Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

mercoledì 29 febbraio 2012

Pansa, l'Istria e le foibe: 300mila italiani traditi dal Pci.



Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro».

Nel Giorno del Ricordo, l’altroieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia.
Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale.

La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo.

Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000. Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste.

L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma - nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre.

Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò.

La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava 34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti.

Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari.

A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani».
Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!».
La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro onore.

(di Giampaolo Pansa)

Ora la Grecia può anche fallire.


I banchieri hanno ottenuto ciò che volevano: confiscare le riserve auree di Atene. 111,6 tonnellate di oro confiscato ai cittadini greci, loro unica speranza di sopravvivere al default del debito, ora non sono più nella loro disponibilità.
Se anche l’Eurogruppo dovesse abbandonare Atene al suo destino, ora il Paese non avrebbe più la possibilità di acquistare nulla senza il metallo giallo a garanzia della potenziale valuta nazionale. E La Grecia in-house non produce nulla, tranne turismo.
Le banche sanno come si fa, oggi la valuta convenzionale non vale più nulla, è l’oro l’unica vera moneta ed è per questo che lanciano attacchi speculativi agli Stati ancora in possesso di importanti riserve auree.
Ora vi sarà chiaro anche il motivo dell’attacco estivo all’Italia: il nostro Paese ha la più grande riserva aurea pubblica dopo Stati Uniti e Germania, subito dopo di noi la Francia.

New York - Come previsto il parlamento greco ha approvato le misure che prevedono uno scambio di bond, comprese le delicate clausole di azione collettiva, che rischiano di causare un’ondata di azioni legali, in particolare da parte dei fondi hedge. Ora bisogna prepararsi al peggio. Al default selettivo nella migliore delle ipotesi, come ha avvertito Standard & Poor’s.
L’intesa prevede un taglio del 53,5% del valore delle obbligazioni emesse dallo Stato greco e lo scambio con titoli a scadenza piu’ lunga con una cedola del 3% fino al 2014, 3,75% fino al 2020 e 4,3% dopo il 2020.
Lo swap dei titoli e’ volontario, e permettera’ di abbattere di 107 miliardi l’enorme massa di debito pubblico greco in mano ai privati.
Un deputato tedesco del partito conservatore ha fatto sapere a Reuters che l’approvazione del secondo pacchetto di aiuti da 130 miliardi di euro sara’ vincolato all’impegno nei confronti del Fondo Monetario Internazionale.
Oltre alla perdita della sovranita’ e ad anni di sacrifici e sofferenza, la popolazione greca perdera’ anche le sue riserve di oro, per via di un emendamento alla costituzione ordinato da banchieri tecnocrati che non sono stati eletti e che cercheranno di venire incontro ai creditori - ovvero le banche europee insolventi - che vedranno svalutati i bond in loro possesso.
L’ammontare complessivo dei possedimenti greci e’ pari a 111,6 tonnelletate. I lingotti verranno confiscati dall’oligarchia dei banchieri.
L’ammontare di possedimenti in oro paese per paese. Al valore attuale in totale i Piigs detengono riserve per $185 miliardi.
Tra tutti i PIIGS, che rischiano di fare la stessa fine di Atene, l’oro ammonta a 3.234 tonnellate. Ai prezzi attuali si parla di $185 miliardi.
Inoltre l’accordo che l’Eurogruppo ha siglato per erogare alla Grecia il nuovo pacchetto di aiuti non sembra sortire alcun effetto positivo sulla performance dei bond ellenici.


martedì 28 febbraio 2012

Mikis Mantakas, dopo 37 anni non c'è stata ancora giustizia.

Tratto dal Secolo d'Italia del 28 febbraio 2012.


Trentasette anni fa, la mattina del 28 febbraio 1975, a piazzale Clodio, a Roma, sede della città giudiziaria era in corso il processo ai tre militanti di Potere Operaio accusati del rogo di Primavalle. In quell’inferno di fuoco appiccato da mano comunista il 16 aprile 1973 erano rimasti arsi vivi Virgilio e Stefano Mattei, figli del segretario missino del quartiere. Gli incidenti tra gruppi dell’estrema sinistra e polizia davanti alle aule del tribunale scoppiano prestissimo. A un certo momento un gruppone armato di ottanta-cento persone, bastoni e fazzoletti rossi al collo, si sposta con obiettivo piazza Risorgimento dove, all’angolo con via Ottaviano, c’è la sezione del Msi.
È l’una e un quarto e gli assalitori sono arrivati nella piazza in assoluto silenzio, camminando piegati e rasenti i muri. Davanti alla sede Prati del Msi ci sono una ventina di giovani. Tra questi, un militante del Fuan, uno studente greco di medicina. Si chiama Mikis Mantakas. Se si esclude l’amicizia con alcuni frequentatori di via Siena, si tratta di un volto pressoché sconosciuto nell’ambiente. A proteggere l’obbiettivo “sensibile” non c’è l’ombra di un poliziotto. Quando le prime molotov sparate dagli ultracomunisti iniziano a piovere sul portone del palazzo c’è il panico. L’entrata viene sbarrata in fretta e furia mentre contro le ante di legno si scaglia la cieca rabbia dei rossi. La sezione si snoda in un profondo sottoscala sotto il livello del suolo: il pericolo è quello di fare la fine dei topi, mentre il corridoio dello stabile è già invaso da fiamme e fumo. Ma – questo i compagni lo ignorano – il palazzo ha anche un altro ingresso su piazza Risorgimento. I missini allora decidono di dividersi e sfruttare l’effetto sorpresa azzardando una disperata controffensiva per prendere alle spalle il commando degli assedianti: una decina di loro esce dall’ingresso della piazza e corre verso via Ottaviano. Arrivati all’angolo li accoglie una gragnuola di colpi. Secondo alcuni testimoni ci sono almeno due persone che sparano appostate dietro le macchine parcheggiate. Secondo altri testimoni quelli armati sono addirittura cinque. Mikis Mantakas cade a terra: un proiettile gli trapassa la regione parietale sinistra e resta conficcato nel cranio. Il marciapiede è sporco di sangue e materia cerebrale, ma i ragazzi non si perdono d’animo. Nella concitazione del momento trascinano il corpo esanime dello studente all’interno dell’androne dello stabile e con la forza della disperazione si chiudono il portone alle spalle. Sono in quattro: Paolo Signorelli, Maurizio Bragaglia, Stefano Sabatini e Fabio Rolli. Intanto il soprabito di Mikis ha preso fuoco mentre fuori gli assalitori sradicano un palo della segnaletica stradale e lo usano come ariete per sfondare il portone. Mantakas agonizza.
I quattro si spostano davanti a uno dei tre garage del cortile. Nessuno degli altri militanti può correre in aiuto perché il portoncino blindato della sezione che l’ultimo ha richiuso dietro di sé ha un congegno che si apre solo se azionato da un motorino elettrico. Ma il primo assalto ha provocato un black-out in tutto lo stabile. Il grosso dei militanti pertanto si ritrova al buio e per di più sigillato all’interno del locale. Gli extraparlamentari armati, una volta scoperta l’entrata secondaria, si concentrano su quest’ultima e provano a sfondarla e ci riescono. Una volta all’interno, si rendono conto che la sezione è inespugnabile e puntano sul garage. Scoppia il finimondo e un colpo di pistola 7,65 raggiunge Fabio Rolli al fianco.
In quel momento una pattuglia di militanti che tornano da piazzale Clodio irrompe nel cortile. Tra fumo, fiamme e colpi di pistola gli assalitori, temendo di trovarsi presi tra due fuochi, decidono di abbandonare il campo. Nella sezione intanto il gruppo rimasto in trappola riesce ad aprire la porta blindata. Hanno chiamato aiuto per telefono e nel frattempo riaprono il portone di via Ottaviano per tentare un ennesimo contrattacco per arrivare all’ingresso della piazza alle spalle dei nemici in fuga. Per strada, mentre percorre via Bastioni di Michelangelo sta passando in motocicletta un giovane tipografo, Luigi Picariello, raggiunto da un colpo vagante. Un proiettile gli perfora un polmone. Finalmente si fa viva la polizia. In un inseguimento rocambolesco per le vie Borgo Pio un agente ferma uno degli assalitori con la pistola ancora fumante: è Fabrizio Panzieri.
Viene subito arrestato e accusato di aver fatto parte del gruppo di fuoco che ha massacrato il giovane Mantakas. Ma la pallottola che ha ucciso il ragazzo è partita da un’arma diversa. Il fatto è che l’agente che ha intercettato Panzieri racconta di avere inseguito in realtà due giovani che poi a un certo punto si sono divisi. Nei giorni successivi nelle retate cade Alvaro Lojacono, militante di Potere Operaio figlio dell’economista ed esponente romano del Pci, Giuseppe Lojacono, e di una cittadina svizzera. Non gli è stata contestata neppure una multa.

