Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

lunedì 30 aprile 2012

30 Aprile, la notte di Valpurga o di Beltane,



di Alfredo Cattabiani.

Anticamente fra i Celti la notte fra il 30 aprile e il 1° maggio segnava il passaggio alla bella stagione: una notte di veglia, una specie di capodanno primaverile, durante la quale si susseguivano danze e banchetti in un’atmosfera orgiastica aspettando il nuovo giorno che segnava l’inizio del trionfo della luce sulle tenebre e quando si sarebbe celebrata la festa di BELTANE da cui sarebbe derivato il Calendimaggio medievale. Sulla notte, si diceva, vegliava la Grande Madre della fertilità che governava il destino dei viventi e dei morti. Con la cristianizzazione dell’Europa centrale la notte del 30 aprile subì una metamorfosi perché si raccontava che vi si dessero convegno spiriti inferi, streghe e stregoni che si dovevano espellere grazie all’intercessione di santa Valpurga: una monaca inglese (710-778), diventata badessa del monastero tedesco di Heidenheim presso Eichstatt, dove fu sepolta il 1° maggio 871 nella chiesa di Santa Croce, che ha ereditato le funzioni della Grande Madre e ha dato il nome alla notte, chiamata popolarmente «la notte di Valpurga».
La coincidenza calendariale l’ha trasformata dunque nella santa che protegge dalle streghe: dalle pietre dove le sue ossa furono sepolte, sgorgava il miracoloso «olio di santa Valpurga» che fra le tante virtù avrebbe avuto anche quella di proteggere dalle stregonerie. Il 1° maggio, cacciate le streghe, ovvero ricacciati i morti negli inferi, si portava e si porta ancora, dove la tradizione è sopravvissuta, un albero dal bosco collocandolo in mezzo al paese: è l’Albero di Maggio o semplicemente il Maggio.
«Nella Svezia, il 1° maggio – riferisce il Frazer – si soleva portare nei villaggi un gran pino che veniva adornato di nastri e drizzato in piedi; poi il popolo vi danzava allegramente intorno a suon di musica. L’albero verde restava nel villaggio sostituito da uno fresco il 1° maggio seguente…». Sull’albero sfrondato, cui rimaneva soltanto una corona di foglie, venivano posti salsicce, dolci, uova e altri cibi oltre a nastri variopinti. I giovani vi si arrampicavano per impossessarsene: una sopravvivenza di queste usanze si ritrova negli Alberi della Cuccagna delle nostre fiere. Quell’albero altro non era che il simbolo dell’Albero Cosmico, le cui fronde si trovano di là dal visibile, nel non manifestato, analogo alla scala di Giacobbe, asse del mondo grazie al quale si può giungere alla comunione divina.
Maggi erano anche i ramoscelli che i giovani offrivano alle ragazze come augurio di amore e fecondità; oppure erano portati in processione di porta in porta da gruppi di questuanti che chiedevano cibi o dolciumi in cambio. Quelle processioni avevano la funzione di ottenere grazie al «magico» maggio rinnovamento e prosperità. Come per la notte del 30 aprile la Chiesa cercò nel corso dei secoli se non di cristianizzare per lo meno di rendere più accettabili queste cerimonie: nacque così l’usanza, ancora viva in alcuni paesi fra cui l’Andalusia, di sostituire l’albero con la Croce di Maggio. Chi è d’altronde il Cristo se non l’Albero della Vita? 

(Tratto da “Il Tempo” del 1 maggio 2003)

[Dedicato a chi perì nella Berlino in fiamme, ultimo cuore d'Europa]

Ricordare la morte di Ramelli? Per la sinistra è una provocazione…



Sono passati quasi quarant’anni dalla tragica morte di Sergio Ramelli. Chi era costui? E cosa rappresenta ancora oggi per molti simpatizzanti della destra cittadina e nazionale? Come recita una piccola targa nei giardini a lui dedicati a Milano, Sergio era uno studente. Uno studente, iscritto al Fronte della Gioventù. Frequentava l’Istituto tecnico “Molinari”, uno dei più rossi del capoluogo. Sergio fu ucciso a colpi di hazet 36 (vi chiedo la fatica di andare a cercare cos’è questo oggetto), sotto casa, mentre stava legando il suo motorino di ritorno da scuola. Lo hanno atteso con pazienza dopo settimane di appostamenti un nutrito gruppo di aderenti ad Avanguardia operaia. S’era deciso, in quei momenti la condanna a morte e il destino di un ragazzo colpevole solo di non seguire l’onda lunga e colpevole della maggioranza conformista assiepata nelle redazioni “con l’eskimo”, nelle fabbriche, nelle università. Sergio non era un violento, non era un facinoroso, non era un attaccabrighe, non era un picchiatore fascista. Era un militante, serio, puntuale, idealista. È stato punito a causa di un tema “libero”. Un saggio nel quale ha voluto scrivere senza reticenze il proprio disgusto verso l’opera estremistica e violenta delle Brigate Rosse. Un’opera che, se da un lato insanguinava il Paese, dall’altro era guardata, invece, con beffarda simpatia (se non ammirazione) da molti autorevoli esponenti della sinistra di allora (vero Sofri?). Basterebbe, infatti, acquistare il film “Milano Burning” presentato, ieri, 29 aprile a Milano presso la sala Corridoni, e ascoltare le farneticanti dichiarazioni dell’ex leader di Lotta Continua per farsi gelare il sangue ed essere proiettati in una folle spirale di morte. Perché, molti di voi ricorderanno, lo slogan più in voga e gettonato in quegli anni: “Uccidere un fascista non è reato”. La storia di Sergio è drammatica anche nella sua evoluzione tragica. Dopo 47 giorni di ricovero ospedaliero capaci di alternare momenti di speranza a momenti di sconforto, il giovane missino viene vinto da una broncopolmonite il 29 aprile 1975. Sembra davvero incredibile, dopo tanti anni, osservare la “Milano democratica rappresentata dalla Cgil” proporsi, invece, di sforzarsi e rileggere obiettivamente quegli anni, come giudice supremo della dicotomica e insulsa contrapposizione delle idee che tanto fece la fortuna dei sostenitori degli opposti estremismi. Ieri pomeriggio, una parte consistente di Milano, non ha potuto piangere in pace un ragazzo  ammazzato selvaggiamente a colpi di chiave inglese in testa perché, tale Rosati della Cgil, considera questo documentario una provocazione. Fate pure il vostro presidio, uomini di rosso vestiti. Capisco perfettamente i motivi che vi spingono a una cosa tanto sciocca. Quella morte, d’altra parte, pesa ancora come un macigno sulle coscienze di coloro che l’hanno voluta. Ma pesa, altresì, come un macigno sulle responsabilità morali dei leader della sinistra che non ne hanno saputo, o voluto, cogliere la portata. Per questo motivo vi segnalo il sito web http://www.milano-burning.com/index.html che vi aiuterà a capire, ad approfondire, ad analizzare, l’omicidio feroce di un ragazzo di destra e lo strazio che ne è seguito per la sua famiglia e per tutta una generazione che non smetterà di combattere per le proprie convinzioni (il costo del dvd è di 12 euro + 2 di spedizione n.d.r.).e

Basterebbe, forse, rifarsi a quanto scritto da Pier Paolo Pasolini (sig. Rosati era fascista anche lui?), per togliere quella patina di livore peloso che alberga ancora nel cuore di molti: «…abbiamo cioè frettolosamente e spietatamente voluto credere che essi fossero predestinati razzisticamente ad essere fascisti…Nessuno di noi ha mai parlato con loro o a loro. Li abbiamo subito accettati come rappresentanti inevitabili del male».

domenica 29 aprile 2012

In Ricordo di Sergio Ramelli.



