condurla al fallimento, vive giorni cruciali. La scorsa settimana l’Unione europea ha avviato una procedura d’infrazione nei confronti del Paese governato da Viktor Orbán. Quest’ultimo ha avuto nella giornata di martedì scorso un incontro con José Manuel Barroso, presidente della Commissione europea, per cercare di appianare le controversie nate dopo l’entrata in vigore della nuova Costituzione ungherese. Una soluzione rosea per l’Ungheria è forse un bandolo di una matassa che Gabor Vona, leader di Jobbik, ha individuato in una strada ben precisa: “La parola torni ai cittadini, l’Ungheria deve uscire dall’Unione europea”. La grande partecipazione alle manifestazioni degli ultimi giorni dimostra che Gabor Vona è interprete di un pensiero molto diffuso tra il popolo magiaro.



Il popolo europeo marcia contro la tecnocrazia. Avanti ragazzi di Buda! Avanti ragazzi di Pest!



venerdì 27 gennaio 2012

In ricordo dei “Giusti” con le stellette.


Giovanni Palatucci
Nel giorno della Memoria è doveroso ricordare anche gli italiani in divisa che rischiarono la propria vita, e in qualche caso la perdettero, per salvare migliaia di ebrei dalla deportazione. Ha del romanzesco la storia di Giorgio Perlasca. Nato a Como e aderente fin da giovanissimo al partito fascista, partecipa da volontario alla guerra d’Africa e a quella civile  di Spagna al fianco delle truppe di Francisco Franco.  Nel settembre del  ’43 si trova a Budapest,  deciso a non venir meno al suo giuramento di fedeltà al Re si rifugia nell’ambasciata spagnola ed è da lì che, con con false credenziali consolari, salva dalla deportazione e dalla morte sicura migliaia di ebrei ungheresi. Dopo la fine della guerra, ricercato dai sovietici in quanto “fascista”, tornerà in Italia. Soltanto nel 1987, grazie alle testimonianze di alcuni protagonisti sfuggiti alla persecuzione nazista grazie alla sua attività, Perlasca balzerà all’attenzione delle cronache. Due anni dopo lo Stato di Israele lo proclamerà Giusto tra le Nazioni. Morirà  a Padova nel 1992 all’età di 82 anni.

Tragica la fine del questore di Fiume Giovanni Palatucci he pagherà con la vita il suo impegno per salvare dai campi di concentramento migliaia di ebrei. Nato a Montella, in provincia di Avellino, anche Palatucci giovanissimo indossa la divisa della polizia di Stato e aderisce convitamente al partito fascista.  Nel 1936 giura come volontario vice commissario di pubblica sicurezza. Nel 1937 viene trasferito alla questura di Fiume come responsabile dell’ufficio stranieri e poi come commissario e questore reggente. Comprendendo di potere recitare un ruolo determinante nella salvezza degli ebrei  dalle persecuzioni, si rifiuta di lasciare il proprio posto anche di fronte ad una promozione con trasferimento a Caserta. Nel marzo del 1939 un primo contingente di 800 ebrei, che sarebbe dovuto essere consegnato alla Gestapo, viene fatto rifugiare nel vescovado di Abbazia grazie alla tempestività con cui Palatucci avvisa il gruppo del pericolo che lo minaccia. Nel novembre 1943 Fiume, pur facente parte della Repubblica Sociale Italiana, di fatto viene inglobata nel cosiddetto Adriatisches Küstenland, ossia il “Territorio d’operazioni del litorale Adriatico”, controllato direttamente dai tedeschi. Pur avvisato del pericolo che correva personalmente, il funzionario di polizia italiano decide di rimanere al suo posto, far scomparire gli archivi contenenti informazioni sugli ebrei fiumani e salvare più persone possibili. Tutto questo nonostante il console svizzero di Trieste, un suo caro amico, gli offra un passaggio sicuro verso il territorio elvetico, offerta che Palatucci accetta ma per porre in salvo la sua giovane compagna ebrea.

Per contrastare ulteriormente l’azione dell’amministrazione nazista, vieta il rilascio di certificati alle autorità di Berlino se non su sua esplicita autorizzazione, così da poter aver notizia anticipata dei rastrellamenti e poterne dar avviso. Inoltre invia relazioni ufficiali al governo della Repubblica Sociale Italiana, dalla quale formalmente Fiume dipende, pur essendo di fatto controllata direttamente dalle truppe tedesche, per segnalare le continue vessazioni, le limitazioni nello svolgimento delle attività istituzionali ed il disarmo dei poliziotti italiani della questura di Fiume deciso dai militari germanici. La sua attività a favore degli ebrei e in difesa dell’italianità da molto fastidio e il 13 settembre 1944 Palatucci viene arrestato da Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS, e tradotto nel carcere di Trieste. Il 22 ottobre viene trasferito nel campo di lavoro forzato di Dachau dove morì pochi giorni prima della Liberazione, a soli 36 anni. Insignito di medaglia d’oro al merito civile, nominato Giusto tra le nazioni,  è oggi venerato col titolo di Servo di Dio dalla Chiesa cattolica.


giovedì 26 gennaio 2012

Ezra Pound calpestato due volte.