In Ricordo di Mikis Mantakas.




Da giorni, nelle strade della Capitale, si combatteva per la conquista del territorio e dello spazio antistante all’ingresso del Palazzo di Giustizia, in Piazzale Clodio. Il 24 febbraio del 1975, nell’aula della prima Corte d’Assise del Tribunale Penale, si svolse il processo contro i tre militanti di Potere Operaio accusati di omicidio per la strage del Rogo di Primavalle, dove persero la vita i fratelli Stefano e Virgilio Mattei. Il processo divenne il luogo – simbolo dello scontro tra le due verità. I primi a capirlo furono i missini che si presentarono in massa. Alle nove del mattino l’aula venne chiusa al pubblico, trenta esponenti di sinistra, trenta di destra e trenta poliziotti in borghese. Fuori, invece, rimasero solo i giovani del Fuan. Alle dieci e trenta i militanti di sinistra di riorganizzarono formando un corteo e puntando dritti al Tribunale al grido di “Lollo libero”. La polizia intervenne, ma esplose la violenza. Tafferugli, molotov e auto incendiate. Due poliziotti e un missino feriti, un arresto, Stefano Salpietro diciannove anni, militante di sinistra trovato in possesso di una sbarra di ferro. Alle undici e trenta un commissario di pubblica sicurezza, Pietro Scrifana, fu stroncato da un infarto mentre era in servizio. Il secondo giorno, il 25 febbraio, i militanti di sinistra si organizzarono meglio, riuscendo, alle otto e trenta, a guadagnare per primi l’ingresso al Tribunale. I missini furono costretti ad attaccare la scalinata, ma la battaglia durò poco grazie all’intervento delle Forze dell’Ordine. La tensione salì la sera, quando i locali dell’Accademia pugilistica romana di Angelino Rossi, fu assaltata da un commando a viso coperto e muniti di bottiglie molotov. Per fortuna nessun ferito, ma il giorno dopo, l’attentato, fu rivendicato da Lotta Continua. Il terzo giorno, il 28 febbraio, la battaglia iniziò alle sei e trenta del mattino, quando i due eserciti tentarono ancora una volta di guadagnare per primi l’ingresso all’aula. Lanci di pietra, bulloni e altri oggetti, fino a quando non intervenne nuovamente la Polizia. Gli scontri proseguirono fino in via Suora della Carità e si udirono alcuni colpi di pistola. Uno sconosciuto aveva esploso tre colpi di pistola calibro sette e sessantacinque contro Morice Guido, dirigente del Fronte della Gioventù. La prima volta che si sparava per politica nelle strade della Capitale a viso scoperto e armi in pugno. I dimostranti diedero fuoco ai sacchi di rifiuti della nettezza urbana e tentarono di penetrare all’interno della sede della Rai. Intanto un altro corteo non autorizzato, formato da militanti di sinistra, partì dal quartiere di Primavalle e raggiunse in tre diverse direzioni il Palazzo di Giustizia. Un ragazzo, Vincenzo Lazzara, fu colpito da un mattone provocandogli la frattura del braccio. Un altro giovane venne ferito al ginocchio da un proiettile calibro sei e sessantacinque. Anche all’interno dell’aula si verificò una scaramuccia meno grave ma la più importante della giornata. Due ragazzi, un militante di sinistra con impermeabile chiaro e un maglione, e un militante di destra con capelli corti, arrivano ai ferri corti. I due furono fermati e identificati dagli agenti di pubblica sicurezza. Il ragazzo di destra era nato a Reggio Calabria e si chiamava Luigi D’Addio. Il ragazzo di sinistra, invece, si chiamava Alvaro Lojacono, rilasciato alle undici grazie all’intervento di un avvocato. Intanto altri missini, Umberto Croppi e Mikis Mantakas, era riusciti ad entrare in aula ma divisi dalla precipitazione degli eventi. Quando all’una l’udienza fu rinviata, i militanti missini, asserragliati nel Tribunale si organizzarono per arrivare incolumi fino all’avamposto più vicino, la sezione di via Ottaviano. Un primo drappello, tra cui Mikis Mantakas, riuscì a superare il cordone e arrivare a destinazione. Gli altri, tra cui Umberto Croppi, fu costretto ad aspettare una Fiat 128 che faceva da spola, trasferendo quattro persone alla volta. All’una e un quarto, in via Ottaviano, vi erano poco più di venticinque militanti, quando le prime molotov iniziarono a piovere sul portone del palazzo. La sezione era costituita da un piccolo labirinto di stanza e stanzette, con un profondo sottoscala, sotto il livello del suolo. Ma il palazzo aveva anche un altro ingresso, quello che dava su Piazza Risorgimento. Mentre il corridoio era già invaso dal fumo e dalle fiamme, i missini, decisero di dividersi e sfruttare l’effetto sorpresa, azzardando una disperata controffensiva per prendere alle spalle il commando. Una decina di giovani uscirono dall’ingresso della Piazza e corsero verso via Ottaviano. Ma arrivati all’angolo furono accolti da una pioggia di fuoco. Mikis Mantakas, ventitre anni, cadde a terra. Un proiettile lo aveva colpito al cranio trapassandogli la regione parietale sinistra. Perse conoscenza ma ancora vivo. Al suo fianco vi era un ragazzo, Franco Anselmi, munito di passamontagna e bagnato da un fiotto di sangue schizzato via dalla testa di Mikis Mantakas. Per anni conservò il passamontagna come una reliquia. I ragazzi della sezione raccolsero il corpo e con la forza della disperazione tornarono verso il portone posteriore. Il soprabito di Mikis Mantakas prese fuoco. Gli assediati riuscirono ad entrare nell’atrio e a barricare il portone. Fuori, gli assedianti sradicarono un palo della segnaletica stradale e lo usarono come ariete per sfondare il portone. Mentre i colpi del palo risuonavano nel cortile, i missini, decisero di chiudere il corpo di Mikis Mantakas, ancora vivo, in uno dei tre garage del cortile sorvegliato da un amico. Gli altri, invece, ripiegarono verso la sezione rifugiandosi nel sotterraneo. Sfondato il portone, il commando, non accorgendosi della saracinesca della sezione abbassata, puntarono sul garage centrale crivellandolo di pallottole. Mikis Mantakas e il suo custode si trovarono però nel garage di fianco. In quel momento una nuova pattuglia di missini, che tornava da fuori, irruppe nel cortile e gli assalitori decisero di abbandonare il campo. Nell’atrio cadde un altro missino, Fabio Rolli, colpito al fianco da una pallottola calibro sette e sessantacinque, che si trovava sulla via di fuga del commando. Arrivato a via Ottaviano, Umberto Croppi, capì che per l’amico non vi erano più speranze. Infatti, trasportato d’urgenza in ospedale, il cuore di Mikis Mantakas smise di battere dopo due ore dall’agguato. In quei momenti di confusione, un poliziotto, Luigi Di Iorio, centralinista nel vicino Commissariato di Borgo, mentre attraversava Piazza Risorgimento con la sua auto, una Fiat 850, vide