“Forse è destino che gli Uomini di Coraggio 
vengano uccisi dai vili”

Sergio Ramelli
Tutto ebbe inizio per un banale compito in classe. Sergio Ramelli, diciottenne, studente dell’Istituto Tecnico “Molinari” di Milano, militante e fiduciario del Fronte della Gioventù, svolse un normalissimo compito di italiano assegnato dal suo professore. La nascita della “Brigate Rosse”. Nel compito, Sergio Ramelli, sottolineava che il battesimo di sangue delle Brigate Rosse avvenne proprio nel giugno 1974 con l’attentato alla sede del Movimento Sociale Italiano a Padova e l’uccisione di due militanti, Gianluca Giralucci e Giuseppe Mazzola. Erano gli anni settanta, in cui vigeva la barbara legge dell’antifascismo militante. Al Molinari, il collettivo studentesco, formato soprattutto da militanti di Avanguardia Operaia, riuscì a sequestrare il compito e immediatamente esposto in bacheca. Fotografato, condannato dai suoi stessi compagni di classe e bollato con il marchio “Fascista” fu l’inizio di una vera e propria persecuzione. Due aggressioni nel giro di poco tempo indussero Sergio Ramelli a proseguire gli studi in un istituto privato ma non ad abbandonare la sua militanza al Fronte della Gioventù. Fu proprio per la sua coerenza e per il suo coraggio che Avanguardia Operaia decise di eseguire un’azione punitiva nei suoi confronti. Il 13 marzo 1975, verso le ore tredici, Sergio Ramelli, mentre parcheggiava il motorino sotto casa, in via Amadeo, fu assalito da un commando di dieci persone armate di chiave inglese, hazet 36, e colpito ripetutamente al capo, perse i sensi e cadde esamine al suolo. Trasportato d’urgenza in ospedale e ricoverato presso il reparto Beretta del policlinico Maggiore, fu sottoposto ad un intervento chirurgico della durata di cinque ore con l’obiettivo di ridurre i danni subiti alla calotta cranica. Tale violenza e accanimento, lasciarono i sanitari dubbiosi sul recupero delle piene funzionalità fisiche, segnatamente l’uso della parola. Il decorso post - operatorio fu caratterizzato da periodi di coma e periodi di lucidità. Alle ore dieci del 29 aprile, esattamente dopo quarantasette giorni di agonia, per sopravvenute complicanze respiratorie, il cuore di cessò di battere. Durante il Consiglio Comunale, la notizia fu accolta da un lungo applauso, una esultanza per salutare la morte di un Fascista. I funerali furono quasi vietati. Nessun uomo delle istituzioni, tranne il segretario del Movimento Sociale Italiano, Giorgio Almirante, a presenziare il rito funebre. Solo una corona di fiori da parte della Presidenza della Repubblica. Gli amici di Sergio Ramelli furono costretti ad arrivare alla spicciolata, tutti schedati e fotografati dai militanti di Avanguardia Operaia. Durante la cerimonia funebre numerose cariche da parte delle Forze dell’Ordine con l’arresto di alcuni giovani e consiglieri missini. Le indagini, come al solito, da parte della Magistratura milanese non portarono a nessun risultato. Nel corso degli anni, nessuno degli aggressori di Sergio Ramelli provò senso di orrore, di smarrimento, di pentimento. Anzi continuarono azioni criminali contro giovani missini e ad un anno dalla sua scomparsa assaltarono il bar Largo Porto di Classe dove ferirono decine di persone una delle quali rimase paralizzata. Solo dieci anni dopo, quasi per caso, durante il processo a “Prima Linea”, tre pentiti bergamaschi accusarono il servizio d’ordine di Avanguardia Operaia presso la Facoltà di Medicina dell’omicidio di Sergio Ramelli. Il 14 settembre del 1985 i primi arresti. Alle sbarre finirono: Brunella Colombelli con il compito di pedinare Sergio Ramelli, Roberto Grassi con il compito di fornire, distribuire e ripulire le chiavi inglesi, Marco Costa e Giuseppe Ferrari Bravo con il compito di colpire materialmente Sergio Ramelli e infine Franco Castelli, Luigi Montinari, Claudio Scazza, Gianmaria Costantino, Claudio Colosio, Antonio Belpiede con il compito di presidiare le strade durante l’aggressione per evitare la fuga di Sergio Ramelli o l’intervento di militanti missini o passanti. Nel maggio del 1987 con la sentenza di primo grado tutti gli imputati furono dichiarati colpevoli di omicidio preterintenzionale con pene che andavano da undici a quindici anni di reclusione. Nel marzo del 1989 con la sentenza di secondo grado, invece, gli imputati furono dichiarati colpevoli di omicidio volontario con l'attenuante del concorso anomalo, che ridusse sensibilmente le pene. Non soddisfatta, la Parte Civile ricorse in Cassazione per ottenere il riconoscimento della premeditazione e quindi un aggravio delle pene. Ma nel gennaio del 1990 la Prima sezione della Corte di Cassazione respinse la richiesta confermando definitivamente la sentenza di secondo grado. Durante il processo, alcuni degli imputati, si pentirono scrivendo alcune lettere alla madre di Sergio Ramelli e depositarono presso un notaio un risarcimento di duecento milioni di lire. Ovviamente il risarcimento non fu mai riscosso dalla famiglia Ramelli. Oggi molti esecutori di quella aggressione rivestono ruoli importanti nella nostra società, uno per tutti Antonio Belpiede, diventato primario di ginecologia in una azienda sanitaria pubblica pugliese. Ci chiediamo: come è possibile che studenti prossimi alla laurea non sapevano che colpire alla testa poteva determinare la morte? L’odio comunista si impossessò anche di loro.


Come molti giovani del tempo,
Sergio Ramelli fu costretto
a pagare con la propria vita
l’odio politico fomentato da altri.
Noi non dimenticheremo il sacrificio di Sergio,
la sua sincera passione politica, la fierezza
e il coraggio con cui mostrava le sue idee.

SERGIO RAMELLI
PRESENTE!


sabato 28 aprile 2012

La verità sulla morte del Duce: Mussolini si avvelenò col cianuro.




Parlano due importanti testimoni: Benito, ormai in coma, fu poi finito dal carceriere Giuseppe Frangi


A 67 anni dalla morte di Benito Mussolini e di Claretta Petacci, ci sembra che di questa storia si sappia tutto e nulla allo stesso tempo. Tutto, perché quanto accadde a Giulino di Mezzegra, sul lago di Como, il 28 aprile 1945, è stato sviscerato in mille modi, con decine di ipotesi diverse sugli accadimenti: ogni segmento di quella storica giornata  è stato smontato, analizzato e rimontato, ogni protagonista è passato al vaglio di documentate rievocazioni. Al tempo stesso, non se ne sa nulla, in quanto ci si è accorti che, man mano che i materiali di studio si accumulavano, la verità su quella vicenda appariva destinata a divenire, una volta di più, sfuggente.

Testimonianze - Le testimonianze lacunose e contraddittorie dei protagonisti, le falsificazioni operate dal Partito comunista, che ha coperto i responsabili della morte del Duce deviando l’attenzione dell’opinione pubblica dai veri giustizieri, e perfino le evidenze deludenti dei riscontri autoptici eseguiti sul cadavere di Mussolini, stanno a dimostrare che la verità è ben lungi dall’essere acquisita. La versione ufficiale narra che Mussolini e la Petacci furono abbattuti dai mitra del commando partigiano, venuto da Milano, alle 16,10 del 28 aprile, davanti al cancello di Villa Belmonte. I partecipanti all’esecuzione sarebbero stati tre: il colonnello “Valerio”, alias Walter Audisio, Aldo Lampredi “Guido”, e Michele Moretti. Come si sa, i protagonisti, non soltanto si sono contraddetti tra di loro, ma anche presi singolarmente hanno tramandato diverse versioni dei fatti. È il caso di Audisio, che ha dettato tre o quattro successivi racconti, che evidenziano parecchie incongruenze.

