Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

giovedì 31 maggio 2012

Mishima si uccise per ridare vita al Giappone.


di Stenio Solinas (Il Giornale)

Il 25 novembre 1970 un uomo si diede la morte nel Quartier generale dell’Esercito giapponese a Tokyo. Si chiamava Yukio Mishima, era uno degli scrittori più famosi e rispettati del suo Paese.

Con quattro membri di un’organizzazione militare da lui fondata, «La Società dello Scudo», dopo aver preso in ostaggio il generale-comandante, ottenne di arringare i soldati chiamati a raccolta nel cortile interno, e chiese loro di aiutarlo a rovesciare un sistema politico che, in virtù del Trattato di sicurezza nippo-americano del 1950 metteva le forze armate giapponesi sotto il controllo degli Usa. Un’umiliazione nazionale, dunque.

Quando i soldati cominciarono a schiamazzare contro il suo discorso, tendente anche a restaurare il potere dell’imperatore, e a irridere le sue parole, Mishima rientrò nell’ufficio e si uccise praticando il seppuku, il suicidio rituale dei samurai, prima di essere decapitato da uno dei suoi uomini. «Se riteniamoche sia importante vivere con dignità, come non dare lostesso valore alla morte? Nessuna morte è inutile» lascerà scritto.

Il giorno in cui Mishima ha scelto il suo destino è il bel film di Koji Wakamatsu, in gara per la sezione «Un Certain Regard». Jakuza da ragazzo, e per questo finito in carcere, poi autore di B-movies erotici e gangsteristici, Wakamatsu è dagli anni Settanta un regista sempre più interessante, politicamente legato ai temi della ribellione giovanile e del malessere sociale. Quattro anni fa con United Army, che raccontava il terrorismo internazionale dell’Armata rossa giapponese, fece scalpore al Festival di Berlino.

Nel film su Mishima, l’interesse sta nella contestualizzazione del suo gesto, la fine degli anni Sessanta sempre più segnati in Giappone dalla contestazione politica e nell’assoluta mancanza di demonizzazione. Come i militanti di estrema sinistra, anche Mishima voleva trasformare il Giappone per salvarlo. Significativo, in questo senso, è la ricostruzione del dibattito che oppose lo scrittore agli studenti occupanti l’università di Tokyo, il suo aderire alle cause della protesta, il suo schierarsi contro chi non voleva riconoscere che il sistema andava modificato con un ritorno al passato, la divinizzazione del potere imperiale come sola possibilità di opporsi ai valori occidentali.

«Perché gli studenti si battevano? Chi era il loro vero nemico? Perché Mishima decise quel gesto estremo? Come si deve morire? E per quale causa? Ogni domanda ne solleva un’altra e per cercare di rispondere ho deciso di fare questo film».

Che cosa succede in Vaticano?



Che cosa succede in Vaticano? I cattolici del mondo intero si domandano costernati qual è il senso delle notizie che esplodono sulla stampa e che sembrano rivelare l’esistenza di una guerra ecclesiastica interna alle Mura Leonine, la cui portata è artatamente ingigantita dai mass media. Però, se non è facile capire che cosa succede, si può tentare di capire perché tutto ciò oggi accade.

Non è privo di significato il fatto che l’autocombustione divampi proprio mentre ricorre il 50esimo anniversario del Concilio Vaticano II. Tra tutti i documenti di quel Concilio, il più emblematico, e forse il più discusso, è la costituzione Gaudium et Spes, che non piacque al teologo Josef Ratzinger. In quel documento si celebrava con irenico ottimismo l’abbraccio tra la Chiesa e il mondo contemporaneo. Era il mondo degli anni Sessanta, intriso di consumismo e di secolarismo; un mondo su cui si proiettava l’ombra dell’imperialismo comunista, di cui il Concilio non volle parlare.

Il Vaticano II vedeva i germi positivi della modernità, ma non ne scorgeva il pericolo, rinunciava a denunciarne gli errori e rifiutava di riconoscerne le radici anticristiane. Si poneva in ascolto del mondo e cercava di leggere i «segni dei tempi», nella convinzione che la storia portasse con sé un indefinito progresso. I Padri conciliari sembravano aver fretta di chiudere con il passato, nella convinzione che il futuro sarebbe stato propizio per la Chiesa e per l’umanità. Così purtroppo non fu. Negli anni del postconcilio, allo slancio verticale verso i princìpi trascendenti si sostituì l’inseguimento dei valori terrestri e mondani.