materializzarsi due individui armati che si allontanavano dalla Piazza correndo con le pistole in pugno. Il primo, di media statura, alto circa un metro e settanta con un impermeabile chiaro. Il secondo, invece, più alto con i baffi e sempre con un impermeabile chiaro. L’appuntato scese dall’auto, estrasse la pistola d’ordinanza e iniziò l’inseguimento verso Borgo Pio. Uno dei due si girò e, sempre correndo, sparò due colpi. Come nei film, decisero di dividersi. Il più basso girò verso destra, l’altro, più alto, verso sinistra. L’agente Di Iorio decise di inseguire il primo quello che aveva sparato. Ma per qualche istante lo perse di vista. A quel punto fu avvertito da una persona anziana che il fuggitivo si era infilato in un portone, al numero ottantacinque di via Del Falco. Intanto una pattuglia della Polizia giunse sul posto. Entrarono nel portone e l’appuntato vide un giovane che scendeva. Indossava un paio di pantaloni blu, un maglione beige, ma niente impermeabile. Mentre gli altri agenti fermarono e perquisirono il ragazzo, Luigi Di Iorio, salì al primo piano e trovò un impermeabile di colore chiaro. Al secondo piano, invece, in un angolo, vi era una pistola Beretta calibro sette e sessantacinque, colpo in canna e un caricatore da sei colpi. Il giovane fu identificato come Fabrizio Panzieri che subito si dichiarò innocente ed estraneo ai fatti. A incastrare l’altro individuo furono le testimonianze di alcuni missini, ma non solo, che si presentarono spontaneamente dai Carabinieri. Prima Franco Medici, poi, Alessandro Rosa e infine, Fernando Maiolo. Tutti confermarono che a sparare quel pomeriggio fu Alvaro Lojacono, l’uomo che fu identificato dalla polizia alcune ore prima nell’aula del Tribunale. Mikis Mantakas nacque ad Atene il 13 luglio del 1952 ed era cresciuto in un quartiere residenziale, il Papagos. Il padre, Nikos Mantakas, era un Generale in pensione, aveva guidato le truppe partigiane durante la guerra contro il nazifascismo a Creta. La madre, Calliope, era antifascista e oppositrice attiva del regime. Mikis Mantakas, nel 1969, decise di trasferirsi in Italia. A Bologna, lo zio gestiva una clinica privata e il suo primo obiettivo era di laurearsi e lavorare con lui. Si iscrisse all’Università presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia, ma fu costretto a trasferirsi a causa di un’aggressione, per motivi politici, subita di fronte all’istituto di biologia. Ricoverato in ospedale con quaranta giorni di prognosi, decise di iscriversi all’Università La Sapienza di Roma. Nel 1970, in Grecia, una dittatura fascista aveva preso il potere e per un greco in Italia significava o essere fascista o antifascista. Mikis Mantakas si avvicinò alle idee più lontane da quelle dei suoi genitori. Frequentava il bar di via Siena, molto vicino alla facoltà, dove conobbe i ragazzi del Fuan. Una comunità affiatata e cameratesca. Conobbe anche una ragazza, Sabrina Andolina, poco più piccola di lui, molto carina, lavorava come segretaria nella Sede Nazionale di via Quattro Fontane, con il Presidente del Fronte della Gioventù, Luciano Laffranco. Mensilmente, Mikis Mantakas, riceveva dal padre un assegno di centocinquantasette mila lire che serviva per pagare l’affitto di un piccolo appartamento che divideva con altre persone, le telefonate a casa e qualche libro. Si era iscritto al Fuan solo da sei mesi. Uno dei suoi migliori amici fu Umberto Croppi, leader della corrente rautiana, il camerata che quel 28 febbraio lo accompagnò al suo appuntamento con il destino. I funerali si svolsero a Roma, nella chiesa di Piazza della Minerva, riempita da una folla che straboccava nelle vie laterali. Al termine della messa, Giorgio Almirante, Segretario del Movimento Sociale Italiano, si fermò sulla scalinata dove improvvisò un discorso a braccio di sei minuti. Come per Lollo, Clavo e Grillo, anche Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, divennero i due simboli della sinistra extraparlamentare. Si mobilitarono il Soccorso Rosso, Dario Fo e Franca Rame, gli ideologi Vittorio Foa, Aldo Natoli e Antonio Landolfi, componenti del “Comitato per la liberazione di Panzieri”. Il comitato fu presieduto dal Senatore Umberto Terracini, Presidente dell’Assemblea Costituente e firmatario della Costituzione Italiana. Il processo di primo grado contro Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono, militanti di Potere Operaio, si concluse nel marzo del 1977 con la condanna a nove anni e sei mesi di reclusione per concorso morale in omicidio a Panzieri. Assoluzione, invece, per insufficienza di prove a Lojacono. Il processo di secondo grado, presieduto dal Giudice Filippo Mancuso, nel maggio del 1980, si concluse con la condanna a sedici anni di reclusione per entrambi. Ma un ricorso in Cassazione riuscì a bloccare l’esecutività della sentenza per Alvaro Lojacono e, nonostante la condanna, rimase in libertà per poi fuggire prima, in Algeria, e poi, nel Canton Ticino, in Svizzera assumendo il cognome della madre. Più tardi si fece luce sulla sua partecipazione alla lotta armata, prima e dopo la sentenza di quell’anno. Nel 1978 fu accertata la sua presenza nel commando delle Brigate Rosse che rapì Aldo Moro e uccise la sua scorta. Nel 1981, fu incriminato per il rapimento Cirillo. Nel 1982 per l’omicidio dell’assessore campano, Raffaele Delcogliano. Nel 1983, fu condannato all’ergastolo per l’omicidio del Magistrato Girolamo Tartaglione, del consigliere della Democrazia Cristiana Italo Schettini, degli agenti di pubblica sicurezza Ollanu e Mea, per l’uccisione del Colonnello dei Carabinieri, Antonio Varisco, e per l’assassinio del Maresciallo di Polizia, Mariano Romiti. La Svizzera non concesse mai l’estradizione anche se fu arrestato nel 1988 a Lugano e condannato a 17 anni di reclusione per il caso Tartaglione. Dopo nove anni, nel 1997, ottenne dal Tribunale elvetico la semilibertà per seguire un corso di giornalismo e nel 1999 divenne un uomo libero. Anche Fabrizio Panzieri, approfittando di una scarcerazione, si diede alla latitanza. Gli inquirenti accertarono la sua affiliazione alle “Unità Comuniste Combattenti”, attive tra il 1977 e il 1979 nel Lazio, Toscana e Calabria, condannato, nel 1982, a ventuno anni di reclusione. Ancora oggi risulta latitante. Non persero troppo tempo a ringraziare, una volta usciti di cella, approfittando della prima occasione per scappare, senza concedere a chi aveva creduto nella loro innocenza nemmeno il conforto di una verità illusoria. Se Fabrizio Panzieri e Alvaro Lojacono fossero stati tenuti in carcere, la loro manovalanza sarebbe stata sottratta alla confezione di numerosi omicidi.