Opera collettiva - Il risultato di tutto ciò è che, con macroscopica evidenza, il Partito comunista, dal cui seno è nata la missione esecutiva di Dongo, ha volutamente confuso le carte, in modo tale da impedire il riconoscimento pieno della verità. In altre parole, il Pci, favorito dall’intelligence britannica nella conduzione dell’operazione speciale mirante a sopprimere il Duce, ha voluto descrivere quell’epilogo cruento, più come opera collettiva di un suo gruppo scelto che non come il risultato di singoli apporti individuali. Chi scrive, pur legato a un vincolo di riservatezza nei confronti di una propria fonte, può qui anticipare di aver potuto stabilire in modo certo che il generale Raffaele Cadorna, comandante supremo del Cvl (Corpo volontari della libertà), l’organo di direzione militare della Resistenza, fu a pieno titolo determinante nell’adottare la deliberazione - fortissimamente voluta dal Pci - di passare per le armi sommariamente Mussolini. Ciò, naturalmente, appare in contraddizione con le stesse dichiarazioni rese da Cadorna nelle sue memorie, in cui afferma di essersi limitato ad aderire alla decisione presa dai comunisti di uccidere il Duce, avallandola. Negli ultimi anni, ha preso consistenza una nuova teoria, quella del suicidio che il capo del fascismo si sarebbe procurato attraverso una capsula di cianuro di potassio occultata in una protesi mobile. Può essere stato quell’evento imponderabile, cioè lo stato comatoso autoindottosi dal Duce, durante le prime ore della mattina del 28 aprile, mentre si trovava nel casolare dei contadini De Maria, ad aver fatto volgere la situazione verso l’epilogo cruento? In altre parole: è possibile che su Mussolini, ancora vivo, in preda a convulsioni, avesse esploso alcuni colpi di grazia uno dei due carcerieri che montavano di guardia a casa De Maria? Facciamo un passo indietro. Alle prime ore del 28 aprile 1945, Mussolini viene scortato da Dongo, verso un nuovo nascondiglio. Luogo scelto per il prigioniero, al quale si è unita Claretta Petacci, è un rustico situato in località Bonzanigo di Mezzegra. I proprietari dell’abitazione colonica, i coniugi Giacomo e Lia De Maria, fanno accomodare i due ospiti in una stanza al secondo piano, con finestra.

Sdraiato a letto - Mussolini si corica sul lato destro del letto matrimoniale, mentre Claretta occupa il lato opposto. Si tratta di un particolare non secondario, in quanto alcuni dei colpi ricogniti sul cadavere del Duce - in particolare, uno al fianco, in posizione difficilmente spiegabile nell’ipotesi di un’esecuzione avvenuta con Mussolini in stazione eretta, con gli esecutori posizionati frontalmente - lo attinsero sul lato destro, con traiettoria dall’alto il basso e da sinistra a destra: come se l’esecutore gli si fosse avvicinato mentre si trovava ancora sdraiato a letto.

La pratica del suicidio, con fiala o capsula letale, fu molto adottata dai capi dei regimi amici. Oltre a Hitler, che si sparò mentre masticava una capsula di cianuro, si uccisero con il veleno Goebbels (con la moglie Magda e i sui figli), Goering e Himmler. Anche Pierre Laval, capo del governo collaborazionista di Vichy, tentò di uccidersi con una fiala venefica, ma gli furono praticate diciassette lavande gastriche allo scopo di condurlo ancora vivo davanti al plotone di esecuzione. Quanto al Duce, sappiamo che tentò il suicidio, nell’estate del 1943, durante la prigionia a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Se anche Mussolini a Mezzegra fece ricorso al veleno, sicuramente il suo carnefice fu il partigiano Giuseppe Frangi, “Lino”, che con Guglielmo Cantoni, “Sandrino”, era di guardia davanti alla stanza da letto dei due prigionieri. “Lino”, nei giorni successivi al 28 aprile, rivendicò con sicumera il suo ruolo di giustiziere e fu a sua volta assassinato il 5 maggio da elementi partigiani comunisti. Frangi potrebbe avere esploso colpi di grazia sul rantolante dittatore. Due testimonianze, sulle quali merita soffermarsi, convergono nell’indicare la concreta attendibilità della pista del suicidio. La prima è di Giuseppe Turconi, 90 anni, che apprese dalla viva voce di Lia De Maria la verità sulla morte del Duce.

Confidenze segrete - Turconi vive tuttora a Villaguardia, il paese del partigiano Frangi, e custodisce da quasi settant’anni le confidenze ricevute: «Una decina di giorni dopo i fatti, mi recai a Mezzegra insieme a mio fratello e a un mio cugino. Era da poco morto anche il “Lino” e la versione dell’accaduto, che alludeva a un incidente, mi lasciò parecchio perplesso. Andammo a casa De Maria a parlare con la signora Lia che ci disse che, quel 28 aprile, aveva preparato qualcosa da mangiare per Mussolini e la Petacci e che il Duce le aveva chiesto di assaggiare la pietanza perché temeva di essere avvelenato. Poi, qualche ora più tardi, quando capì che per lui non c’era più nulla da fare, Mussolini ingerì del veleno inserito nella capsula di un dente. La De Maria disse che era successo tutto nella camera da letto in cui avevano pernottato. Seppi anche che la Petacci era stata uccisa in un secondo tempo, qualche ora dopo, in un prato sottostante la chiesa di Mezzegra, in frazione Bonzanigo».  Turconi riferisce dunque che l’esecuzione di Claretta sarebbe avvenuta successivamente a quella di Mussolini e non sembra prestare attenzione a un dettaglio del suo racconto, che introduce un’apparente contraddizione. Perché, se Mussolini aveva intenzione di togliersi la vita, temeva di essere avvelenato dal cibo? O forse giunse alla determinazione di uccidersi solo in un momento successivo? La seconda testimonianza è ancora più significativa, perché proviene da Elena Curti, figlia naturale di Mussolini che fu accanto al padre durante le ore dell’epilogo di Dongo. La donna, oggi novantenne, ricevette in proposito delle notizie dal brigadiere della caserma dei carabinieri di Dongo, dove fu tenuta prigioniera dopo il 28 aprile. Si tratta di Ettore Manzi, classe 1908, protagonista defilato di tante vicende drammatiche che presero corpo a Dongo dopo l’esecuzione dei gerarchi. Fui lui, infatti, a salvare la vita a decine di prigionieri fascisti detenuti nella caserma dell’Arma (tra cui la stessa Curti), ponendo fine alla mattanza condotta dai partigiani rossi sulla scia dell’euforia della vittoria sul fascismo.

La versione di Manzi - Racconta Elena Curti: «La versione del suicidio di Mussolini me la riferì Ettore Manzi, verso la fine degli anni Cinquanta. Io allora abitavo già a Barcellona, ma quasi ogni anno tornavo in Italia e Manzi era una delle persone che andavo a trovare. Mi disse che lui, in quanto comandante della stazione dei carabinieri di Dongo, era responsabile di tutti i prigionieri. Quindi anche di Mussolini. A me confidò che era stato presente. Era andato a casa De Maria, verso le 7, o 7 e mezza, del mattino del 28 aprile e che, quando entrò nella stanza di Mussolini, lo trovò già praticamente morto. Si era suicidato con una capsula di veleno. Io, lì per lì, non diedi peso a quanto mi disse. Stavo cercando di dimenticare quanto era accaduto, mi stavo costruendo una nuova vita, in Spagna, dove nessuno mi conosceva e non ero guardata con quell’attenzione morbosa con la quale ero avvicinata qui in Italia, dove tutti volevano sapere perché e per come fossi la figlia di Mussolini». Manzi è morto il 1° febbraio 2001. Da me interpellato, suo figlio Giancarlo non ha voluto confermare la notizia fornita da Elena Curti: «So che mio padre aveva una sua teoria sulla morte di Mussolini, ma non mi disse nulla in proposito». Il mistero continua.

di Roberto Festorazzi.