Ezra Pound
Restituite a Casa Pound la possibilità di usare il nome del poeta. Primo, perché se i geni sono universali ognuno è libero di venerare il genio che vuole. Secondo, perché non si tratta di appropriazione indebita o di uso distorto del poeta. Lo dico a sua figlia Mary che è ricorsa ai giudici, lo dico agli intellettuali che hanno firmato il solito ‘giù le mani da’ Ezra Pound perché poeta universale (ma lo scoprono solo ora, fino a ieri lo dannavano perché fascista). Dov’è lo scandalo se i ‘fascisti’ si richiamano a Pound? Come potete dimenticare i suoi discorsi appassionati e deliranti – ma i poeti a volte delirano – alla radio a sostegno del fascismo e poi della repubblica sociale, in piena guerra? E dopo la caduta del fascismo, come potete ignorare i versi dei canti pisani su ‘Ben e la Clara a Milano’, appesi per le calcagna? E i Cantos donati di persona a Mussolini, il libro ‘Jefferson e Mussolini’, le sue battaglie contro l’usura? Come potete dimenticare quei giorni bestiali nel campo di concentramento di Coltano in cui il poeta fu esposto in gabbia, sotto i fari, costretto pure a defecare davanti a tutti, come una scimmia, proprio perché considerato fascista? E poi fu internato in un manicomio criminale negli Stati Uniti, che lo condusse davvero alla follìa e al mutismo… Persino l’ultimo, vecchio Pound accompagnato da Piero Buscaroli in visita a Ferrara, che accarezza silente i fasci littori di Palazzo Diamanti… Non potete calpestarlo due volte, la prima per fargli pagare il suo fascismo, la seconda per negarlo.

Marcello Veneziani su Il Giornale del 26 gennaio 2012

Addio a Benito Paolone, esempio di coerenza e passione.


Benito Paolone
Si è spento il 23 Gennaio scorso a Catania l’ex parlamentare di AN, Benito Paolone, 78 anni. Da tempo lottava con un male incurabile ed era ricoverato da un paio di settimane in una clinica della città etnea. Paolone era una delle anime della Destra siciliana. Nacque l’11 novembre 1933 a Campobasso ma dagli anni ’50 si trasferì a Catania eleggendola come sua città. Ha guidato sin da ragazzo i movimenti giovanili e universitari del Msi. È stato consigliere comunale a Catania dal 1964, deputato regionale dal 1971 al 1994, anno in cui è stato eletto alla Camera. È stato uno dei fondatori della squadra di rugby dell’Amatori Catania.

«Benito Paolone è stato un grande esempio di tenacia, coerenza, passione. È stato un operaio della politica, poichè ha dedicato le proprie energie anche agli obiettivi più semplici e immediati. Infaticabile nell’ascolto della gente, nella motivazione all’impegno politico dei più giovani. Anche da dirigente ha saputo sempre indicare le scelte più sagge alla comunità della destra. Ne ricordiamo la forza e la determinazione con le quali ha spinto tanti di noi a un impegno crescente. La politica italiana è oggi più povera senza un uomo animato da così grande passione». Questo il ricordo del presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri.

Profondo cordoglio è stato espresso anche dal sindaco di Catania, Raffele Stancanelli: “Con l’amico Benito – ha detto il sindaco – perdiamo una parte di tutti noi che in questa città viviamo e per cui lavoriamo. Ci mancheranno il suo rigore morale, la generosità, il coraggio e lo spirito di servizio che lo hanno reso un personaggio autentico e sincero, riferimento per tanti giovani che lo hanno avuto come esempio e testimone di una vita spesa per agli altri, soprattutto verso i più deboli e i bisognosi”.

La settimana scorsa l’ex premier Silvio Berlusconi era andato a fargli visita. ”Benito Paolone è un grande combattente e lo è stato sia nello sport sia nella politica”, aveva detto il leader Pdl.

mercoledì 25 gennaio 2012

Caro Veneziani, una nuova Destra più grande e riformista può nascere solo dal PDL.


Marcello Veneziani
Marcello Veneziani propone sul “ Il giornale” di venerdì 20 gennaio un’ analisi sulla genesi della destra italiana. Sotto il profilo culturale e nel declinare il percorso della destra non si puo’ che condividere questa riflessione . Il sogno di Almirante si è avverato: la destra è confluita in un grande movimento politico popolare. Tuttavia va anche rilevato come la sua spinta riformista si sia appannata e disciolta all’interno di un PdL che ha sviluppato la propria azione parlamentare e di governo con una prassi politica tipica della Democrazia Cristiana.