Il principio filosofico di immanenza si tradusse in una visione orizzontale e sociologica del Cristianesimo, simboleggiata, nella liturgia, dall’altare rivolto verso il popolo. La conversio ad populum, pagata a prezzo di inaudite devastazioni artistiche, trasformò l’immagine del Corpo Mistico di Cristo in quella di un corpo sociale svuotato della sua anima soprannaturale. Ma se la Chiesa volta le spalle al soprannaturale e al trascendente, per volgersi al naturale e all’immanente, capovolge l’insegnamento del Vangelo per cui bisogna essere «nel mondo, ma non del mondo»: cessa di cristianizzare il mondo ed è mondanizzata da esso.

Il Regno di Dio diviene una struttura di potere in cui dominano il calcolo e la ragion politica, le passioni umane e gli interessi contingenti. La “svolta antropocentrica” portò nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio. Quando parliamo di Chiesa ci riferiamo naturalmente non alla Chiesa in sé, ma agli uomini che ne fanno parte. La Chiesa ha una natura divina che da nulla è offuscata e che la rende sempre pura e immacolata. Ma la sua dimensione umana può essere ricoperta da quella fuliggine che Benedetto XVI, nella Via Crucis precedente alla sua elezione, chiamò «sporcizia» e Paolo VI, di fronte alle crepe conciliari, definì, con parole inconsapevolmente profetiche, «fumo di Satana» penetrato nel tempio di Dio.
Fumo di Satana, prima delle debolezze e delle miserie degli uomini, sono i discorsi eretizzanti e le affermazioni equivoche che a partire dal Concilio Vaticano II si susseguono nella Chiesa, senza che ancora sia iniziata quell’opera che Giovanni Paolo II chiamò di «purificazione della memoria» e che noi, più semplicemente, chiamiamo «esame di coscienza», per capire dove abbiamo sbagliato, che cosa dobbiamo correggere, come dobbiamo corrispondere alla volontà di Gesù Cristo, che resta l’unico Salvatore, non solo del suo Corpo Mistico, ma di una società alla deriva. La Chiesa vive un’epoca di crisi, ma è ricca di risorse spirituali e di santità che continuano a brillare in tante anime. L’ora delle tenebre si accompagna sempre nella sua storia all’ora della luce che rifulge.

di Roberto de Mattei.

Marò: concessa la libertà su cauzione.



L’Alta Corte del Kerala ha concesso la libertà dietro cauzione ai marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. I due fucilieri del San Marco verranno trasferiti all’ambasciata italiana a New Delhi. Fra le condizioni poste dl giudice per l’applicazione della misura vi è il deposito di dieci milioni di rupie (143.000 euro) per ciascun marò e la designazione per loro di due garanti indiani. Inoltre, Latorre e Girone non dovranno lasciare il Kerala per essere disponibili per il processo. Sostenendo la richiesta di concessione della libertà dietro cauzione, i legali dei marò avevano assicurato che gli imputati “non avrebbero abbandonato il paese, né cercato di manomettere le prove o di intimidire i testimoni”. Durante l’udienza odierna, che ha fatto seguito a una ulteriore richiesta di rinvio da parte del giudice N.K. Balakrishnan, che aveva nuovamente chiesto un parere al governo centrale di New Delhi sulla scarcerazione dietro cauzione dei due fucilieri del San Marco, i rappresentanti legali dello Stato del Kerala hanno accettato di rinunciare ad utilizzare per l’accusa nei loro confronti dei principi giuridici contenuti nel ‘SUA Act’  (Suppression of Unlawful Acts against the Safety of Maritime Navigation, 1988), detta anche ‘Convenzione Lauro’ (perché nata in seguito al dirottamento dell’Achille Lauro) per il contrasto del terrorismo internazionale. Tale normativa era stata citata dai rappresentanti del Kerala per giustificare l’applicabilità delle leggi indiane in acque internazionali. Il ‘Sua Act’ definisce il terrorismo marittimo come dirottamento di una nave, violenza contro le persone che si trovano a bordo o danneggiamento della nave o del suo carico. Secondo l’accusa indiana, nella definizione di nave rientrava anche quello del peschereccio “attaccato” dalla petroliera Enrica Lexie. In sostanza, l’avvocato che rappresentava gli interessi dello Stato del Kerala è intervenuto nel dibattitimento rinunciando ad insistere nell’applicazione della Convenzione, la cui terza sezione avrebbe praticamente impedito di prendere in considerazione il beneficio della libertà su cauzione.