Quello di Mikis è l’ennesimo omicidio impunito di un giovane idealista che credeva nella libertà e nel coraggio, che lottava quotidianamente per dare concretezza ai suoi ideali. Il suo sacrificio, come quello di tutti i ragazzi che come lui hanno dato la vita per quello in cui credevano, deve essere per noi uno stimolo fortissimo a non lasciarci scoraggiare dalle difficoltà quotidiane, a continuare nell’impegno che loro prima di noi hanno portato avanti, a tenere sempre in alto la fiaccola dell’idea che le loro mani non possono più stringere ma che ora brucia fiera nelle nostre.


Onore al Martire Europeo 
MIKIS MANTAKAS!


Sabrina, la ragazza di Mikis, il giorno dopo, scrisse una struggente lettera d'addio pubblicata sul "Secolo d'Italia". Proprio quella lettera ispirò a Carlo Venturino, leader del gruppo musicale "Amici del Vento", una delle più belle canzoni di musica alternativa, rimasta per oltre vent'anni il simbolo del martirio dei giovani di destra: "Nel suo nome". 


lunedì 27 febbraio 2012

I DUE MARO' VALGONO LA CREDIBILITA' DELL'ITALIA.



La notizia del fermo dei due marò in India ha ormai conquistato ampi spazi sui giornali dopo giorni e giorni di colpevole silenzio sull’accaduto.  Proviamo a fare un po’ di chiarezza partendo dall’antefatto: qualche mese fa il Governo italiano nella persona dell’allora ministro della difesa Ignazio La Russa ha sottoscritto un accordo con gli armatori italiani al fine di arginare il fenomeno dilagante degli atti di pirateria al largo delle coste indiane. L’accordo (attualmente in vigore) prevede che sui mercantili battenti bandiera italiana siano dislocati 60 fucilieri del Reggimento San Marco divisi in 10 nuclei da 6 in missione anti abbordaggi. La petroliera italiana Enrica Lexie ospitava uno di questi nuclei. Il fatto: il 15 febbraio scorso si è verificato un incidente in mare, a 33 miglia di distanza dalla costa indiana quindi in acque internazionali (la distanza in miglia marine è confermata dal satellite ndr). Secondo la ricostruzione operata dal militare Massimiliano Latorre, capo del nucleo di protezione imbarcato sulla Lexie, una imbarcazione indiana con a bordo cinque uomini armati si avvicinava alla petroliera italiana con intenzioni poco chiare e, nel rispetto delle regole, i marò hanno ritualmente proceduto con avvertimenti verbali e warning shot fin quando l’imbarcazione, giunta ormai a soli 100 metri dalla Lexie, invertiva la rotta allontanandosi. I colpi, precisa Latorre nella sua relazione di servizio, sono stati esplosi sempre e solo contro lo specchio d’acqua antistante l’imbarcazione indiana, senza mai colpire lo scafo. Tale ricostruzione non coincide con quella operata dalle autorità indiane secondo le quali i marò avrebbero sparato agli indiani presenti a bordo dell’imbarcazione e definiti semplici pescatori, uccidendone due. Ma le incongruenze non finiscono qua: non coincide l’orario dell’azione; non vi è accordo sulla effettiva posizione in mare della petroliera (quella data dai marò è confermata dal satellite) e non combacia la quantità di colpi esplosi (una ventina secondo i marò, sessanta secondo gli indiani). A mescolare ancora di più le carte c’è un altro dettaglio di non poco conto: secondo quanto riportato dal Corriere.it e da altri importanti quotidiani quella stessa sera si sarebbe verificato un altro attacco di pirateria in un tratto di mare poco distante. Per i marò la situazione è precipitata quando, nonostante il parere contrario espresso dalla Marina Militare italiana, la Lexie si è avvicinata alle coste indiane lasciando a terra Massimiliano Latorre e Salvatore Girone così come richiesto dalle autorità indiane. Non è dato sapere al momento con chi il comandante e l’armatore hanno condotto la trattativa che, allo stato dei fatti, si è conclusa con il fermo dei due militari italiani in forza di un episodio sul quale occorre ancora far luce ma che comunque si è verificato in acque internazionali e ad opera di militari in missione su una petroliera battente bandiera italiana. Il ministro  dell’interno Paola Severino ha affermato che la giurisdizione è senz’altro italiana ma a questa conclusione potrebbe agevolmente giungere qualunque studente al terzo anno di giurisprudenza che abbia sostenuto l’esame di diritto internazionale. In quanto ad ovvietà non è da meno il ministro degli esteri Giulio Terzi che denuncia il rischio di pressioni mediatiche sull'autorità inquirente dovute alla campagna elettorale in corso in India ma auspica indagini serene e scrupolose. Dai ministri ci aspetteremmo interventi incisivi nei confronti delle autorità indiane e non semplici commenti tecnico-giuridici. Il governo Monti ha fatto della rinnovata credibilità dell'Italia in ambito internazionale il proprio vessillo e adesso è giunta l'ora di sventolare alta questa bandiera. Non vogliamo un'Italia che si preoccupi di essere credibile per le agenzie di rating ma una nazione in grado di difendere i propri militari impegnati ogni giorno nelle missioni di pace e in difficili operazioni come quelle antipirateria nell'Oceano Indiano. Ma forse alla Farnesina sono troppo impegnati a studiare le canzoni del console Mario Vattani per occuparsi dei nostri marò impunemente sequestrati (è questo il termine più adatto) in India.

L'Italia non deve aderire all'ESM.




Leggi qui: 
Mobilitiamoci,il pericolo è estremo.

domenica 26 febbraio 2012

Un mondo senza Wall Street? È possibile.

di Andrea Sartori

Il capitalismo finanziario è divenuto del tutto autoreferenziale e la finanza ha cessato da tempo di essere una risorsa per l’economia reale ed è divenuta un generatore di bolle speculative, secondo François Morin, professore emerito di scienze economiche all’Università Touluse-I ed ex membro del Consiglio Generale della Banca di Francia. Nel suo libro Un mondo senza Wall Street?, Morin analizza la crisi e indica delle vie d’uscita, per ripensare il ruolo della finanza.

La sede della Borsa di New York
Quando nel 2008 il Fondo monetario internazionale valutò le perdite globali durante la crisi dei subprime in 400 miliardi di dollari, e alzò la valutazione, già all’inizio del 2009, a ben 4.000 miliardi per il solo mercato americano, era evidente che la massima istituzione monetaria non aveva chiare le proporzioni di quanto stava accadendo. La sottovalutazione del fenomeno ha condotto a fornire delle spiegazioni della sua origine, che non ne hanno colto la portata strutturale e hanno limitato fortemente le contromisure.

François Morin, professore emerito di scienze economiche all’Università Touluse-I ed ex membro del Consiglio Generale della Banca di Francia, scrive, nel suo Un mondo senza Wall Street?, che va messa a fuoco l’autentica radice del problema: la finanza ha cessato da tempo di essere una risorsa per l’economia reale ed è divenuta un generatore di bolle speculative, dipendente dagli interessi di precisi oligopoli bancari e delle più agguerrite società di borsa. Wall Street avrebbe pertanto perso la sua funzione principale, al punto che solo smantellarla e sostituirla con una politica monetaria e fiscale internazionale, e con una profonda revisione della governance delle imprese di capitali, metterebbe al riparo gli Stati, le aziende e il lavoro dalle smodate pretese di arricchimento di una finanza ipertrofica. Un’utopia, certo, ma «concreta», come Morin non cessa di ripetere, poiché attrezzata sia sotto il profilo diagnostico, sia sotto quello propositivo.

sabato 25 febbraio 2012

Le Foibe e la pistola di Togliatti puntata contro la democrazia.



Ancora una volta il Giorno del Ricordo è servito a dimenticare la verità. A nasconderla. A farla a pezzi, così da poterne prendere soltanto la parte (piccola piccola) condivisa da (quasi) tutti. Compresi i variegati eredi del Pci. È vero, le foibe furono una pulizia etnica anti-italiana. Si omette di ricordare, però, che quella strage fu soprattutto una pulizia politica, finalizzata ad un preciso disegno: liberare dagli elementi ostili il cosiddetto “corridoio jugoslavo”, affinché potesse essere facilitata l’invasione dell’Italia del Nord da parte dei comunisti (la rottura stra Stalin e Tito avverrà solo nel 1948). Un progetto che vide l’adesione totale e convinta del Pci di Togliatti e Longo, che collaborò attivamente con gli assassini jugoslavi affinché le foibe avessero le proporzioni della tragedia che oggi – finalmente – tutti  conosciamo. Gli indirizzi degli italiani «da prelevare» erano spesso e volentieri forniti dai comunisti italiani; gli stessi che in quegli anni, come alcuni documenti del Viminale dimostrano, organizzavano i «campi di concentramento regionali per gli oppositori» del nuovo regime che avrebbe dovuto affogare l’Italia nella dittatura rossa. Tutto ciò non accadde soltanto perché il rispetto dell’Urss degli equilibri di Yalta impedì al Pci di fare ciò che – anche dopo le elezioni del 1948 – avrebbe voluto.