Fonte: Libero.it

venerdì 27 aprile 2012

Latina perde Ajmone Finestra, figura storica della destra italiana.



È morto nella notte, all’età di 91 anni, Ajmone Finestra, figura storica della destra italiana, ex sindaco di Latina per due mandati dal 1993 al 2002 ed ex senatore della Repubblica. Finestra era stato, in gioventù, militante della Repubblica di Salò. Il suo impegno politico si è intrecciato con la storia del Msi di Giorgio Almirante, al quale l’ex senatore rimase ancorato senza mai accettare la svolta finiana. Il sindaco di Latina ha annunciato per domani la proclamazione del lutto cittadino e l’allestimento di una camera ardente pubblica.

L’aula del Senato ha tributato un applauso in omaggio a Finestra, già componente di palazzo Madama nell’ottava e nona legislatura. Il presidente dei senatori del Pdl, Maurizio Gasparri, ha ricordato la figura dell’ex sindaco di Latina, ricordando, fra l’altro, che “inauguro il meccanismo dell’elezione diretta del primo cittadino, quando il suo partito era ancora l’Msi”. “È stato un combattente – ha aggiunto Gasparri – un protagonista della destra italiana”. E in tempi di antipolitica e di processi sommari alle classi dirigenti, la figura di Finestra “è un riferimento di moralità e onestà”.

Nell’esprimere le proprie condoglianze ai familiari, la moglie e i due figli, per la morte di Finestra, il coordinatore nazionale del Pdl, Ignazio La Russa ha sottolineato che “con lui se ne va un riferimento di passione e di coerenza per tutte le generazioni della Destra italiana. Un uomo che ha sempre dedicato il suo impegno politico al servizio delle istituzioni avendo come unico obiettivo l’interesse dei cittadini”.

Il cordoglio per la scomparsa di Finestra è unanime. La presidente della Regione Lazio, Renata Polverini ha espresso “vicinanza alla comunità di Latina a cui Finestra ha dedicato tutto il proprio impegno non solo negli anni che lo hanno visto sindaco del capoluogo pontino”, mentre Giorgia Meloni osserva: “Con Ajmone Finestra se ne va una storia italiana di coerenza e onestà, di passione politica e civile. Giovane e dinamico fino all’ultimo giorno della sua lunga vita. Mancherà molto a me, ma credo anche a coloro che erano distanti dalle sue idee. Accade quando scompare un uomo per bene”.

“La scomparsa del senatore Ajmone Finestra mi ha commosso profondamente, privando la città di uno dei più importanti protagonisti e testimoni della storia e dello sviluppo di Latina. La sua passione, l’attaccamento, l’amore per la terra in cui era cresciuto hanno segnato ogni momento della vita pubblica e privata, politica e professionale di un uomo cui i nostri cittadini, ieri come oggi devono molto”. Questo il ricordo del sindaco di Latina, Giovanni Di Giorgi. “Un segno di riconoscenza, oltre che di affetto, per un uomo il cui impegno al servizio delle istituzioni ha sempre avuto come unico obiettivo l’interesse comune, il bene della città e dei sui cittadini – ha aggiunto – La sua attività pubblica, sempre connotata da rigore morale e profonda onestà, ne ha fatto apprezzare la vocazione di uomo delle istituzioni che egli servì da sindaco di Latina, da parlamentare della Repubblica, da consigliere regionale, provinciale e comunale portando sempre un’impronta innovativa e uno spirito autenticamente riformista con quell’anima di combattente che sempre lo ha contraddistinto dagli anni della Repubblica sociale fino alle battaglie condotte da primo cittadino”.

giovedì 26 aprile 2012

Milano, Sergio Ramelli fa ancora paura?



di Giorgio Sigona

Sono passati quasi 40 anni, ma il ricordo di Sergio Ramelli è ancora tabù a Milano. Non si spiega altrimenti l’annuncio del segretario cittadino della Camera del Lavoro, Onorio Rosati, che ha contestato la decisione del presidente della Provincia Guido Podestà di concedere una sala, in via Corridoni, per la proiezione di una docu-fiction su Sergio Ramelli, il giovane missino ucciso a sprangate da estremisti di sinistra nel 1975. L’iniziativa cade proprio nell’anniversario della morte, il pomeriggio di domenica 29 aprile. Rosati definisce l’iniziativa una “provocazione” e ha quindi annunciato, in perfetto stile anni Settanta, il solito presidio antifascista. Secondo lui la proiezione dovrebbe essere fatta altrove, e non a pochi metri dalla Camera del Lavoro, che si sente offesa dal ricordo della morte di un ragazzino inerme, pestato a morte sotto la sua abitazione. Ramelli non era un facinoroso né un picchiatore. Non era un violento. La sua sola colpa era l’adesione al Fronte della gioventù. Cosa c’è di provocatorio nel ricordarlo con un documentario? E il sindaco Pisapia, che parla di rinnovamento etico, non dovrebbe proprio su queste basi richiamare all’ordine le sue truppe più sgangherate e anacronistiche?


IO NON PISCIO SUL MIO ONORE!


Ecco quale fu il vero coraggio! 
Altro che resistenza e partigiani! 

Liberazione?



«Ogni anno, quando Aprile volge alla fine e il vento di primavera impolvera le strade, la rumorosa celebrazione del 25 Aprile ci strappa dagli abituali pensieri per richiamare alla nostra coscienza la tragica fine della guerra. Il crollo politico e spirituale dell’Italia e dell’Europa. In verità nessuna occasione è più propizia per consentirci di valutare adeguatamente l’entità morale della catastrofe: le bandiere alle finestre per celebrare una sconfitta militare, il giubilo concorde del partito russo e di quello americano che, alla distanza di tanti anni, continuano a rappresentare gli interessi dei loro padroni contro l’interesse nazionale europeo, l’apologia e la celebrazione del 25 Aprile ci strappano dagli abituali pensieri e ci portano a quelli del massacro e dell’odio civile.
Ma, al di là dell’agiografia commemorativa, rimane la drammatica importanza dell’anniversario. Poiché la guerra la cui fine si celebra non fu solo guerra civile e mondiale ma la tragedia storica che ha portato alla detronizzazione dell’Europa e ha trasferito le insegne del comando del territorio del nostro continente alla Russia e all’America. Con questa tragedia il tramonto dell’Occidente, profetizzato da Spengler nel 1917, diviene una schiacciante, evidente realtà».

(ADRIANO ROMUALDI, “Le ultime ore dell’Europa“).

25 APRILE: DANTE INSEGNA A SUPERARE L'ODIO ANTIFASCISTA.



«Fieramente furo avversia me e a miei primi e a mia parte,sì che per due fïate li dispersi».«S'ei fur cacciati, ei tornar d'ogne parte»,rispuos'io lui, «l'una e l'altra fïata;ma i vostri non appreser ben quell'arte»

Sono i versi del famoso dialogo della Divina Commedia tra il guelfo Dante e Farinata degli Uberti, il più illustre capo politico e militare dei ghibellini fiorentini. È un botta e risposta tra due uomini di fazioni opposte, protagoniste della guerra civile a Firenze ed in tutto il centro Italia. Un dialogo che, come vedremo, supera la contrapposizione nell’ottica del comune amore verso la patria.

A dire il vero in questo periodo non è consigliabile citare il Sommo Poeta per via degli strali lanciati da una sedicente organizzazione culturale, tale “Gherush92”, che recentemente ha bollato la Divina Commedia come condensato di razzismo, omofobia e islamofobia. Il fatto che questa organizzazione sia accreditata all’ONU mi induce a dubitare sullo reale spessore culturale di soggetti incapaci di comprendere il significato profondo e complesso della Commedia di Dante.