Stesso discorso vale anche per Forza Italia che all’interno del PdL ha smarrito la propria natura di portatrice di novità attraverso una forma partito del tutto originale nella storia politica italiana. Alleanza Nazionale sotto la guida di Fini non superò mai il 12%. Il motivo è duplice: il primo è legato ad una sorta di appagamento dopo l’esclusione degli anni dell’ arco costituzionale, il secondo dalla pigrizia di un leader che come unico obiettivo ha avuto il solo interesse di accreditare se stesso per raggiungere il più alto livello istituzionale. AN avrebbe potuto avere percentuali più ampie di consenso perché non solo le condizioni socio-economiche e politiche erano più favorevoli, ma perché portava con sé l’obiettivo di dar vita ad una grande riforma costituzionale in chiave Presidenzialista. Finì tutto con Fini. Forza Italia, non era solo il partito del leader, ma ha rappresentato in modo innovativo un destra con caratteristiche popolari accusate anche di populismo. Una destra che in realtà era perfettamente in sintonia con le esigenze e le aspettative della maggioranza degli Italiani. Con l’utilizzo dei termini moderati e liberali, Berlusconi è riuscito a portare a sé i consensi di tutta l’area politica alternativa alla sinistra. Berlusconi in modo leaderistico ha incarnato il progetto che buona parte dei missini voleva raggiungere. Quindi da una parte AN, una destra per la riforma delle istituzioni che portava con sé valori antichi e proposte future, dall’ altra Forza Italia, una destra che era perfettamente in sintonia con il paese. La nascita del Popolo della Libertà doveva dar vita ad un senso più compito degli aspetti culturali e politici di queste due anime. Cosa è successo? Cosa sta accadendo adesso ? Cosa dobbiamo fare?

Dal 1994 ad oggi le istanze portate avanti prima da FI e da AN e poi dal Popolo della Libertà non sono riuscite a riformare l’Italia, dando così finalmente vita ad una seconda repubblica mai nata. Nonostante oltre dieci anni di governo. Il ruolo determinante in senso conservativo delle nomenclature sopravissute a tangentopoli, in buona parte terze e quarte linee dei vecchi partiti, non hanno consentito in modo scientifico che si chiudesse definitivamente quella stagione politica tutelando così la propria sopravvivenza in ruoli di potere. Nessuna riforma strategica e modalità clientelari e parassitarie di carattere personale elevate a sistema e clonate da Roma in tutte le province d’Italia. La nascita del PdL avrebbe dovuto superare tutto questo. Non è avvenuto. La politica , come la natura, presto o tardi presenta il suo conto. Le contraddizioni tra i programmi e le realizzazioni tra un partito nato come riformista e gestito in modo conservativo e clientelare hanno provocato l’implosione del PdL che per la prima volta nella storia della repubblica italiana ha visto cadere il proprio governo senza la sua sfiducia parlamentare. Di fronte al governo Monti, che di fatto smentisce tutti gli impegni programmatici elettorali del PdL, in questo partito si è evidenziata clamorosamente l’esistenza di due anime: quella quiescente con il governo Monti per speranze di sopravvivenza individuale e quella genuinamete riformista pronta alla battaglia politica ed eventualmente all’opposizione parlamentare in difesa delle proprie idee e della delega elettorale ricevuta dagli italiani. Per questo caro Veneziani , pur riconoscendo il valore primario dell’elaborazione culturale, oggi la battaglia avviene nel partito che ha raccolto l’elettorato di centrodestra, cioè nel PdL e sul territorio. Una battaglia combattuta su temi concreti e per la selezione di un gruppo dirigente che sappia veramente rappresentare e meritare la delega elettorale dei cittadini che si riconoscono ancora oggi , nonostante i fallimenti, nella proposta politica nata nel 1994. Proposta ancora attuale in quanto mai stata realizzata. Oggi, purtroppo il PdL si trova imprigionato da un gruppo dirigente di nominati poco legati al territorio ed ai suoi problemi naturalmente dedicati alla tutela delle proprie carriere personali. Inevitabilmente per questo sottoposti a condizionamenti e ricatti di un mondo finanziario e tecnocratico che bene si avvantaggia dall’assenza di una politica riformista. Oggi gli intrusi nel PdL non sono i riformisti, ma chi in nome di un nostalgico centro tecnocratico ha la pretesa di governare le scelte del partito e di non consentire la vera svolta riformista creando così le cause vere del declino del nostro paese. Quindi il rilancio efficace della destra nasce dalla sintesi dell’elaborazione culturale con la pratica quotidiana della battaglia politica. Anche se fosse appare non più attuale e forse limitata una definizione semplice di destra. Concetto sul quale sarebbe necessario un profondo confronto ed un’attenta riflessione di non ignorare realtà sociali e culturale dar vita una forza politica che faccia le riforme conducendo così l’Italia fuori dalla crisi e dentro la Seconda Repubblica ed il ventunesimo secolo. Il nemico non è oggi una sinistra senza scopo e senza programmi. Il vero nemico è una burocrazia finanziaria e tecnocratica che trova pedine anche all’interno del PdL. Devono andarsene.

martedì 24 gennaio 2012

Il peggior Silvio è meglio del miglior Monti.

di Marcello de Angelis


Berlusconi s’è svegliato e ha dato voce a quello che dice la metà degli italiani. Quella metà che è sopravvissuta al lavaggio del cervello dei giornali proprietà dei gruppi che hanno causato la crisi finanziaria e non si fa incantare dagli show tekno-governativi. Quello che tanti italiani pensano è che, dopo solo due mesi, è evidente che la guida Monti ha accelerato la nostra corsa verso il baratro anziché frenarla, che la politica (cioè la capacità di governare, che è la stessa cosa) non si improvvisa e che le poche cose sensate che la junta ha annunciato – o malamente realizzato – erano le stesse che voleva fare il centrodestra. La più grande colpa del Cav è di non aver realizzato metà di quello che intendeva fare, impastoiato dai processi, massacrato dai mezzi d’informazione, ricattato dai professionisti della piazza, minacciato dagli speculatori stranieri, boicottato dalle nazioni invidiose che volevano preservare il loro inutile primato in un’Europa che va comunque al collasso. L’appoggio del Pdl al governo sarà pure un degnissimo atto di responsabilità, ma siamo sicuri che sia il meglio che l’Italia si merita? Molti italiani, forse meno raffinati nelle analisi, ritengono che il governo di centrodestra – voluto dagli elettori – sia stato tradito e messo da parte da una congiura di palazzo. E sostituito da un “consiglio d’amministrazione” imposto dalla volontà dei “mercati”. Insomma, negli Usa i banchieri che hanno provocato la crisi li mettono in galera. Noi li mettiamo al governo?

lunedì 23 gennaio 2012

Le radici di un'idea comune. Intervista al Front National de la Jeunesse.