Un esito che i comunisti italiani prepararono ben prima della fine della guerra, come testimonia l’eccidio alle malghe di Porzûs, quando il 7 febbraio 1945 i partigiani del Pci fecero strage dei partigiani cattolici e liberali. Ad essere trucidati dai compagni in armi furono altri resistenti, alleati nella lotta di liberazione, ma contrari all’annessione alla Jugoslavia comunista. Un eccidio sul quale calò una pesantissima coltre di silenzio al fine di far trionfare una serie di falsi storici destinati a diventare veri e propri miti. A cominciare dall’unità antifascista e dall’interpretazione della Resistenza come secondo Risorgimento, tutte circostanze che uscivano letteralmente a pezzi da quell’eccidio e dalla vicenda delle foibe.

È una verità scomoda che i gendarmi della memoria devono censurare due volte: innanzitutto perché smentisce l’interpretazione minimalista della tragedia istriano-dalmata come “pulizia etnica”, puro e semplice odio anti-italiano da rintracciare in una «reazione al fascismo» che non spiega quasi nulla di ciò che accadde. Già nel 1943 – come ricorda il ricercatore di Lubiana Matej Leskovar – esistevano liste di persone da eliminare a Trieste (ben 20mila) elaborate insieme da comunisti italiani e sloveni, oltre che accordi sulla divisione dei territori di confine.

In secondo luogo, la verità di un’operazione politica e non semplicemente etnica va negata in quanto rischia di minare le basi di quel mito della resistenza che, in barba a tutti i revisionismi, continua a non dovere essere scalfito: cioè che il Pci combattè per la libertà e la democrazia. Al contrario, il partito di Togliatti fu una pistola costantemente puntata contro il nostro ordinamento democratico, al punto da organizzare un vero e proprio esercito in armi, un’organizzazione paramilitare totalmente anticostituzionale – la famosa Gladio rossa – la cui vicenda, nonostante gli importanti passi in avanti fatti dalla storiografia negli ultimi anni, è in parte ancora oggi avvolta da fitte nebbie.

È questo l’autentico peccato originale, il vero falso storico che ha avvelenato – e continua ad avvelenare – la memoria e la coscienza della nostra Patria.

Vincenzo Nardiello

venerdì 24 febbraio 2012

Il libro “nordcoreano” sulla vita di Monti.



«In principio era il Sobrio Leader, e il Sobrio Leader era presso Dio, e il Sobrio Leader era Dio». Poteva benissimo iniziare così l’imbarazzante agiografia di Mario Monti appena uscita in ebook a cura di Nicola Capodanno per gli Editori Internazionali Riuniti: Monti per la risalita - Un professore per palazzo Chigi. Un lavoro dal taglio nordcoreano, il cui primo capitolo è stato messo a disposizione gratuitamente da Corriere.it. Basta cliccare, quindi, e ci si immergerà come d’incanto nella vita, nelle opere e nei miracoli del Sobrio Leader, immortalate dalla penna di un ex giornalista de L’Espresso e pubblicate dalla casa editrice che fu custode della più rigida ortodossia togliattiana. Sfogliamo – virtualmente – ed entriamo nella sagra dell’aggettivo accondiscendente. Non a caso l’incipit dell’opera è già tutto un programma: «Schivo, riservato e controllato». Un inizio con il botto, che dà un po’ il tono a tutto il resto dell’opera. Anche se, andando avanti, troveremo anche di peggio.

 Roba che Una storia italiana, il volumetto autoprodotto da Berlusconi per raccontare la propria vita, al confronto sembra scritto da Travaglio. Scopriamo quindi che negli anni della giovinezza il Sobrio Leader era moderato, sì, ma non disdegnava qualche puntatina allo stadio o qualche giro con la sua Lancia Flavia coupé. Della serie: anche i bocconiani sanno divertirsi. Non si hanno notizie, per il momento, di acqua tramutata in vino in qualche banchetto nuziale, ma confidiamo nella ricerca d’archivio. Seguono gli studi: Bocconi, ovviamente, Yale, gli studi a fianco di Tobin, quello della tax, eccetera eccetera. Non mancano citazioni della presentazione del dottorato honoris causa all’Istituto di studi politici di Parigi. In quell’occasione il mentore del futuro Sobrio Leader è Dominique Strauss-Kahn, che più tardi diventerà direttore generale del Fondo monetario internazionale. Nonché noto sessuomane (ma su questo Capodanno sorvola, sia mai che il quadretto idilliaco possa essere anche solo indirettamente turbato da interferenze).

Ma intanto passano gli anni e il nostro eroe si fa notare anche dal mondo politico. Ma sempre a debita distanza: «Un carattere come quello del professore non gli consentirebbe mai di affrontare comizi in piazze affollate o corse alla conquista di primarie di partito». Nonostante questa purezza francescana, il futuro Sobrio Leader verrà nominato dal Cavaliere come commissario europeo. In Europa, lontano dal fracasso plebeo delle italiche vicende, Egli si trova nel suo elemento. È in questo contesto, infatti, che si ha notizia dei suoi primi miracoli. Come quando, nel 1999, «si rifiuta di piegarsi alla volontà delle lobby e abolisce le vendite duty-free di alcol e tabacco per i viaggiatori che si spostano all’interno delle frontiere dell’Unione europea». Ed Egli vide che era cosa buona. L’abolizione del duty-free, infatti, rappresenta per Capodanno «un altro aspetto centrale della figura di Monti, ovvero: battersi per i principi giusti come farebbe Davide contro Golia» (c’è scritto davvero, giuro, è a pagina 15). Sconfitta la terribile lobby aeroportuale, il futuro Sobrio Leader attacca le oscure legioni di Microsoft.

La politica, ingrata, non ne apprezza la santità o forse ne ha timore. «Ma la fine del mandato di commissario non significa che sia esaurita la sua sfida per l’integrazione europea». Nel periodo post-Commissione, infatti, Egli si dà molto da fare per diffondere la buona novella. In quel tempo diventa anche international advisor di Goldman Sachs, pudicamente definita nel saggio come «una delle più grandi e importanti banche d’affari del mondo». Non una-riga-una sulle imprese discutibili di questa combriccola di benefattori il cui peso in Europa ha impensierito persino Le Monde.

Nulla sul suo ruolo nella crisi, nulla sui titoli spazzatura, nulla sulle operazioni speculative che hanno colpito il settore agroalimentare mondiale, nulla sulle provatizzazioni italiane degli anni ’90. Persino un montiano doc come Massimo Gramellini, nell’ambito di un panegirico di Mario Draghi (!), ebbe il pudore di riconoscere che la Goldman Sachs è una «cattedrale della finanza che non dà molti punti per il concorso di santità». Ma nell’agiografia del Sobrio Leader di tutto questo non si parla anche se (coda di paglia?) si precisa come Egli non abbia svolto alcun ruolo dirigenziale esecutivo in quella banca. E Bilderberg? E la Trilateral Commission? Innocui circoli d’affari, un po’ troppo riservati, forse, ma nulla di cui preoccuparsi. «Lo scopo [di questi incontri] è quello di favorire lo scambio qualificato di opinioni, non di prendere decisioni». Meno male, chissà che pensavamo noi. Ma non di sole oligarchie vive un Sobrio Leader. Egli è infatti «molto legato alla famiglia». I figli – Federica e Giovanni – hanno carriere di successo (ma guarda un po’). Del maschio, in particolare, si dice che sia «la fotocopia del padre in termini si serietà e concretezza». Ma non c’è vera vita privata, per chi ha scelto il cammino della santità: «Inevitabilmente, anche in vacanza porta con sé tonnellate di carte da studiare». A Milano (dove ha una casa «elegante, ma comunque molto sobria»), Egli è solito camminare per le vie del centro con fare dimesso. «Non lo fa per “snobismo”, ma soltanto perché preferisce evitare inutili scambi formali».