mercoledì 30 maggio 2012

In cosa ancora possiamo credere? Nel popolo, nella nazione, in noi stessi.



di Marecllo De Angelis.

La fiducia è il fondamento dell’autorità. Nessun uomo, nessun popolo accetta di far gestire la propria vita da persone e istituzioni screditate. Per questo nell’antichità l’onore – o più di recente la “fama pubblica” – era considerato un bene più prezioso della vita stessa. Da millenni si discute di quale autorità abbia diritto o ruolo di governare sulle altre. In tempi più recenti alla parola autorità si è sostituito il termine più bruto di “potere”. Di volta in volta ci si è messi reciprocamente in guardia perché non prevalesse il potere religioso, o quello economico, o quello giudiziario, o quello dei dispensatori di onori pubblici, o quello di gruppi o confraternite occulte. Alla fine, da qualunque premessa si parta, si è sempre giunti all’ovvia conclusione che il primato spetti alla politica. Perché la politica è un sistema di relazioni e non una casta, né una consorteria o una corporazione e nemmeno una classe, come gli emissari abilissimi di altri poteri oggi in Italia sono riusciti a sancire. Perché la politica è l’unico sistema che abbia come valore centrale il perseguimento del bene comune. Perchè la politica fa la legge e quindi si pone come arbitro affinché un potere o una parte non prevalga sulle altre. Perché la politica è rappresentata e rappresenta, comunque, i cittadini, il popolo, la nazione. La più grande opera del demonio – si dice – è averci convinto che non esiste. La più grande opera del corruttore è convincerci che non dobbiamo fidarci dei nostri genitori. La più grande opera di chi vuol renderci schiavi è convincerci che la politica, unica arma dei popoli contro i nemici dei popoli, sia ciò da cui dobbiamo rifuggire. Non si rende più credibile la politica assoggettandola al potere giudiziario senza controlli e nemmeno mettendo un emissario del potere economico al posto dei politici. In chi possiamo credere, in un Italia in cui la Chiesa è accusata delle cose più turpi, gli sportivi si vendono le partite, chi dovrebbe rappresentare la nazione la assoggetta a diktat stranieri, gli insegnanti fanno dottrina politica e i magistrati la impongono? Bisogna credere nella propria capacità di scegliere e discernere. Credere agli uomini e non alla loro rappresentazione. Dubitare di tutto, ma poi scegliere, col coraggio di andare fino in fondo. Credere nel popolo anche se il popolo non crede in sé stesso. Credere nella Nazione anche quando sembra se ne sia perso il ricordo. E credere che ne valga la pena. Credere sempre. Credere comunque.

Ripartire da Zero, con solide basi.



Ripartire da zero, dalla piazza, dando voce alla base, per rifondare l’Italia.
E’ questa l’idea, la speranza, il sogno. Anche perché l’Italia e gli italiani vengono prima di tutto e chi si impegna in politica lo fa, o almeno dovrebbe, per servire il proprio paese, la propria comunità, i propri cittadini, non certo il proprio partito o la propria famiglia. Il partito rappresenta il contenitore, lo strumento attraverso cui veicolare idee e valori. Poi ci sono le persone, con la propria rabbia, il proprio amore, la propria passione, che le tramutano in fatti concreti, in azioni reali.
                                                                                         
Valori importanti, quelli della destra italiana, che, nonostante cattivi maestri degli ultimi anni, sorreggono e sono sorretti da un intera comunità umana, che è stanca, arrabbiata, spesso spaesata.