Intervista a Julien Rochedy, dirigente del Front National de la Jeunesse.

E' per noi un enorme piacere poterci confrontare con giovani europei che affrontano la politica e la quotidianità con spirito di  militanza e dedizione. Nell'epoca moderna dove contano apparenza e ricchezza materiale, l'azione più nobile che si possa compiere è certamente quella di dedicare se stessi al bene comune, al cambiamento della comunità nazionale e alla riscoperta degli antichi valori che hanno fatto dell'Europa un continente portatore di millenaria tradizione.
Oggi ci troviamo in una situazione particolare, dove storia e popoli sembrano oppressi dai burocrati della grande finanza, dove l'uomo sembra costretto a piegarsi ai tecnicismi, al mondo della ragione, al potere degli speculatori. L'unione europea, che avrebbe dovuto rappresentare una comunità di intenti e di tradizioni, sembra aver rinnegato le proprie radici occupandosi solo di economia e mercato, tralasciando quel ruolo politico di cui il nostro continente, oggi più che mai avrebbe bisogno. In questa situazione, giovani come noi e voi, rappresentano, per usare una frase di Tolkien, "le piccole mani che muovono il mondo". Ogni tipo di attività volta a svegliare i popoli da questo torpore, utile per ridonare dignità e orgoglio alla storia della nostra Europa non può che partire da grandi movimenti generazionali, che a differenza di quelli del 1968, hanno a cuore le sorti della propria nazione, credono nella famiglia, nell'onore, nella comunità, nella bellezza del dono, nella magia della vita.

In che modo il Front National de la Jeunesse affronta questo periodo di crisi della politica? Quali sono le sue ultime battaglie?

Nella crisi attuale noi vediamo che la rivelazione di questo sistema del re denaro e della globalizzazione sfrenata non è più praticabile. D’ora in poi dovremmo essere all’altezza di offrire un progetto alternativo ai francesi, per non far si che la crisi ci passi vicino senza affrontarla. Noi ci battiamo regolarmente per convincere i francesi, moltiplicando le azioni simboliche (come giocare a poker davanti le banche), la produzione di immagini, manifesti e volantini relativi,  nel tentativo di accendere il dibattito, nel più breve tempo possibile,  perché possiamo essere e siamo i migliori in questo campo.

L'Unione Europea, già pochi anni fa, decise di non inserire all'interno della propria costituzione un importante passaggio sulle radici cristiane. Voi, che avete come eroe nazionale Giovanna d'Arco, come vedete questa scelta di cancellare un pezzo così importante della nostra storia?

Pierre Manent ha scritto: “Ogni volta che viene menzionata l’Europa, è per annullarla”, il che significa che l’Europa di oggi nega tutto ciò che è veramente l’Europa. L’UE è come un casco scomodo, pesante e grosso, posato sulla vera Europa, quella della civiltà ellenico-cristiana, quella delle Nazioni. Io dico sempre che sono più europeo di quelli di Bruxelles, perché essi creano da zero un’Europa artificiale, io amo l’Europa che esiste, quello che abbiamo ereditato.

Che importanza hanno, le radici e le tradizioni nella vostra visione del fare politica?

Per noi le radici costituiscono la nostra identità, la nostra personalità ed il nostro carattere. Senza questi elementi, gli uomini sarebbero degli insetti che volteggiano nel vuoto, senza forza e senza anima. Le tradizioni sono una fonte di saggezza accumulata nei secoli, e volerle distruggere per  la politica da tavola, come hanno fatto i socialisti e i comunisti, e come fanno i liberali oggi, è una pura follia.

La Francia, ancor più dell'Italia, è stata sotto attacco dei media per la sua politica nei confronti dell'immigrazione. In che modo secondo voi, si dovrebbe affrontare il problema dell'esodo dai paesi del terzo mondo?

Penso che abbiamo bisogno di affrontare la questione su due direttrici: in termini economici e in termini di identità. In primo luogo, l'immigrazione verso l'Europa distrugge le due economie: quella del paese ospitante, perché non ha i mezzi, soprattutto in tempo di crisi, ma anche quella del paese di emigrazione, perché si priva di manodopera e cervelli di cui ha bisogno per lo sviluppo. Quindi nessuno è vincente in questo caso. Poi, in termini di identità, penso che rischiamo una sovversione  della nostra cultura e dell'essenza del nostro popolo, che è circa la stessa da più di mille anni.

In Italia si è insediato, in un modo assai sconvolgente, un governo guidato da tecnici, provenienti dalle agenzie di rating più famose del mondo. Pensate che esista un disegno internazionale volto a stravolgere i governi eletti dal popolo per instaurare un potere dell'economia?