Ho voluto provocatoriamente evocare il X Canto nella ricorrenza del 25 aprile per ragionare sulle intrinseche contraddizioni di questa data. Di recente il Sindaco rosso-arancio di Milano Pisapia ha chiesto a gran voce la chiusura dei negozi il 25 aprile per consentire ai cittadini di partecipare alle celebrazioni pubbliche. È curiosa questa richiesta in un Paese, peraltro fortemente cattolico, dove persino nelle festività religiose i negozi non chiudono. La verità, che sfugge a Pisapia, è che gli italiani disertano le celebrazioni del 25 aprile perché considerano questa ricorrenza non unitaria ma di parte. Non per qualunquismo o per chissà quali rigurgiti neofascisti, ma per la consapevolezza che il 25 aprile è il simbolo, oltre che di una guerra persa, di profonde lacerazioni provocate dalla guerra civile del ‘43-‘45, piuttosto che un giorno di autentica festa.

La retorica resistenziale presenta il 25 aprile 1945 come “festa della liberazione” tra sfilate gioiose e bandiere rosse al vento. Una ricostruzione artificiosa poco aderente alla realtà storica. Viene omesso quanto ricordano bene gli italiani che vissero quei giorni e quanti hanno letto le cronache di Pisanò e Pansa. Gli italiani conoscono le vendette, le stragi, le famiglie divise dalle scelte differenti dei propri giovani. Vicende che riguardarono sia partigiani che combattenti della Repubblica Sociale Italiana. In una guerra civile è impossibile marcare chiaramente il confine tra bene e male assoluto, ammesso che esista su questa Terra. L’elemento che contraddistingue ogni guerra civile è l’impressionante odio che si scatena tra le fazioni in lotta. Figli della stessa patria pronti ad eliminarsi a vicenda. Alla fine restano solo le macerie. È quanto insegna la Storia.

Fu così anche tra i guelfi ed i ghibellini nel Medioevo. Tuttavia Dante dà una grande lezione di vita. Pur collocando Farinata degli Uberti nell’inferno, a causa della sua adesione alla dottrina epicurea, Dante stima profondamente il capo ghibellino. Lo considera un uomo magnanimo, coraggioso e coerente. Il guelfo Dante mette da parte l’odio di parte per dare spazio alla comune appartenenza che lo lega a Farinata. Entrambi amano Firenze, un amore che supera la propria fazione. Fu così per Farinata che dopo la battaglia di Montaperti, vinta dalle truppe ghibelline guidate da Siena, si oppose fermamente alla distruzione di Firenze. A prevalere fu l’amor patrio sull’odio verso i guelfi. Fu così anche per Dante che, seppur coinvolto insieme alla sua famiglia nella lotta contro i ghibellini, riconobbe la statura morale dell’avversario politico Farinata. Grazie al Poeta la memoria di Farinata degli Uberti fu riscoperta, tanto da essere raffigurato tra i fiorentini illustri negli splendidi affreschi e nelle statue di Andrea del Castagno conservate agli Uffizi. Una figura, quella di Farinata, rievocata dalla scrittrice Carla Maria Russo nel celebre romanzo storico “Il cavaliere del giglio”.   

Dante insegna che è possibile superare l’odio generato da qualsiasi guerra civile. Politici come Pisapia, i reduci dell’Anpi ed i finti partigiani dei centri sociali dovrebbero rileggere con attenzione Dante e imparare qualcosa. Da una parte e dall’altra bisogna sforzarsi di comprendere, senza giudicare, le ragioni che spinsero tanti giovani a morire con il fazzoletto rosso o con la divisa della Decima Mas. Solo così la nostra nazione sarà finalmente pacificata.

Mauro La Mantia

mercoledì 25 aprile 2012

Ricordare il vero e reale significato del 25 Aprile.


Ormai, da anni, si cerca di additare questa festa come un evento che accomuna e unisce tutti gli Italiani. Ma la storia, se riletta attentamente, ci insegna tutt’altro. Il 25 aprile del 1945 rappresentò l’inizio di un periodo caratterizzato da fatti a dir poco vergognosi. Migliaia e migliaia di persone, tra militari e civili, che aderirono alla Repubblica Sociale Italiana furono torturate, massacrate, seviziate e fucilate, dopo processi sommari, attribuite a forze partigiane e militanti di formazioni di matrice comunista, a guerra ufficialmente conclusa. Violenze perpetrate su tutto il territorio nazionale, dal cosiddetto “Triangolo della morte” in Emilia Romagna alle città confinanti con la Jugoslavia e la successiva tragedia delle foibe, con oltre quindicimila vittime. Oggi, siamo l’unico paese al mondo che festeggia una guerra perduta, che festeggia l’uccisione dei nostri fratelli italiani, che festeggia tutti i massacri eseguiti dai partigiani. Per questo, ribadendo con fermezza, che noi non festeggiamo una sconfitta ma amiamo la nostra Patria, vogliamo la Pacificazione Nazionale, basata sulla giustizia e sulla verità storica. Pur rispettando, i caduti della guerra civile, ricordiamo soprattutto i Combattenti e le Ausiliarie della Repubblica Sociale Italiana, esempio di onore, coraggio e fedeltà.

La nostra Comunità umana e politica vuole ricordare questi Eroi… 
Non è nostro intento quello di lasciarci andare a vuoti pneumatici di nostalgismo, ma crediamo doveroso che questa data sia da interpretarsi come un momento di riflessione che non si limiti soltanto ad una pomposa pratica di rievocazione istituzionale, ma che vada ad analizzare e a storicizzare tutti quei tragici avvenimenti che, anche e soprattutto a guerra finita, hanno insanguinato il nostro paese. Per decenni sono stati taciuti e solo di recente, non senza comportare scomuniche per quei pochi storici che hanno avuto il coraggio di riconoscerli, si sono fatti spazio nella memoria condivisa del nostro popolo.

Ricordiamo dei ragazzi come noi, che scelsero di tener fede alla parola data e combatterono fino all’ultimo momento per riscattare quell’onore che ritenevano di aver perduto con l’8 di settembre. Combatterono indossando una divisa e servendo una bandiera, volontariamente e con abnegazione.

ONORE AI CADUTI DELLA 
REPUBBLICA SOCIALE ITALIANA


martedì 24 aprile 2012

Marine Le Pen è la vera Vincitrice. La sua Destra parla ai giovani.



Il vero fenomeno del primo turno presidenziale in Francia ha un volto di donna ed è Marine Le Pen. Diffondendo i dati degli exit poll da terra straniera, l'hasthag radiolondres l'ha soprannominata “Norimberga”. Neppure troppa fantasia, il refrain del “pericolo bruno” che avanzava. Eppure la leonessa del Front National è riuscita a ottenere un risultato storico, «ben oltre quello di suo padre» Jean-Marie che nel 2002 arrivò fino al secondo turno contro Jacques Chirac. Se c'è una notizia, eccola qui. In attesa di analisi del voto che ci dicano, per esempio, quali sono state le zone in cui Marine ha fatto il pieno e se si è confermata la simpatia degli under 25 verso di lei, i dati grezzi di questa prima puntata della corsa all'Eliseo confermano che la politica francese continuerà a fare i conti con la forza elettorale del Front National e nei prossimi anni, grazie al suo nuovo leader. Surprise titolano i siti Internet e oggi titoleranno molti giornali, ma francamente di sorpresa, per chi ha osservato e studiato Marine, ce n'è davvero poca. Semmai la solita conferma che i sondaggi condotti durante la campagna elettorale sottostimano la forza dei candidati del FN.