Da questa rabbia bisogna ripartire, dandole voce, confrontandosi e coinvolgendo come nessuno negli ultimi anni ha fatto. Per combattere la mala-politica, fermare la tormenta dell’antipolitica e tutto ciò che ne deriva.
Ripartire dalla destra che è nel PDL, dai tanti ragazzi che vengono dalla militanza nel movimento giovanile, che ora sono abili e innovativi amministratori locali, dirigenti di partito, pensatori, sognatori e ferventi militanti.
Da zero quindi, ma con solide basi, fondamenta così forti da poter reggere ad uno tsunami.
Rilanciare il PDL partendo da questo, mostrando un contagioso coraggio, che ridisegni la via, ridia fiducia agli elettori e permetta a tutti di "orientarsi per non perdersi”

Fonte: La Testata.


Schiaffo indiano all’Italia: respinto il ricorso sulla giurisdizione.



Un nuovo schiaffo, un’inaccettabile chiusura. L’Alta Corte di Kochi ha respinto ieri il ricorso del governo italiano riguardante la giurisdizione da applicare ai marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone nel caso della morte di due pescatori indiani avvenuta il 15 febbraio scorso. L’udienza era relativa alla richiesta italiana di giudicare in patria i due fucilieri del San Marco ed è stata incentrata sulla contestazione delle accuse formulate dalla polizia indiana a carico dei nostri militari e sul fatto che i marò erano funzionari dello Stato italiano in servizio sulla petroliera ‘Enrica Lexie’. Circostanza che, sulla base del diritto internazionale affermerebbe la prevalenza della giurisdizione italiana con la conseguenza che i due militari dovrebbero essere giudicati in nel nostro Paese. Il giudice P.S. Gopinathan ha pubblicato una sentenza di 60 pagine nella quale il magistrato ha respinto gli argomenti dei legali della difesa che chiedevano di bloccare le accuse per mancanza di giurisdizione, e ha ribadito con asprezza la competenza indiana sulla vicenda, accogliendo tutte le tesi del Kerala e ratificando la legittimità dell’operato di polizia e giustizia keralesi. Nel dispositivo della sua sentenza Gopinathan ha definito l’uccisione dei due pescatori da parte dei marò a bordo della Enrica Lexie come “brutale” e “crudele”, sostenendo che essi non disponevano di immunità. Di più, il giudice ha condannato anche lo Stato italiano e gli eredi dei due pescatori uccisi a pagare un ammenda per aver raggiunto un accordo extragiudiziale in merito all’incidente: 100 mila rupie (circa) 1.400 euro dovrà versarli l’Italia mentre gli eredi di Valentine Jelastine e Ajesh Pinku sono stati multati di 10 mila rupie ciascuno (circa 144 euro). Per il magistrato inoltre “è giusto” quanto fatto in Kerala da polizia e tribunali: “I marò sono soggetti alla giurisdizione penale dei tribunali indiani – si legge nel dispositivo – e la polizia ha agito nel modo giusto registrando la denuncia e svolgendo indagini benchè essi fossero imbarcati su una nave straniera”. Rivendicando il diritto di intervento nonostante la petroliera si trovasse oltre le acque territoriali indiane, il giudice ha sostenuto che “esiste una sentenza del 1981 che impone allo Stato di intervenire fino al limite della Zona di interesse economico (200 miglia nautiche) se il passaggio di una nave privata crea problemi gravi alla sua sicurezza”. Infine, nella sentenza si legge anche che “non c’è nulla nei documenti da cui si può desumere che i marò avessero libertà assoluta di sparare ed uccidere persone. Erano agli ordini del capitano”. Nulla, si dice infine, da cui emerga che essi erano sotto il comando della Marina italiana e “nulla che indichi che il capitano avesse dato un ordine di sparare”. Un responsabile della delegazione italiana ha riferito che insieme ai legali di Latorre e Girone deciderà se e come presentare ricorso.

martedì 29 maggio 2012

Come ci dobbiamo chiamare? «Siamo l’Italia».



di Giovanni Calabresi.

La politica di domani, come ho già scritto, deve essere fatta per strada, stringendo mani, offrendo ascolto e risposte.

È per questo che dobbiamo presentarci dicendo: «Siamo l’Italia».

Sìssignori, come abbiamo affermato dal ’94 in poi, anche se ad un certo punto sembriamo averlo dimenticato,  noi “Siamo l’Italia” che sorride anche nelle difficoltà; che è ottimista, che lavora e produce per dare un futuro alle nuove generazioni, ben coscienti delle difficoltà del momento.