A volte potrebbe sembrare uno sulle sue, ma ricordiamoci che Egli si è fatto uomo per noi. In ogni caso, «difficilmente lo si incontra in luoghi pubblici anche perché non frequenta ristoranti o caffé alla moda al solo scopo di essere visto o magari essere ripreso dalle telecamere». Non c’è scritto, ma è probabile che si nutra solo di acqua di fonte e poche fette di pane bianco, giusto per conservare il proprio candore. Ciononostante, il Sobrio Leader «è una persona molto divertente», «è un eccellente comunicatore e ha una struttura logica invidiabile». In fondo il suo messaggio è amore e infatti la deputata danese Karin Riis-Jorgensen si lascia andare, in Parlamento, ad uno spassionato: «Mister Monti, I love you». È così che «quando lascia la Commissione, raccontano alcuni testimoni, tra gli addetti ai lavori era evidente la commozione e più di uno lo saluta con le lacrime agli occhi».

A Bruxelles la luce del suo ufficio è accesa anche di notte, poiché Egli lavora fino a tardi. Conosce tutti e di tutti ha la stima. Ma alla fine, Egli decide di sacrificarsi per noi. Accetta quindi la croce del governo e sale sul Golgota di Palazzo Chigi. Il compito è arduo, ma Egli lo affronta con la serenità dei probi. Egli non ha paura. È il Sobrio Leader. Ed è qui per noi.


giovedì 23 febbraio 2012

Quale primavera in Libia?



Libia, muore in carcere la “giornalista del Raìs” che durante la campagna d’aggressione patrocinata dall’ONU andò in televisione con la pistola per spronare i libici alla resistenza. Hala Misrati, questo il nome della giornalista, è morta in carcere, ma secondo alcune fonti sarebbe stata prima torturata fino ad arrivare a tagliarle la lingua. Forse, anche per questo, sembra avesse ad un certo momento aderito agli insorti. A mesi di distanza dalla “primavere araba” i “ragazzi della rivoluzione”, quelli del vento di cambiamento e della libertà, continuano a mietere le loro vittime.

La nota presentatrice libica pro-regime, Hala Misrati, sarebbe stata trovata morta in un carcere della capitale libica, uccisa dai membri di una delle cosidette brigate rivoluzionarie, riferisce un’emittente degli Emirati Arabi. Prima della caduta di Gheddafi la giornalista era apparsa in tv armata di pistola e poi, arrestata dai ribelli, era passata dalla loro parte.

UCCISA NEL GIORNO DELL’ANNIVERSARIO - Come riporta domenica il canale al-Arabiya, le notizie dell’uccisione della presentatrice dell’allora televisione di stato libica Jamahiriya, erano circolate nel Paese già nella giornata di sabato. Misrati sarebbe stata ammazzata il 17 febbraio, proprio in occasione del primo anniversario dell’avvio della liberazione della Libia dal regime di Gheddafi. Dalle autorità della capitale non è arrivata al momento nessuna presa di posizione ufficiale sulla morte della giornalista. Per il canale Algeria ISP si tratta invece solo di «voci prive di conferma».

STAR DELLA TV DEL RAÌS - Hala Misrati, un tempo tra le voci più forti della propaganda di Gheddafi, era apparsa in video nell’agosto scorso con una pistola in pugno e l’espressione eroica. In diretta tv aveva minacciato di usarla per difendere il regime dai «cani» di Bengasi, ovvero i ribelli alleati degli occidentali. «Ucciderò o morirò oggi con quest’arma», aveva detto Misrati davanti alle telecamere proprio mentre i ribelli stavano avanzando su Tripoli. «Non prenderete le nostre televisioni. Qui siamo tutti armati, siamo disposti a diventare dei martiri», aveva concluso. Catturata e arrestata dagli insorti la fervente seguace del Colonnello chiese scusa ai rivoluzionari del 17 febbraio, cambiò casacca e passò dalla loro parte. L’ultima volta di Hala Misrati in tv risale al 30 dicembre scorso. Era apparsa in video restando in silenzio, sventolando un foglio sui cui erano annotati solamente il giorno, il mese, l’anno. Riportava però visibili segni di percosse sul volto e secondo alcuni c’era il sospetto che alla donna fosse barbaricamente stata tagliata la lingua.

APPELLO AI RIVOLUZIONARI - In un discorso televisivo di qualche sera fa, in occasione del primo anniversario della rivolta, il premier del governo di transizione, Adbel Rahim al Kib, si è nuovamente appellato a tutti i rivoluzionari armati, perchè aderiscano al più presto all’esercito o prestino servizio presso il ministero dell’Interno del Paese: «Se non occupate voi le importanti cariche nella polizia e nell’esercito, queste resteranno libere per elementi che sono meno fedeli alla nazione». Fino ad oggi sono circa 5000 i rivoluzionari che si sono fatti avanti per prestare servizio in polizia. Altrettanti avrebbero deciso di arruolarsi nell’esercito.


mercoledì 22 febbraio 2012

SALVIAMO I NOSTRI MARO'.

di Marcello De Angelis


La vicenda “indiana” ha del grottesco. Non c’è nulla di ufficiale, solo voci né confermate né negate. Eppure sembra che la Marina militare abbia fortemente sconsigliato l’armatore di accettare l’invito delle autorità indiane a “consegnarsi”, mentre la Farnesina avrebbe dato indicazioni contrarie su assicurazioni del governo di Nuova Delhi, prontamente disattese una volta che i marò sono scesi a terra. Retorico sostenere - come però inevitabilmente in tanti hanno fatto - che un simile trattamento da molte altre nazioni non sarebbe stato tollerato, che ci sarebbero già stati annunci di misure forti, ritiro di ambasciatori, embarghi.
Gli americani non ci consentirono nemmeno di processare i piloti balordi che causarono la strage del Cermis. Ma si tratterebbe di una polemica fin troppo facile nei confronti di un governo che, in fin dei conti, è stato imposto dal Capo dello Stato solo per occuparsi di materie di urgenza e emergenza in campo economico. Fatto sta che se una cosa del genere fosse accaduta con il governo Berlusconi i ministri di Esteri e Difesa sarebbero finiti crocefissi al portone di Montecitorio. E forse non è proprio un caso che, in queste ore, sia proprio l’ex-ministro della Difesa Ignazio La Russa a farsi promotore di una iniziativa - che definisce però bipartisan - di sensibilizzazione popolare nei confronti della sorte dei nostri due soldati. Ne annuncerà il contenuto oggi in una conferenza stampa. NON LASCIAMOLI SOLI.

Madonna che silenzio c'è stasera.


Gabriele Marconi
di Gabriele Marconi (Area)

 Di questi tempi mi torna in mente il titolo di un film del 1982, con Francesco Nuti: Madonna che silenzio c’è stasera. Ma non per la trama né per l’ambientazione (anche se fa quasi tenerezza vedere le aziende tessili di Prato ancora in mano agli italiani). È proprio per il titolo, che commenta perfettamente quello che sta succedendo. Possibile che tutti quelli che fino a un paio di mesi fa urlavano e strepitavano a difesa dei diritti dei lavoratori, degli studenti o dei pensionati, adesso se ne stiano zitti e buoni e soddisfatti? Ricordate le levate di scudi per ogni riforma prospettata dal governo di centrodestra? A ogni più piccola iniziativa sembrava che stessimo per essere schiantati da un meteorite. Adesso il governo Monti si può permettere di sospendere l’articolo 18, annunciare licenziamenti, imporre nuove tasse e reintrodurre quelle vecchie, aumentare il prezzo dei carburanti… e la risposta è il silenzio.