L'altra conferma, poi, è che il travaso del carisma dal padre fondatore alla figlia è riuscito, un caso forse unico nella storia politica europea, data la forte matrice personalistica che Jean-Marie Le Pen aveva impresso al suo partito. Marine è davvero il prodotto della politica postmoderna e televisiva, e lo è in senso positivo: spigliata, comunicativa, seducente, allenata a percepire tendenze e umori della società francese e a trasformarle in battaglie politiche, dotata di una capacità di popolarizzare i concetti talmente nitida che le è costata l'accusa di “banalizzare” questioni politiche complesse. La sua biografia di avvocato quarantaquattrenne e madre di tre figli, divorziata e risposata, poi, ne fa un prototipo di donna molto distante dagli stereotipi conservatori della “custode del focolare”. Per questo, nel suo anno di leadership del Front National, ha focalizzato la promozione della sua immagine rivolgendosi a quelle categorie – in primis le stesse donne – dove la destra-destra non aveva mai goduto di larghi consensi, a maggior ragione in Francia, dove temi come le donne single e madri o la crescente laicizzazione della società sono molto più discussi che in Italia. Ma doveva fare politica, prima, immergersi nel campo di battaglia della caccia al volto, dimostrare a militanti ed elettori di essere qualcosa di più della figlia del capo, scrollarsi di dosso l'ipoteca della predestinata. C'è riuscita, ben prima di affacciarsi al balcone mediatico delle presidenziali, imponendosi, all'esterno, in importanti contese elettorali e, all'interno, avendo la meglio nelle dinamiche correntizie di un partito come il Front National, difficile da frequentare per un donna, figuriamoci per un'avvocatessa in tailleur.

Nel 2010 si è candidata in una regione difficile politicamente e depressa economicamente come il Pas de Calais (per intenderci, quello raccontato nel film Giù al Nord), ottenendo una percentuale quasi identica a quella dei sarkozisti. È andata avanti, e ha trionfato lo scorso anno al congresso del FN contro Bruno Gollnisch, esponente della «vecchia guardia» del partito e maggiormente gradito all'establishment interno, che non vedeva di buon occhio le tendenze «moderniste» di Marine. Perché, osservando la storia del Front National e in generale dell'estrema destra francese, Marine Le Pen è una modernizzatrice. Dell'immagine e della piattaforma politica del partito. O un'abile rabdomante delle paure che circolano nella società francese. Le due cose convivono, non c'è dubbio, e la rendono un oggetto politico interessante, non c'è dubbio.

Nonostante i proclami di una grandeur ritrovata, anzi mai persa, sparsi da Sarkozy, e l'improbabile piattaforma progressista elaborata da Hollande, questa campagna elettorale ha fatto i conti più con i timori dei francesi sull'Europa, la disoccupazione, l'emarginazione della Francia dallo scacchiere internazionale, anche dopo l'avventura bellica in Libia. A questo insieme di incertezze e inquietudini Marine è riuscita a dare una forma politica e una grande efficacia comunicativa. Ascoltandola in televisione o ai comizi, il fardello dell'estremismo si dileguava immediatamente. Il suo programma elettorale e la retorica esibita in questi mesi hanno girato attorno al fallimento dell'Europa, dell'euro, del mercato comune, delle tecnoburocrazie di Bruxelles, e certamente il suo score personale indica un forte sentimento antieuropeista trasversalmente diffuso tra i francesi (e, aggiungiamo, entro breve destinato a scoppiare anche da noi).

Ma il FN si è presentato anche come il partito della difesa dello Stato, dell'intervento pubblico, della laicità dell'istruzione, del principio «prima i francesi» in chiave di politiche sociali, della «meritocrazia repubblicana», persino di un ecologismo ancorato alla campagna dei prodotti a «chilometro zero» che in Italia affascina la sinistra. Il programma di un tradizionale partito di destra, insomma, aggiornato al nuovo millennio e al contesto di crisi globale. In molti - anche calcolando la somma dei suoi voti con quelli di Sarko, vicina al 50% - si chiedono da tempo se prima o poi deciderà di portare avanti il rinnovamento del FN, ancorando il suo partito all'avvenire delle destre moderate. Ma ieri, brindando al successo, Marine avrà pensato ad altro.

di Angelo Mellone.

lunedì 23 aprile 2012

Welcome to...World War 3?



“Loro hanno la ricchezza ma non hanno Dio, noi invece abbiamo Dio e noi siamo un popolo tollerante ma non fateci perdere la pazienza.”

Con queste parole dai toni minacciosi, Mahmud Ahmadinejad, Presidente della Repubblica Islamica dell’Iran, si rivolge alla folla nel suo discorso dell’11 febbraio 2006, ma si rivolge soprattutto all’occidente e al suo principale alleato nella regione mediorientale: Israele.

Il tema che accende gli animi e provoca crescenti tensioni tra occidente e Iran è il medesimo da diversi anni: l’energia nucleare iraniana.

Il primo programma nucleare in Iran fu avviato negli anni 50 con il regime dello Scià e con la benedizione degli Stati Uniti. Il primo impianto fu costruito nella città di Bushehr, danneggiato a seguito dei bombardamenti iracheni e ricostruito a partire dal 1995.

Le prime tensioni si ebbero a partire dal 2002, quando l’Iran annunciò che stava costruendo, nei pressi della città di Natanz, un impianto per l’arricchimento dell’uranio. L’aver tenuto segreto per molto tempo il piano riguardante l’arricchimento dell’uranio destò i sospetti dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica) e degli stati membri del Consiglio di Sicurezza, secondo cui l’Iran non stava mantenendo fede agli impegni assunti con la firma del Trattato di Non Proliferazione.

A ciò seguirono  i controlli degli ispettori dell’AIEA  sui siti sospetti e le successive sanzioni decise dal Consiglio di Sicurezza nel 2006, a cui avrebbero fatto seguito quelle europee.

Tuttavia, l’AIEA non ha mai potuto dichiarare ufficialmente il mancato rispetto delle regole del trattato, provocando così le reazioni dell’Iran e il deterioramento dei rapporti con l’occidente, soprattutto con gli Stati Uniti, anche a seguito delle dichiarazioni poco diplomatiche da parte del governo di Ahmadinejad. Quest’ultimo ribadisce in più occasioni che un uso pacifico del nucleare è un sacrosanto diritto per l’Iran e che nessuna regola è stata infranta, anzi, proprio chi punta il dito contro l’Iran in realtà detiene un arsenale nucleare e batteriologico di tutto rispetto. Con queste parole egli fa riferimento allo storico antagonista nello scenario mediorientale, ovvero Israele.

Lo stato israeliano, avamposto occidentale in medioriente, sente come una minaccia la corsa al nucleare iraniana e in più occasioni ha dichiarato, per bocca dei suoi leader, di essere favorevole ad un’azione preventiva per la distruzione dei siti sospetti.

Il premier Nethanyahu, nel suo discorso di fronte all’AIPAC (American Israel Pubblic Affaire Committee) del 4 marzo scorso, dichiara che: “Israele è uno stato sovrano e il Primo Ministro è stato eletto democraticamente per garantire la sua sicurezza e provvedere affinché sui suoi cittadini non gravi una minaccia perenne di distruzione.”

I leader israeliani sono d’accordo nel presentare l’Iran come una minaccia non solo regionale ma globale, che grava su tutto il mondo libero, quindi sull’occidente.

Le uniche voci fuori dal coro sono costituite dall’ala liberale dell’opinione pubblica e da una parte delle forze armate. Queste ultime, capitanate da Meir Dagan, ex capo del Mossad, sostengono che l’Iran avrà bisogno ancora di almeno 18 mesi per ottenere una bomba nucleare, nel caso fosse questo il suo intento, e di altri due anni per riuscire a ridurne il volume tanto da poterla caricare sui propri aerei o incorporarla ai missili Shibak 3 di cui dispone. La minaccia nucleare iraniana non costituisce pertanto un problema militare immediato per Israele e, fino a quella data, si può ricorrere a metodi alternativi per rallentarne la corsa al nucleare, come, per esempio, l’uso di virus informatici oppure la predisposizione di operazioni segrete e azioni militari di piccola scala.