Ammettiamolo, l'economia e la finanza dirigono gli uomini politici già da tempo!
Proprio quelli che il popolo ha eletto sono dei grandi pupazzi della finanza internazionale.   Momentaneamente, il potere delle banche non si prende più la briga di farci credere alla favola della democrazia, impone direttamente i suoi capi di Stato. Almeno nessuno potrà dire che non ne era al corrente.

Da secoli esistono decine di superficiali stereotipi che dividono il popolo italiano da quello francese, qual'è la reale considerazione che la Francia e il vostro movimento hanno nei confronti dell'Italia?

Per noi gli Italiani sono fratelli, come lo sono gli inglesi, gli spagnoli e i tedeschi, e l’insieme dei popoli europei. Noi siamo una sola e unica civiltà e stiamo affrontando le stesse difficoltà: il potere dell’UE, la sottomissione al potere degli USA e delle banche,l’immigrazione incontrollata, la crisi dei valori ecc. Noi possiamo e dobbiamo sormontare queste difficoltà insieme, augurando a ciascuno di noi di riprendere ciò che avevamo iniziato su scala nazionale.

La Francia e l'Italia sono due nazioni con un territorio assai complicato, esistono infatti all'interno di entrambe molte differenze tra il Nord e il Sud. Pensate che le identità locali possano essere ostacoli o punti di forza nella costruzione di un'identità nazionale?

Personalmente, penso che possano essere un bene, visto che dal loro sincretismo nasce una cultura particolare, con dei tratti propri. In Francia, per esempio, sono convinto che arricchisca la nostra cultura, visto che i bretoni si sentono sia bretoni che francesi, come gli occitani si sentono sia occitani che francesi Etc. Dal momento in cui si prende coscienza che la nostra nazione francese è il nostro comune denominatore, non ci potranno essere problemi. D'altra parte, qualcuno che si sente bretone e non francese, non ha capito nulla e resterà condannato, visto che oggi solo lo stato nazionale può proteggete le sue terre dalla crisi economica e, per esempio, dai flussi migratori.

Qual è la posizione del Front National de la Jeunesse sull'operato del Governo Sarkozy?

Noi pensiamo che Sarkozy non ami la Francia, lui preferisce il modello americano. Ha fregato tutto il mondo facendo credere che volesse proteggere l’economia Francese, puntare sulla sicurezza e regolare l’immigrazione, ma non ha fatto niente. Al contrario sotto l’amministrazione di Sarkozy, ogni cosa è peggiorata: la disoccupazione, il debito, l’insicurezza, l’immigrazione e la cultura identitaria.

L'Italia, avendo scelto di non avere centrali nucleari, compra gran parte dell'energia che utilizza dalla Francia, questo ci rende uniti sotto il campo delle energie ma nonostante ciò la guerra in Libia e contro Gheddafi è stata intrapresa molto probabilmente per rompere un rapporto energetico/economico che si era creato tra la Libia, l'Italia e la Russia che vedeva rompere il potentato atlantico che fino ad allora aveva l'egemonia su tutto il mediterraneo. Qual è la vostra posizione sulla guerra in Libia e sulla questione energetica?

Eravamo contrari alla guerra in Libia, d'altronde le cause non sembrano essere state molto europee e francesi.
Sulla questione dell'energia, penso che l'Europa debba aprirsi all'est, instaurando delle grandi alleanze con paesi come la Russia, che hanno bisogno l'uno dell'altro per governare sul mediterraneo, e insieme dovrebbero puntare sulle nuove energie, più ecologiche. Il saper fare dell'Europa e la sua inventiva possono tutto.

Per chiudere vi chiediamo se doveste consigliare un libro, una canzone ed un film ai giovani italiani, quale scegliereste?

Consiglierei tutta la letteratura Francese! A parte gli scherzi, consiglierei “Le siecle de 1914” di Dominique Venner, che ricostruisce il ventesimo secolo e comprende tutta la storia che ha determinato il presente che viviamo. Il mio consiglio è di conoscere bene la propria cultura, è importantissimo. Il domani appartiene a noi, bisogna osare ! Un vostro grande poeta diceva : ”memento audere semper”, è il mio motto: deve essere il nostro.

Per leggere l'intervista in lingua originale clicca qui:
http://laboratorioaslan.blogspot.com/2012/01/les-racines-dune-idee-commune-entretien.html 


Fonta: Laboratorio Culturale Aslan.

domenica 22 gennaio 2012

L’Operaio di Ernst Jünger, il testimone del XX secolo.


Il liberalismo si è assicurato da tempo una strana specie di buffoni di corte il cui compito consiste nel dire ad esso delle verità divenute innocue. Si è sviluppato un singolare cerimoniale con cui l’individuo moderno travestito da quasi aristocratico o da quasi abate mette in scena, fra applausi ormai diffusi e generalizzati, e a regola d’arte, la rappresentazione di collaudati colpi di grazia. [...] Dietro quelle marionette che sulle tribune pubbliche già in demolizione logorano i luoghi comuni del liberalismo fino a renderli sottili come un foglio di carta velina, spiriti più fini e più esperti si preparano a mutare lo scenario.
 Ernst Jünger

Ernst Jünger
di Mark Dennison

Il permanere raffermo di ideologie in apparenza conflittuali e de facto autodistruggentesi – marxismo e fascismo – è la giustificazione essenziale da parte del liberalismo di confermarsi quale forma suprema di governo, ossia di sfruttamento e massacro del genere umano come mai si è manifestato, applicato e visto nella storia del genere umano a partire dalla rivoluzione industriale in qua.