I nuovi ministri promuovono in santa pace leggi infinitamente più dure di quelle del centrodestra, perché tanto nessuno reagisce. Dove sono adesso i sindacati che scendevano in piazza tutti i giorni contro gli “attacchi incivili” al mondo del lavoro? Dov’è adesso il mondo dell’informazione che cannoneggiava di continuo Brunetta & C. per ogni dichiarazione? Fornero, Monti e banchieri associati si permettono battute da padroni delle ferriere e i giornali non fanno nemmeno finta di accorgersene… Se l’avesse detto Tremonti che «chi si laurea a 28 anni è uno sfigato» o che «i giovani non trovano lavoro perché vogliono stare vicino a mammà», i nostri arditi mediatici avrebbero scatenato i loro colleghi della stampa internazionale e se ne sarebbe parlato finanche al tg degli esquimesi…

Dicevano che Berlusconi controllava l’informazione e così c’è scritto pure nei manuali di storia per le scuole, eppure - a prescindere dai suoi errori - è stato l’attacco dei mass media ad abbatterlo. E allora dov’era questo presunto controllo? L’abbiamo scritto tante volte su queste pagine: la realtà che conosciamo è quella che ci comunicano. Ma allora, come facevano tutti a sapere che Berlusconi controllava l’informazione? Lo comunicava lui stesso? La risposta è ovvia e matematica: no. Era una “realtà” che ci veniva propinata dalla stragrande maggioranza dei giornali e telegiornali, riviste e trasmissioni televisive, film, libri e monologhi teatrali. E se l’attacco era giustificato dalle mancanze di Berlusconi, perché adesso la stessa macchina da guerra niente affatto gioiosa tace vergognosamente davanti a un governo che sta portando avanti una politica infinitamente più “padronale” (oltre che supina agli interessi esteri) fregandosene dell’opinione degli elettori, visto che tra l’altro nessuno lo ha eletto?

Dove sono adesso le inchieste contro gli abusi di potere e contro i conflitti d’interesse?
E dove sono adesso gli implacabili contestatori?

Dove sono i comici col dente avvelenato dall’ideologia e i tribuni televisivi sempre pronti a invocare la libertà d’insulto?

Tutti spariti, grati a questo governo che ha defenestrato l’odiato Cavaliere.

Hanno venduto l’anima al diavolo pur di riuscire là dove il confronto democratico li aveva sconfitti.

Venduti alle banche che volevano distruggere.

Venduti ai finanzieri globalisti che volevano incatenare.

Venduti ai padroni che dicevano di odiare.

Venduti al “sistema borghese” che volevano abbattere.

Venduti, venduti, venduti.

Come avvertivamo il mese scorso, è anche ricominciata la caccia alle streghe stile anni Settanta, con paginate allarmanti (e deliranti) sul “pericolo nero” e - come da copione di un-colpo-al-cerchio-e-uno-alla-botte - sono arrivati gli arresti dei miliziani No Tav dei centri sociali. E così, distratti dal risorgere degli “opposti estremismi”, oltre che da naufragi e bufere di neve, gli italiani possono sopportare pure le schifezze che vengono impastate sulle loro teste.

Do you remember “meglio i ladri che gli assassini”?

martedì 21 febbraio 2012

E’ morto Fausto Gianfranceschi, ultimo intellettuale reazionario.


Fausto Gianfranceschi
Fu una festa d’addio quella che facemmo poche settimane fa a Fausto Gianfranceschi, senza dirlo a nessuno, nemmeno tra noi. Si presentava un libro d’arte curato da sua figlia Michela e ci ritrovammo in tanti suoi amici in Biblioteca Casanatense per rivederlo e per salutarlo.
Ci avevano detto che probabilmente sarebbe stata l’ultima sua apparizione pubblica, l’ultima volta che avremmo visto Fausto, e noi che lo sapevamo in lotta col male ormai da tanti anni, fingevamo di non crederci. Ma lasciammo cadere altri impegni, e con scuse improbabili, ci presentammo alla serata con quel sottinteso d’addio dissimulato dal piacere dell’evento. Fausto faceva gli onori di casa, con la affabile fierezza che lo distingueva, insieme a sua moglie e sua figlia, benché visibilmente provato. Sua moglie Rosetta mi fece sedere a fianco a lui, mentre ascoltava la sua figlia più piccola, a cui aveva dedicato un dolcissimo libro di padre maturo, L’Amore paterno, quando lei era bambina. Provai a condividere in quel momento i suoi pensieri di padre, la sua implicita cerimonia d’addio, il piacere di ascoltare sua figlia che illustrava con passione l’opera davanti a un bel pubblico. Alla fine lo salutai come si salutano gli amici a cui vuoi bene, evitando ogni solennità ma ben sapendo che difficilmente ci saremmo rivisti.
La notte scorsa Fausto ha smesso di combattere la sua antica battaglia contro la morte. Cominciò quella lotta assai presto, più di trent’anni fa, scrivendo un libro, Svelare la morte, dedicato alla perdita di suo figlio Giovanni in un incidente stradale. Un testo sincero e coinvolgente contro il tabù della morte, nel nostro tempo ribattezzata scomparsa e rimossa dagli spazi pubblici e comunitari. Fausto combattè per tanti anni con coraggio e perfino con sfottente e cristiana ironia, una lotta estenuante contro la sua malattia. E di recente un altro doloroso e intenso libro aveva accompagnato la tragica perdita di un’altra sua figlia, Federica. Ma non vacillò mai la sua fede, nonostante gli agguati impietosi della vita.
Uomo di destra, sanguigno e diretto, cattolico apostolico romano, non per modo di dire, «reazionario» come ebbe a definirsi in un libro recente, aveva curato per molti anni la gloriosa pagina culturale de Il Tempo diretto da Gianni Letta. Ha scritto saggi e romanzi, diresse per primo Intervento, la rivista fondata da Giovanni Volpe. Era stato da giovane un militante della destra rivoluzionaria e nostalgica, aveva patito il carcere per le sue idee contro il suo tempo, ma non cambiò mai idee. Polemista vivace, pubblicò anche un tagliente Stupidario della sinistra (1992). Gianfranceschi fu uno tra i primi miei riferimenti umani e culturali che conobbi sbarcando a Roma quand’ero ragazzo. Avevo recensito il suo Svelare la morte, un libro che andrebbe ripubblicato insieme all’Amore paterno, come un elogio sofferto e vero della famiglia. Nel saggio Il senso del corpo, Gianfranceschi concludeva con una limpida professione di fede nella resurrezione della carne. «L’umiliazione e la sofferenza fatali della mia carne prepareranno, io spero, la mia resurrezione». Così si è presentato ieri Fausto alla pietà del divino.

Marcello Veneziani su Il Giornale del 20 febbraio 2012

Si ribalta un ‘Lince’: morti tre militari italiani in Afghanistan.



Tre militari italiani sono morti in Afghanistan in seguito ad un incidente stradale ieri mattina avvenuto nei pressi della località Shindand. Un quarto militare è ricoverato in ospedale per ipotermia ma non è in pericolo di vita. La tragedia si è consumata nel corso di una missione di recupero di un’unità bloccata dalle condizioni meteo particolarmente avverse quando il ‘Lince’ sul quale erano a bordo i militari si è ribaltato mentre attraversava un corso d’acqua a circa 20 Km a sud-ovest di Shindand.
I militari deceduti – come informa lo Stato Maggiore della Difesa – sono il caporal maggiore capo Francesco Currò, nato il 27 febbraio 1979 a Messina, il primo caporal maggiore Francesco Paolo Messineo, nato il 23 maggio 1983 a Palermo, e il primo caporal maggiore Luca Valente, nato l’8 gennaio 1984 a Gagliano del Capo (Lecce). Sono le prime vittime italiane del 2012 in Afghanistan.
Gli uomini appartenevano al 66esimo Reggimento fanteria Trieste che ha sede a Forlì, inquadrato nella brigata aeromobile Friuli di Bologna e quasi interamente schierato nell’ovest dell’Afghanistan.
Numerosi i messaggi di cordoglio da parte delle Istituzioni e della politica. Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano ha diffuso una nota nella quale ha espresso “i suoi sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei famigliari dei caduti, rendendosi interprete del profondo cordoglio del Paese”. Il presidente del Consiglio Mario Monti, “appreso con dolore il grave incidente in Afghanistan nel quale hanno perso la vita tre militari italiani ed esprime il suo cordoglio alle famiglie, partecipando con commozione al loro lutto”.
Mentre  l'on. Giorgia Meloni commenta così la triste notizia:
"E’ mio desiderio esprimere profondo cordoglio alle famiglie dei militari deceduti in Afghanistan. E’ purtroppo un episodio che rinnova il dolore di una nazione intera, impegnata -proprio per onorare la memoria dei soldati morti e non vanificarne il sacrificio- a garantire la sicurezza globale e un futuro migliore a popolazioni oppresse. La conta dei caduti, sia in combattimento che in incidenti come quello di oggi, è un momento che rimane penoso e che non deve mai essere banalizzato. Seguo sempre con trepidazione gli eventi che si succedono laddove sono impegnate le nostre Forze Armate e anche in questa dolorosa occasione voglio rinnovare la mia gratitudine e la mia ammirazione per le migliaia di giovani italiani che stanno manifestando con uno spirito di sacrificio straordinario tutta la passione per il proprio lavoro e l’amore per l’Italia".