“Siamo l’Italia” consapevole che – come sosteneva Einstein – ogni crisi è occasione di creatività e di rinascita per uomini e donne che guardano avanti e non si piangono addosso.

“Siamo l’Italia” che non ci sta a ricoprire in Europa un ruolo da gregaria, perché abbiamo dato tanto al suo passato e possiamo dare ancora di più al suo futuro.

“Siamo l’Italia”  che apre le braccia a quanti vogliono offrire il loro contributo al futuro nazionale e continentale e lo vogliono fare nel rispetto delle regole ed in nome della Libertà, consapevoli che apparteniamo tutti all’unica famiglia umana.

“Siamo l’Italia” che crede nello sviluppo e rifiuta le ideologie, figlie di un passato ormai metabolizzato e che non deve tornare.

“Siamo l’Italia” che depreca la violenza e gli atti di terrorismo, appartenenti anch’essi ad un passato doloroso e sepolto.

“Siamo l’Italia” della cultura e dell’arte non concepite come statiche e figlie di un passato da contemplare, ma dinamiche e portatrici di nuova bellezza ed armonia.

Ecco, sono convinto che se andremo in giro con questo spirito e portando questo messaggio di speranza, niente ci potrà fermare, ma dobbiamo crederci  e, quando busseremo alle porte e ci chiederanno «chi è?» risponderemo, con voce sorridente: «Siamo L’Italia»


Cardini: non confondere il cristianesimo con lo Stato.


S.S. Benedetto XVI
Lo storico Franco Cardini mette l'accento sulla confusione che spesso si fa fra queste due realtà e invita a «non gridare al cristianesimo offeso e tradito anche perché non è in causa il cristianesimo» in questo momento di turbolenza per il Vaticano. Che ha visto la sfiducia nei confronti del presidente dello Ior, Ettore Gotti Tedeschi, e oggi al fermo del presunto «corvo» Paolo Gabriele, aiutante di camerà della famiglia pontificia, accusato di essere in possesso di documenti riservati. «Se ne sa ancora poco, è presto per fare illazioni. Ma, certamente, noi dimentichiamo che il Vaticano è uno Stato, ha un apparato istituzionale, è anche una grande potenza economico-finanziaria e da tutto questo conseguono una quantità di elementi che complicano un quadro che noi, un po' distrattamente, ameremmo essere un quadro religioso», dice Cardini.

Lo storico insiste poi sul fatto che «confondiamo lo Stato Città del Vaticano con la Chiesa e con la confessione cattolica della fede cristiana. È un errore dal quale dovremmo guardarci e lo facciamo un pò tutti». Per Cardini «non è particolarmente strano quello che è accaduto a Gotti Tedeschi. È una disavventura professionale che può succedere a qualunque esperto di finanza investito di una responsabilità così delicata come quella dello Ior, chiacchierato da tempo. Il nome di Marcinkus è diventato qualcosa di impronunciabile, come Dracula e il vampiro».

«Gotti Tedeschi lo riterrà uno smacco alla sua carriera professionale ma - continua lo storico - siamo tutti esposti a queste cose. In tempi si recessione economico-finanziaria è normale che succedano. Lo Stato Città del Vaticano non è lo Stato Europeo, ma risente della crisi attuale». Lo Stato Città del Vaticano, ricorda Cardini, «è una realtà nata nel '29 per risolvere un grosso problema che riguardava lo Stato Italiano: quello del contenzioso dei beni sequestrati e della libertà delle coscienze» ed «è chiaro che esistono i segreti di Stato. Facciamo l'errore di attribuire al Vaticano una superiorità morale e spirituale che non è nell'ordine delle cose storiche».

Fonte: Il Tempo.

lunedì 28 maggio 2012

‘Zero politichese’ e ‘zero nominati’ per un nuova stagione del Pdl.