L’auspicato superamento non è una necessità vitale sprigionatasi all’indomani della tragica sconfitta del comunismo, che ha prodotto un rifiuto massivo dei tradizionali e truccati schieramenti pseudo-sportivi destra-sinistra, utili a banche e imperialismo. Siamo arrivati al punto che i signori (si fa per dire) deputati temano per la propria incolumità nei pressi del Parlamento, senza che alcuno li minacci. A dimostrazione come gli stessi protagonisti del ludus scenicus abbiano la coda di paglia (troppo dire coscienza) dell’utilità di loro stessi solo per sé medesimi, soffrendo per il carico della vomizione che i cittadini trasmettono loro con i soli sguardi (1).

D’altronde i partiti politici sono tutti la stessa cosa, e le loro differenze illusorie. Sia gli uomini politici che i mezzi in uso dei partiti sono funzionali non al miglioramento della società bensì a nutrire se stessi. I propri rappresentanti recitano la loro “utilità” per unire i vantaggi del funzionario di partito con quello statale in una rotazione senza fine che li rende sempre più ricchi quanto velenosi per il popolo, da cui succhiano la linfa. Eventi come la disoccupazione, la penuria di alloggi, la criminalità nazionale interetnica, il fallimento dell’industria e dell’economia asservita agli istituti di credito, codesti individui li fanno passare come una sorta di fatti naturali; in realtà sono sintomi che palesano la decadenza degli ordinamenti liberali.

Ciascun contrasto e intangibile diversità sono diretti all’omologazione del cittadino che s’illude di un probabile cambiamento riponendo fiducia nel partito e, quindi, consolidando il consenso ossia il sistema stesso. Dice Jünger: “Il consenso è il frutto della pura partecipazione, come quando si prende parte alle votazioni, indipendentemente da quale partito ne tragga vantaggio. Qui le alternative non sono decisioni, ma piuttosto modi di lavoro del sistema”. Traduciamo: i poveracci che votano per i tanti piccì di Serie B o gli illusi che inseriscono nell’urna schede favorevoli ai ducetti eredi di Serie D del grande-partito-della-destra di Serie C, essi poveracci non si rendono conto che quei “comunisti” e quegli altri “fascisti” non hanno mai avuto intenzione alcuna di cambiare le cose, poiché il sistema atlantico di Serie A (ieri Dc+Pci, oggi Pdl+Pd) giustifica(va) le utili presenze del’ “opposizione” colmandole di gettoni premio e biglietti gratuiti per assistere alla partita e a turno scendere in campo.

In un precedente intervento ho rilevato che la belle époque era il periodo in cui la società europea sembrava essere convinta di aver raggiunto un punto di sicurezza, tranquillità, progresso, così come parrebbe nell’opulenza consumistica odierna. Essa, invece, era: fede nella scienza e nella tecnica; ottuso e tronfio ottimismo; convinzione di essere il migliore dei mondi possibili sino ad allora realizzati. In effetti la bell’epoca crollò e fu soffocata dal carnaio del primo conflitto mondiale. Ciò provocò disastri e miserie che erano un prodotto della pratica e del senso dell’ingiustizia che la borghesia e il sistema liberale avevano accumulato dall’industrialismo, e che nel 1915 condussero allo scoppio delle contraddizioni. La “rivoluzione” era a quel punto era una necessità sia marxista che nazionalista, poi fascista, o per sovvertire il sistema di produzione, o per abbattere la borghesia e instaurare forme comunitariste. La crisi del mondo europeo fu analizzata ne L’Operaio. Dominio e forma pubblicato nel 1932 da Ernst Jünger (1895-1998), l’unico grande testimone dell’intero XX secolo. Per cui non è l’oggi che produce l’esigenza di superare gli anacronismi.

In un memorabile saggio Luca Caddeo (2) afferma che Jünger non ha “l’intenzione di criticare la classe borghese per rinsaldarne, attraverso un artificio ideale, il potere; al contrario [...] egli mette sotto accusa il borghese e il suo potere volendo, almeno teoricamente, contribuire alla costruzione di un modello metapolitico che, già a partire dai presupposti, si distingua nettamente sia dal liberalcapitalismo che dal collettivismo”. Il libro del Tedesco indica l’avvento di un protagonista, né classe e nemmeno proletariato, bensì un nuovo tipo umano che si opponga al materialismo economico (comunismo) e agli ideali di una prosperità da bestiame di produzione (liberalismo). Si auspica il tramonto del borghese sostituito dall’operaio quale dominatore della tecnica in guisa di forma, ossia forza costruttiva.

Il volume, di linguaggio scorrevole ma non immediato piuttosto da conferenziere e ricchissimo di sottintesi, rende “visibile la figura dell’operaio, al di là delle dottrine, delle divisioni di parte e dei pregiudizi, come una grandezza attiva che già è potentemente intervenuta nella storia ed ha imperiosamente determinato le forme di un mondo trasformato” afferma l’autore stesso nella premessa alla prima edizione. L’opera è stata tradotta in italiano solo nel 1984 (3) da Quirino Principe (Longanesi), quando l’autore aveva ormai 89 anni.