Dal punto di vista di Israele e degli stati occidentali, USA in primis, un Iran nucleare costituirebbe una minaccia e un pericolo serio per il fragile equilibrio mediorientale e favorirebbe un effetto domino di nuclearizzazione della zona.

Inoltre, in Iran, è al governo un regime ultraconservatore sgradito agli USA, che ha violato i diritti umani della popolazione in diverse occasioni, soprattutto nei confronti di studenti e membri dell’opposizione, utilizzando qualunque metodo di repressivo al fine di conservare il potere del regime.

L’Iran, dal canto suo, lamenta il mancato rispetto della propria sovranità nazionale e fa notare come gli Stati Uniti non avessero in alcun modo osteggiato il programma nucleare quando al governo c’era un leader a loro gradito, ovvero lo Scià Reza Pahlavi. Sembra che l’interferenza statunitense si presenti ogniqualvolta siano in ballo fonti energetiche, ieri il petrolio oggi il nucleare, e cresce il sospetto che gli Stati Uniti agiscano con l’intento di mettere con le spalle al muro un regime scomodo, quello degli Ayatollah appunto.

Perché l’Iran dovrebbe volersi dotare dell’arma nucleare? Domanda a cui è difficile dare una risposta univoca in quanto le variabili da tenere in considerazione sono molteplici. Lo potrebbe volere l’orgoglio patriottico della nazione e della popolazione oppure, può darsi, come sostiene Hans Blix, che dal gennaio del 2000 al giugno del 2003 ha guidato la commissione di controllo, verifica e ispezione delle Nazioni Unite, che l’Iran non miri ad allargare il proprio territorio, come fece a suo tempo l’Iraq, ma che voglia soltanto farsi rispettare.

Stanno cambiando gli interessi della nazione, che desidera diventare una nuova potenza regionale. Il petrolio di cui dispone non durerà per sempre e il fabbisogno della popolazione cresce. Questo problema potrebbe, in parte, essere risolto con un utilizzo pacifico del nucleare, inoltre, in questo modo, una percentuale del petrolio iraniano potrebbe essere risparmiata e destinata all’esportazione.

E sul piano internazionale, qual è la posizione degli altri stati sul tema?

Lo scorso 14 aprile, ad Istanbul, si è tenuto un incontro tra i “sei mediatori”, ovvero USA, Russia, Cina, Francia, Regno Unito e Germania con l’Iran. I negoziati sono terminati con un nulla di fatto ed è stato fissato un nuovo appuntamento per il prossimo 23 maggio a Baghdad.

Attualmente, l’Iran è stretto tra la quasi totale esclusione dal sistema bancario internazionale, un imminente embargo petrolifero e la minaccia di attacchi preventivi israeliani.

In questo scenario, la Russia, tradizionale partner economico e militare di Teheran, ha assunto una posizione severa e prudente al fine di ammorbidire l’atteggiamento iraniano per evitare situazioni di isolamento. A causa delle sanzioni economiche imposte, infatti, gli affari russi in Iran sono diventati meno proficui, le compagnie che continuano ad operare nel mercato iraniano rischiano di essere escluse dai mercati europei e nordamericani e Mosca non è disposta a rischiare una situazione di questo tipo proprio ora che si appresta ad entrare a far parte dell’Organizzazione Mondiale del Commercio.

La posizione russa è certamente contraria ad un intervento armato contro il proprio partner commerciale e militare, tuttavia, per raggiungere tale obbiettivo, non è disposta ad isolarsi sul piano internazionale.

Nello scenario mediorientale, fondamentale è l’evoluzione dei rapporti tra Ankara e Teheran che finirebbe inevitabilmente per influenzare il fragile equilibrio nella regione. Anche la Turchia ha mostrato la volontà di giungere ad una soluzione basata più sul dialogo e sul negoziato che sulle sanzioni, ribadendo la propria autonomia decisionale rispetto a Washington. Tuttavia, la Turchia è, e rimarrà, un membro strategico della NATO che, nel settembre 2011, ha dato il proprio consenso ad ospitare il sistema radar cardine dello scudo anti-missilistico dell’Alleanza Atlantica. Con la propria posizione, la nazione turca dimostra l’impossibilità, per ogni rilevante attore nel contesto mediorientale, di fare a meno della sua collaborazione, sia dal punto di vista occidentale che iraniano. Da non sottovalutare, inoltre, la dimensione politica e religiosa che si concretizza, in particolare, con la questione curda e con la disputa fra sciiti e sunniti in Iraq.

L’Unione Europea dimostra ancora una volta di essere condannata ad una posizione di sostanziale irrilevanza sul piano internazionale. Gli interessi economici di alcuni paesi membri in Iran sono addirittura più grandi di quelli statunitensi: Roma, Berlino e Parigi hanno un interscambio con l’Iran stimato attorno ai 15 miliardi di euro, circa il 60% di tutti i rapporti commerciali tra Teheran e Unione Europea e l’Italia stessa è il primo partner europeo nella zona.

Nonostante ciò, tuttavia, appare chiaro come, nel lungo periodo, Washington debba essere l’interlocutore principale con cui l’Iran dovrà scendere a compromessi per una eventuale risoluzione della controversia.

Nella sua visita in Israele e nei territori palestinesi di domenica 8 aprile, il Presidente del consiglio Mario Monti ha ribadito come l’Italia condivida con Israele la preoccupazione per il programma nucleare iraniano e ha ricordato che l’Italia, d’intesa con l’UE, ha deciso per un rafforzamento delle sanzioni nel settore petrolifero e finanziario, posizione che rappresenta un segnale di forte vicinanza ad Israele.

Nel suo discorso del 22 febbraio scorso, l’Imam Khamenei ha sostenuto che l’Iran non ha mai tentato di dotarsi di armi nucleari, vista l’incompatibilità ideologica fra Islam e armi di questo tipo, considerate distruttive e pericolose.

Khamenei conclude il suo discorso rivolgendo all’occidente queste parole: “Their real problem is with a nation that has decided to be indipendent.”

Difficile prevedere come potrà evolvere la situazione in quanto gli attori e gli interessi in gioco sono molteplici, in uno scenario già fragile e spesso mosso da conflitti interni come quello mediorientale. Fino a che punto la comunità internazionale avrà interesse a cercare una soluzione diplomatica della controversia? Le parti coinvolte saranno disposte a scendere a compromessi pur di evitare lo scontro armato?

E se, mentre noi siamo impegnati a fronteggiare la crisi economica e finanziaria che ha stravolto l’Europa e l’occidente in genere, poteri occulti, rappresentati da lobby finanziarie, multinazionali e apparati militari strategici, stessero preparando il terreno per un nuovo conflitto armato su scala internazionale?


Fone: La Testata.

Goldam Sachs: la “piovra” ora ci mette la faccia.