Giorgia Meloni
Ripartire da zero per rispondere alla rabbia, più che al disorientamento del popolo di centrodestra, rilanciando i valori fondanti piuttosto che soffermandosi sullo sterile dibattito sugli organigrammi. Questo il senso della manifestazione organizzata dal Pdl che si è tenuta in contemporanea in diverse città tra cui Roma, Firenze, Venezia, Perugia, Latina e Ascoli Piceno “Ripartiamodazero – ha spiegato Giorgia Meloni, intervenuta insieme con il presidente dei senatori del Pdl Maurizio Gasparri e al deputato Fabio Rampelli alla manifestazione di Roma, in piazza San Silvestro – vuol dire prima di tutto ‘zero politichese’ e ‘zero nominati’ per ripartire con i valori e le priorità che stanno a cuore all’elettorato del Pdl che ci sta mandando dei messaggi chiari: sono arrabbiati, altro che moderati, e vogliono che noi interpretiamo la loro rabbia. O lo facciamo, o siamo morti”.

Nella prossima settimana seguiranno altre decine di assemblee, che si terranno in importanti realtà del Sud come Reggio Calabria e Napoli. Quanto alla situazione interna del partito, Giorgia Meloni evita di entrare nel merito delle questioni organizzative di vertice: “Siamo qui – ha spiegato l’ex ministro della Gioventù – proprio perché il Pdl deve ripartire dalla gente e quindi non me la sento di entrare nelle questioni relative agli organigrammi. Quello che so – ha concluso – è che il partito ha al suo interno tutte le energie per impostare il rilancio”.


domenica 27 maggio 2012

Tibet: voglia di libertà. (Intervista a cura del Laboratorio Culturale Aslan)



Laboratorio Culturale Aslan.

Il cadavere di Mussolini arriva in prima serata TV.



Un corpo scomodo, in cui la storia continua a inciampare. Il corpo di un leader che, con la sua fisicità prorompente, ha ammaliato gli italiani per vent’anni. Un simbolo incredibilmente potente, quasi cristologico secondo alcuni (tra i quali lo storico Sergio Luzzatto), ingombrante in vita come in morte. Anzi forse più in morte, dopo l’orrendo carnevale di sangue di Piazzale Loreto.

Parliamo ovviamente del Duce, del suo torace possente, della mascella volitiva, del cranio rasato su cui spesso era calato l’elmetto, e della necessità di profanare un cadavere, in un rito sacrilego e selvaggio (Pertini che con i fascisti non era tenero disse: «A Piazzale Loreto l’insurrezione si è disonorata»), che continuava a essere un’icona, un catalizzatore di istinti. È questo il tema, scomodo persino a più di sessant’anni di distanza dagli eventi, che sarà trattato stasera su Retequattro, nella trasmissione Apocalypse condotta da Giuseppe Cruciani. In questa prima puntata (ne seguiranno altre due) verrà, infatti, presentato in prima serata il documentario Il corpo del Duce, coprodotto da Retequattro e dall’Istituto Luce (regia di Fabrizio Laurenzi che si è ispirato proprio a un saggio di Luzzatto). Con filmati, mai visti in televisione, il film mostra le sequenze crude del trattamento subìto dalla salma di Mussolini, ed è corredato anche dalle ultime immagini esistenti del corpo. Quelle scattate nella questura di Milano il 14 agosto ’46. Fotografie rimaste occultate, in un faldone riservato del ministero degli Interni, per oltre mezzo secolo. Come mai? Perché subito dopo Piazzale Loreto, per volere del Cnl, il Duce fu tumulato in gran segreto in una fossa anonima nel Cimitero Maggiore di Milano. Non si voleva che la tomba diventasse oggetto di pellegrinaggio. Ma un anno dopo, nella notte del 23 aprile ’46, il corpo venne trafugato da un gruppo neofascista, capitanati da Domenico Leccisi, che ne reclamava una sepoltura più degna. Il cadavere venne poi recuperato dalla polizia. Le direttive che arrivano da Roma sono chiare: una cosa simile non deve più accadere (tra i neo fascisti c’era stato anche chi farneticava di resurrezione). La salma è rinchiusa in un baule, ripiegata su se stessa e ormai ridotta a una mummia. Il corpo fu occultato per oltre 11 anni in un luogo conosciuto solo dai vertici dello Stato (un convento dei cappuccini a Cerro Maggiore), chiuso in una cassa di sapone.