Nel 1991 passò alla Guanda e sempre a cura di Principe. Nell’eccellente cura del predetto non possiamo, però, evitare di segnalare la distrazione a pag. 174, quando si afferma che l’Urss è “nata il 7 novembre 1917 sulle ceneri della Russia zarista”.

È errato: essa è stata fondata il 30 dicembre 1922 (ebbe definitiva costituzione il 6 luglio 1923).Il predetto 7 novembre, abbattuta la Repubblica Russa di Kerenskij (27 settembre-7 novembre 1917), fu invece creata la Repubblica Socialista Federativa Sovietica Russa.

Nel novembre 2010 il testo è giunta alla quarta edizione. Va dato merito alla Guanda di aver tradotto molte opere di Jünger: Il contemplatore solitario; Irradiazioni. Diario 1941-1945; Nelle tempeste d’acciaio; La forbice; Cacce sottili; Avvicinamenti. Droghe ed ebbrezza; Giardini e strade. Diario 1939-1940. In marcia verso Parigi; La capanna nella vigna. Gli anni dell’occupazione, 1945-1948; Eumeswil; Heliopolis; Il cuore avventuroso; Ludi africani; Rivarol, massime di un conservatore; La pace; Boschetto 125; Lo Stato mondiale. Organismo e organizzazione; Il tenente Sturm; Le api di vetro; Due volte la cometa; Sulle scogliere di marmo; Tre strade per la scuola.

Fondata da Ugo Guanda a Parma dal 1932 – lo stesso anno de L’Operaio – la casa editrice, attualmente presieduta e diretta da Luigi Brioschi, si è da sempre distinta per la sua linea editoriale originale e innovativa, rispecchiata in un catalogo che offriva e offre al lettore italiano la grande poesia europea e americana, autori cruciali del Novecento, esponenti delle correnti più vive del pensiero moderno, oltre alla narrativa latinoamericana fino all’eccezionale fioritura irlandese, come dal nuovo romanzo americano alle voci delle letterature più lontane, dalla new fiction inglese alla chemical generation (4).

A tutto ciò si unisce un folto gruppo di autori italiani tra cui Bruno Arpaia, Alessandro Banda, Gianni Biondillo, Antonella Cilento, Guido Conti, Paola Mastrocola, Gianluca Morozzi, Marco Santagata, Pietro Spirito, Marco Vichi.

Note
(1) I soldi non mi servono ma capisco il disprezzo, “la Repubblica”, 12 dicembre 2011.
(2) Luca Caddeo, La metafisica de L’operaio di Ernst Jünger, in “Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Cagliari”, Nuova Serie, XXVII (Vol. LXIV), 2009. Caddeo è un giovane studioso sardo. Vive tra Ghilarza e Cagliari. Si è laureato in filosofia e ha conseguito nella stessa materia il titolo di Dottore di ricerca. Insegna nelle scuole pubbliche,
(3) Secondo Simon Friedrich fu Jünger sul finire degli anni Cinquanta a non dare il permesso a Julius Evola di tradurlo in italiano, per cui il predetto scrisse: L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Armando, Roma 1961.
(4) La chemical generation è un genere letterario sprigionatosi agli inizi degli anni Novanta nelle patrie del liberalismo: Regno Unito ed in seguito Stati Uniti, con radici radicate in beat generation, figli dei fiori, ecc. degli anni Sessanta. Esso porta la “cultura” dell’estasi edonistica che contraddistingue questo periodo ad una dimensione letteraria. I temi: droga, hooligan, depressione, estasi deliranti, ecc; soggetti trattati: quasi tutti ai margini della società; stile di scrittura: volgare nel parlato e attribuente alle opere una forte carica espressiva, riuscendo così ad aumentare il livello di intimità col lettore. Un ulteriore testimonianza del tramonto della sistema liberalistico.


sabato 21 gennaio 2012

Un punto di vista interessante dall'Università di Washington... (un po' pessimistico)



L’idea che i tedeschi e i nordeuropei in generale debbano “diventare generosi” e aiutarci prende sempre più piede fra coloro a cui piacerebbe tanto essere aiutati. Ho argomentato precedentemente che, siccome più o meno tutti i paesi occidentali si trovano di fronte agli stessi problemi strutturali, l’aiuto che può venirci da chi sta solo quantitativamente un po’ meglio di noi non può che essere molto parziale ed è probabilmente in via di esaurimento.
Sarebbe il caso di far le somme e rendersi conto che fra credito della BuBa (la Banca centrale tedesca) al sistema bancario del Sud Europa via Bce e contributi allo Efsf, la Germania si è esposta per quasi un trillione di euro verso i propri partners bisognosi di “aiuto”, una cifra che, quando si controlla per la relativa dimensione delle due economie, è sostanzialmente maggiore di quanto Fed e Tesoro abbiano immesso nell’economia privata americana dal 2008 ad oggi. Nondimeno, consideriamo per un attimo le fondamenta logiche e fattuali della teoria che chiamerò dell’egoismo tedesco.
(I) Moneta unica implica cambio unico ed il cambio dell’euro nei confronti delle altre monete è troppo alto, il che rende i prodotti dei paesi mediterranei non competitivi perché troppo costosi. Questi paesi sono scarsamente produttivi ed essendo anche esposti ad una stretta fiscale non riescono né a generare domanda interna né ad esportare.