Continua la corsa alla conquista del mondo da parte di Goldman Sachs. Se fino a qualche decennio fa preferiva farlo da dietro le quinte, oggi cosciente dell’imbecillità delle masse ubriacate da media e povertà indotta lo fa mettendo direttamente i propri uomini in posti-chiave. Solo per fare qualche esempio, in Italia abbiamo Monti primo ministro ex uomo Goldman e senatore a vita per volere dell’imperatore Napolitano, come alla Banca Centrale Europea abbiamo Draghi e in Grecia abbiamo Papademos primo ministro. Ma nell’articolo allegato potrete trovare altri nomi in ruoli-chiave del sistema mondiale, tutti uomini “made in Goldman” e tutti finti paladini che lottano per il bene del popolo e per la pace. Ma è pur vero che ognuno ha i governanti che si merita…

Roma - Continua il percorso di dominio dell’Europa da parte della grande banca d’affari Usa. Mark Carney, al momento governatore della Bank of Canada e a capo del Financial Stability Board, uno dei più rispettati banchieri centrali, potrebbe ricevere le redini della Bank of England. Sarebbe il primo a rompere la tradizione che dura ormai da 318 anni, e che vede al trono del grande istituto un cittadino inglese.
Potrebbe sostituire l’attuale governatore Sir Mervyn King. Mai successo in Inghilterra, comunque più in generale caso eccezionale che si opti per uno straniero alla guida dell’istituto centrale di un paese. Tra questi l’americano/israeliano Stanley Fischer, dal 2005 governatore della Bank of Israel.
Carney, ex-Goldman dove ha lavorato per circa 13 anni, negli uffici di Londra, Tokyo, New York e Toronto, ha assunto diverse posizioni di rilievo presso la banca d’affari, tra cui a capo della sezione rischio sovrano, mercati dei capitali paesi emergenti, direttore esecutivo, managing director e nel comparto investment banking.
Coinvolto nello scandalo che colpì Goldman nel 1998 durante la crisi finanziaria della Russia quando, seppur fornendo consigli al paese su come uscire dal periodo nero, la banca d’affari allo stesso tempo scommetteva sul fallimento e sull’incapacità di Mosca di ripagare il suo debito.
Carney non è comunque completamente estraneo all’Inghilterra. Oltre ad aver lavorato, come detto, per diversi anni presso l’ufficio Goldman a Londra, ha moglie inglese e vanta un percorso formativo presso la Oxford University. In aggiunta, “essendo cittadino canadese è soggetto alla Regina”, come detto da un suo sostenitore.
Torna comunque il tema dopo il gran numero di cariche ex-Goldman portate nei punti alti del potere in Europa. Si pensi ai due italiani Mario Monti (Premier Italia) e Mario Draghi (Presidente Bce). Adesso il tutto sembra solo cercare di capire chi sarà il prossimo paese a finire dentro i tentacoli de “La Piovra”.


domenica 22 aprile 2012

Quelle verità inedite sul sofferto rapporto tra gli ebrei e il fascismo.



di Adriano Scianca

I censori di una volta avevano almeno un pregio: nel dichiarare questo o quel libro come “eretico”, se non altro si poteva star certi che prima se lo fossero letto. Sarebbe difficile, per esempio, dare dell’ignorante a György Lukács, grande epuratore della cultura nel periodo in cui fu consulente della commissione incaricata di compilare il Catalogo della stampa fascista e antidemocratica per il governo ungherese nel biennio 1945-46. Coloro che si sono stracciati le vesti contro il libro di Andrea Giacobazzi, Il fez e la kippah (All’insegna del Veltro, pp. 318, € 25,00), invece, confessano candidamente di essersi fermati alla copertina. Vedendo i manifesti della presentazione del saggio,  hanno invocato lo spettro dell’antisemitismo e invocato la legge Mancino. La copertina del testo riporta immagini antisemite, dicono. Vero. Quel che non si dice è che quella immagine è sì antisemita, ma anche... antifascista. Si tratta, infatti, di una vignetta satirica prodotta dell’Imperial Fascist League britannica, in realtà molto più nazionalsocialista che fascista, tanto da polemizzare con Mussolini raffigurandolo con un ebreo stereotipato che gli sussurra all’orecchio sotto la scritta “The Duce and the Deuce!”, “il Duce e il Diavolo!”. Un aneddoto, questo, che già scompagina un bel po’ di etichette preconfezionate. C’è da chiedersi, poi, perché nessuno abbia protestato, ad esempio, contro la copertina dell’antologia critica de La difesa della razza curata da Valentina Pisanty per Bompiani, che riporta analoghi documenti d’epoca senza che nessuno possa scambiare il volume per un testo razzista. La verità è che il saggio di Giacobazzi è uno studio perfettamente scientifico, che raccoglie 150 documenti ufficiali sul contraddittorio, schizofrenico e sofferto rapporto tra il regime fascista e il mondo ebraico. Il testo andrebbe letto in parallelo con l’altro saggio dell’autore, L’asse Roma-Berlino-Tel Aviv (Il Cerchio), dedicato allo stesso tema con non poche notizie inedite o quanto meno sconosciute al grande pubblico. Insomma, niente negazionismo, niente razzismo, niente becerume: solo uno sforzo filologicamente accuratissimo per illuminare un capitolo della nostra storia fra i meno conosciuti. Va detto, in realtà, che già Renzo De Felice, nella sua pionieristica Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, aveva mostrato quanto buoni fossero i rapporti tra ebraismo italiano e fascismo prima della metà degli anni Trenta. Su quella stessa linea, Giacobazzi approfondisce l’argomento e, scavando negli archivi, trova materiale di sicuro interesse. La gran parte degli scambi, ovviamente, è anteriore al 1938, ma non mancano testi sorprendenti, come un rapporto del consolato italiano a Gerusalemme risalente all’agosto del 1940, nel quale si dice che «nel bacino del Mediterraneo l’elemento ebraico deve diventare nostro alleato». Quanto alle leggi razziali, vi si dice che «quanto è stato fatto in Italia, e che deve restare, è cosa ormai sorpassata alla quale pochi pensano ancora». Tutto questo modifica nulla nella drammaticità delle grandi tragedie del Novecento? Assolutamente no. Ma il compito dello storico non dovrebbe essere, comunque, quello di agire con preoccupazioni morali e/o politiche, quanto piuttosto quello di ricercare la verità, sempre e comunque. Elementare. Ma, a quanto pare, non per tutti.

Evelyn Waugh in Abissinia rende giustizia agli Italiani.



di Emilio Testa

Siamo in Abissinia nel 1934, nell’unico stato africano appartenente alla Lega delle Nazioni ed il suo giovane despota, Hailè Selassiè I, è un vero e proprio pupillo dei media del tempo, addirittura uomo dell’anno per la rivista «Time».

Mentre tutti gli altri inviati di guerra si limitano a farsi passare veline false da addetti stampa indigeni (basti pensare che il bombardamento italiano di Adua avrebbe provocato 2000 morti contro gli effettivi sei perché la mente salti alle farlocche fosse comuni che Al Arabya fece vedere all’Occidente durante la recente guerra in Libia e che si rivelarono essere il cimitero islamico di Tripoli) un giornalista inglese, Evelyn Waugh, cerca di descrivere la realtà sulla guerra e, per non essere copiato, scrive i suoi pezzi in latino, ma neppure i redattori di Londra conoscono le lettere antiche e così gli scritti passano dalla telescrivente al cestino.

Così da un racconto di scontri armati si passa a note di colore sugli avvenimenti che si verificano nelle retrovie e all’affresco di un territorio comunque povero e in mano ad una classe dirigente corrotta ed incompetente.

L’iniziale report dall’Africa appare attuale e coraggioso e descrive conquistatori atipici, bravi soprattutto a costruire strade, acquedotti ed edifici pubblici destinati a durare nel tempo. Scrive Waugh : «Quasi tutti gli italiani dedicati alla costruzione delle strade erano più vecchi dei soldati; robusti, di mezza età, apparentemente instancabili.

Alcuni avevano un aspetto patriarcale, con lunghe barbe brizzolate. Indossavavano gli stessi abiti di lavoro che avrebbero usato in Italia, con la sola aggiunta di un casco coloniale per ripararsi dal sole. Era un fatto nuovo per l’Africa orientale, quello di vedere degli uomini bianchi svolgere un semplice lavoro manuale con tanto impegno e fatica; era il segnale di un nuovo genere di conquista». A evidenziare l’impegno delle maestranze italiane non poteva che essere un cronista britannico, appartenente ad una nazione abituata a dominare popoli. Certamente un libro singolare come chi lo scrisse, capace di coinvolgere il lettore con la dirompente forza della verità. (Adelphi, «In Abissinia» di Evelyn Waugh)