ONORE A VOI!


lunedì 20 febbraio 2012

Decolonizzare l’immaginario dall’utilitarismo.



“Nessun mondo – scrive Philippe Muray – è mai stato più detestabile di quello attuale”. Ma qual è dunque questo mondo? Dopo l’affondamento del sistema sovietico, si è passati da un mondo diviso in due blocchi ad un mondo dominato da una sola potenza, che tenta d’imporre la sua legge al pianeta intero. Virtualmente, questo mondo non sarebbe altro che un villaggio globale, dove il progresso economico, dal quale si suppone tutti possano trarre giovamento, accrescerebbe l’ineluttabile evoluzione verso un modello politico, la democrazia liberale rappresentativa, della quale gli Stati Uniti costituirebbero il modello più completo. Alla fine, il mondo diverrebbe un vasto mercato popolato da semplici consumatori, sottomessi di volta in volta all’ordine marciante.

Il capitalismo si è deterritorializzato. I raggruppamenti industriali infine hanno dato luogo alla formazione di società transnazionali, i cui bilanci superano di gran lunga quelli dei singoli paesi. Allo stesso tempo, le nazioni sono state invitate ad abolire le loro barriere doganali, ad aprire le loro frontiere alle persone ed ai capitali, a favorire con ogni mezzo la “libera circolazione” dei prodotti e dei beni. Questo è il senso primario di una globalizzazione che supporta la volatilità dei mercati, le delocalizzazioni, la ricerca permanente di una maggiore produttività, la reificazione generalizzata dei rapporti sociali.

Questo sistema è fondato sulla trasformazione di tutte le attività viventi in mercantili. Il mercato non vale se non attraverso il denaro. Il denaro è l’equivalente generale che cela la natura reale degli scambi ai quali è preposto. Nel mondo del mercato, la legge suprema è la logica del profitto, legittimato da un’antropologia facente dell’individuo un essere avente come obiettivo permanente il suo migliore interesse. La sottomissione progressiva di tutti gli aspetti della vita umana alle esigenze di questa logica destruttura il legame sociale. Essa genera una società puramente commerciale dove, come ha già affermato Pierre Leroux, gli “uomini non associati non sono soltanto estranei tra loro, ma necessariamente rivali e nemici”. Gli altri uomini dunque non sono percepiti se non attraverso il loro potere d’acquisto e la loro capacità di generare profitto, attraverso la loro attitudine a produrre a lavorare e consumare. I media uniformano i desideri e le pulsioni, al prezzo di una radicale desimbolizzazione degli immaginari, produttori di una falsa coscienza, di una coscienza alienata.

È esattamente questo il mondo in cui viviamo. Un mondo senza esteriori, che ha abolito le distanze e il tempo, dove il capitalismo finanziario non è connesso all’economia reale (la maggioranza degli scambi di capitale non corrispondono più agli scambi di prodotti), dove l’economia reale si sviluppa senza considerazione dei limiti, dove le passioni si riducono agli interessi, dove il valore è ribassato sul prezzo, dove i bambini stessi divengono dei beni (e degli utili) di consumo durevole, dove la politica è ridotta alla porzione congrua, dove i detentori di potere non sono più eletti e dove coloro che sono eletti sono impotenti. Un simile mondo non minaccia soltanto la vita interiore, le identità collettive, la diversità dei viventi. Esso minaccia l’umanità propria dell’uomo.

Per contrapporsi alla miseria affettiva ed agli stress materiali che ne risultano, la Forma-Capitale usa strategie differenti. Da un lato, crea senza interruzione nuovi bisogni, moltiplica le distrazioni e i divertimenti, propaga l’idea che non esista felicità se non in un consumo il cui orizzonte è continuamente riposto più lontano. Dall’altro lato, il suo pretesto di lottare contro il “populismo”, il ” comunitarismo “, il ” terrorismo “, rinforza le procedure di controllo e di sorveglianza. Si restringono le libertà con il pretesto della sicurezza. Si instaura la “democrazia delle bocche cucite” (Paul Thibaud). Per smorzare la portata dei movimenti sociali, per distogliere le genti dal porsi domande, per disarmare le nuove “classi pericolose” e rendere inoperante la loro velleità di rivolta, crea dei nemici onnipresenti, demonizzabili a piacimento, strumentalizza i conflitti culturali e gli urti tra comunità. Come sempre, si divide per comandare. L’obiettivo è quello di instaurare tutto ciò che crea caos per continuare a regnare senza alcuna minaccia.

Dinnanzi ad un simile spettacolo, non si può che avere ovviamente simpatia per un movimento “altromondista”, il quale afferma perentoriamente che “il mondo non è un mercato” e che “un altro mondo è possibile”. Ma questa simpatia non può essere che critica. Non è soltanto il fatto di non avere alternative chiare da proporre che può essere rimproverato al movimento “no global” – non è necessario dover definire ciò che si vuole per sapere ciò che si rifiuta -, né di essere un conglomerato troppo eterogeneo dove si incontrano protestatari emozionali, autentici libertari, “rivoluzionari” d’abitudine e social-democatici “esigenti”. E’ piuttosto l’attitudine ad anteporre l’indignazione alla riflessione. E di non andare fino al fondo delle cose.

Non è in effetti sufficiente denunciare le disuguaglianze nel nome della “giustizia” e della “dignità”, o di appellarsi a soluzioni “umane” di contro alla disumanità dell’ordine finanziario. Non è sufficiente parlare di “tolleranza” per riconoscere pienamente la diversità culturale. Non è sufficiente opporre la razionalità etica alla razionalità del denaro. Non è sufficiente, infine, dire “no alla guerra!” per disegnare, di contro all’unilateralismo americano, i contorni di un nuovo Nomos della terra per un nuovo ordine multipolare. Il movimeno “no global” non ha visibilmente idee precise sulla natura dell’uomo e sull’essenza del politico. Gli manca un’antropologia che gli permetterebbe di contestare la globalizzazione in nome dei popoli, e non delle “moltitudini” (Antonio Negri), in nome delle libertà, e non dei “diritti dell’uomo”. Si ostina a rimanere, per ciò che concerne la giustizia sociale, nella polarità della morale e dell’economia, che è la medesima alla quale dichiara di opporsi; l’ “altromondismo” rischia di disattendere la sua vocazione e di essere nient’altro che una forma di “movimento” in mezzo a tante altre.

Militare per un “altro mondo” implica la rottura con una matrice ideologica che ha allo stesso modo condotto all’internazionalismo liberale quanto allo “statalismo progressista”. Come scrive Jean-Claude Michéa, “l’idea di una società decente, o socialista, non può riporsi sul progetto di un’”altra” economia o di un’”altra” mondializzazione, progetti che non possono che condurre, in fin dei conti, ad un altro capitalismo [...] Essa è riposta, al contrario, su un diverso rapporto degli uomini nei confronti dell’economia stessa”. Dunque non si tratta soltanto di correggere le “ingiustizie” di un sistema, o rimanere ad un approccio strutturale dei giochi. Si tratta di finirla con la dittatura dell’economia, il feticismo del mercato ed il primato dei valori mercantili. Si tratta di decolonizzare l’immaginario. Di adoperarsi per l’avvento di un altro mondo, che non sia soltanto al di là delle cose, una visione trascendente o utopica, ma un nuovo mondo comune. Prospettiva rivoluzionaria? Non sarà mai tanto rivoluzionaria quanto la Forma-Capitale, che in questo mondo, ha già distrutto tutto.

di Alain de Benoist.