(II) La Germania e gli altri paesi del Nord si trovano in una situazione opposta. Avendo fatto i propri compiti per casa, questi paesi (e gli altri del Nord Europa che non fanno parte della zona euro, Svezia per prima) sono molto più produttivi del resto e riescono tranquillamente ad esportare anche con un euro relativamente forte. Essi possono anche adottare politiche fiscali di spesa ed indebitamento ulteriore.

(III) I paesi del Sud sono “debitori” ed i paesi del Nord sono “creditori”. Ma chi deve non è in grado di ripagare perché ha poca capacità di export e quindi di crescita del reddito nazionale. Da qui la situazione di crisi la cui unica uscita altro non può essere che una qualche forma di svalutazione ed inflazione generalizzata all’intera area euro, attraverso un’espansione massiccia, da parte della Bce, della quantità di moneta in circolazione ed una politica di aggressiva spesa pubblica ed ulteriore indebitamento, da parte dei paesi “creditori”, Germania in testa.
Questa spiegazione delle origini della crisi e delle sue possibili soluzioni è così banalmente falsa da generare perplessità il fatto che si perda tempo a discuterne. Tanto per rimanere nel semplice: l’economia del Regno Unito non versa in condizioni molto migliori di quelle della media della zona euro, eppure non mi risulta quel paese abbia adottato l’euro o manifestato l’intenzione di farlo. Per non parlare poi dell’Islanda o, per metterci il cuore in pace una volta per tutte, degli Stati Uniti il cui debito nazionale venne declassificato, cinque mesi fa e proprio da S&P, allo stesso livello oggi attribuito a quello francese ed il cui sistema economico e bancario è in condizioni forse migliori di quello italiano ma paragonabili comunque alla media franco-tedesca.
L’idea che il debito pubblico italiano o spagnolo (per non parlare dell’irlandese o del portoghese) possa essere spiegato con il deficit commerciale di questi paesi verso la Germania è ugualmente risibile. Il debito italiano era in essere già prima dell’introduzione dell’euro e la bilancia commerciale con la Germania è andata in rosso solo cinque o sei anni fa. Non solo, se si guardano i numeri si nota che l’Italia esporta in Germania circa il 75% del valore in euro di quanto quest’ultima esporti da noi. Siccome la popolazione tedesca è esattamente i 4/3 di quella italiana ed il loro reddito pro-capite è sostanzialmente maggiore del nostro, le conclusioni sono ovvie. Argomenti simili si applicano a praticamente tutti i paesi coinvolti con l’unica eccezione della Grecia. Fra i paesi europei, poi, il paese con maggior deficit commerciale è il Regno Unito, del cui debito (al momento) nessuno sembra preoccuparsi.
Potrei continuare con i dati, ma lo spazio scarseggia. Consideriamo, dunque, quali potrebbero essere le conseguenze di una crescita della spesa pubblica tedesca. Ignoriamo pure il fatto che un paese con un rapporto debito/Pil che viaggia verso il 90% non ha poi questa grande capacità d’indebitarsi senza correre rischi. Facciamo finta che i tassi passivi rimangano inalterati e che l’accresciuto indebitamento tedesco non dreni risorse che altrimenti sarebbero disponibili per finanziare o ben il debito pubblico o ben gli investimenti degli altri paesi dell’area.
Facciamo finta, appunto, visto che al momento la BuBa è l’unico canale di finanziamento per tutte le banche italiane, spagnole e portoghesi. Per quale ragione un’espansione della spesa pubblica tedesca dovrebbe ridurre il debito pubblico italiano, per dire, o far crescere il prodotto interno lordo, quindi il gettito fiscale del nostro paese? Questo si realizzerebbe solo se la spesa pubblica addizionale si trasformasse in domanda per beni le imprese italiane non riescono a vendere; perché, se Berlino decide di costruire qualche nuovo ponte, dubito assai lo commissioni alla Cmc. Perché mai una crescita della domanda tedesca dovrebbe rendere competitive imprese che ora non lo sono o far rimanere in Italia quelle che, come nei recenti casi di Omsa e Alcoa o dell’amico mio piccolo imprenditore veneto, han deciso di muoversi altrove perché produrre in Italia è poco competitivo? Perché mai la domanda addizionale del Nord Europa dovrebbe ridurre i costi delle imprese italiane? Non è dato sapere.
Morale: questa crisi è solo iniziata e non è nemmeno chiaro quando e se essa terminerà, questo almeno se, con la parola “terminare”, intendiamo riferirci ad un agognato ritorno ad una situazione simile a quella che esisteva, per dire, nel 2003-2005. Quando smetteremo, se smetteremo, di essere in crisi sarà perché saremo riusciti, pazientemente e testardamente, a costruire un’Italia ed un’Europa molto diverse da quelle a cui gli ultimi cinquant’anni ci avevano abituati. Alternative non ce ne sono, anche perché il resto del mondo sta cambiando comunque e non sta certo lì ad aspettare che gli italiani aprano gli occhi e capiscano che mettere termine al proprio declino è solo responsabilità loro.

*Department of Economics – Washington University in Saint Louis