Sono immagini molto crude e la scelta di mandarle in onda in prima serata ha richiesto un certo coraggio, come spiega al Giornale il direttore di rete, Giuseppe Feyles: «Non è facile programmare la storia in prima serata e in piena garanzia. Ma i documentari che proponiamo, alcuni in prima visione assoluta, meritano questo rischio. Raccontare il passato, infatti, aiuta a capire il presente». Anche il conduttore della trasmissione Giuseppe Cruciani è conscio dell’impatto di queste immagini. «Sono immagini forti, dure... ma è giusto guardarle e vanno contestualizzate sull’epoca dei fatti... E poi c’è il legame con l’oggi su cui riflettere, assomigliano a quelle della morte di Gheddafi... I dittatori quando cadono finiscono così».

Ma forse di fronte alle immagini di quel corpo, adorato quanto vilipeso, che tanto ha pesato sulla nostra storia, la chiosa migliore restano le parole di Cesare Pavese: «Se un nemico diventa morendo una cosa simile...vuol dire che, anche vinto il nemico, è qualcuno... per questo ogni guerra è una guerra civile. Ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione». Soprattutto se il caduto è Benito Mussolini.

di Matteo Sacchi.

sabato 26 maggio 2012

RIPARTIRE DA ZERO. LE PROPOSTE DI GIORGIA MELONI.



RIFIUTI ZERO.
Niente discariche né inceneritori. Il futuro (e il presente…) nel ciclo dei rifiuti è riutilizzare gli scarti come materia prima seconda. Produrre meno rifiuti e imballaggi inutili e costosi, reintrodurre il vuoto a rendere, fare la raccolta differenziata porta a porta, sviluppare la filiera industriale dei materiali riciclati. Nel mondo avanzato funziona così, può succedere anche da noi.

IMPATTO ZERO.
Puntare sulle energie sostenibili e alternative. Fotovoltaico, solare, geotermico, biomasse, eolico. E nucleare da fusione: una fonte potenzialmente inesauribile, non radioattiva, che non produce pericolose scorie millenarie. L’assenza dell’Italia dal nucleare pericoloso da fissione può costituire un vantaggio per investire nella ricerca e mettersi all’avanguardia nel nucleare pulito.

BARRIERE ZERO.
Garantire piena cittadinanza alle persone disabili. Abbattere tutte le barriere, fisiche, psicologiche, economiche, che rendono difficile l’esercizio effettivo dei diritti di chi è affetto da disabilità.

KM ZERO.
Privilegiare il consumo di prodotti locali, a partire dall’agricoltura, riduce i costi e l’inquinamento provocato dai trasporti, sostiene l’economia locale, rispetta le vocazioni e le tradizioni dei luoghi.

EMISSIONI ZERO.
Sviluppare e potenziare il trasporto pubblico, la mobilità sostenibile, le piste ciclabili e i percorsi pedonali protetti nelle aree urbane. Per città a misura d’uomo, non delle macchine.

BUROCRAZIA ZERO.
Liberare la società dall’opprimente peso della burocrazia. Timbri, permessi, nulla osta, autorizzazioni, visti, certificati: una giungla da sfoltire e ricondurre a funzionalità ed efficienza. Per una Pubblica Amministrazione amica dei cittadini.

PRIVILEGI ZERO.
Merito ed equità viaggiano di pari passo. Per decenni il ‘merito’ è stato sacrificato sull’altare di una malintesa ‘eguaglianza’, lasciando campo libero a nepotismo, baronato e privilegi di casta. Garantire in ogni settore la libertà di accesso con selezioni basate solo sul merito.

CORRUZIONE ZERO.
Approvare subito la legge anticorruzione, rivendicando la sua nascita per iniziativa del PdL. Ripristinare l’etica e la moralità come presupposto fondamentale per il governo della cosa pubblica.

DEBITO ZERO.
Abbattere il debito pubblico per pagare meno interessi e liberare l’economia dal fardello che ne blocca la crescita: dismettere le partecipazioni non strategiche e il patrimonio non strumentale, imporre il prestito forzoso alle grandi ricchezze. Saldare i debiti della Pubblica Amministrazione verso le imprese: non c’è niente di peggio di uno Stato che fa fallire i suoi fornitori.

EVASIONE ZERO.
Pagare meno, pagare tutti. Lotta senza quartiere all’evasione fiscale: chi evade costringe gli altri a pagare di più e provoca il conflitto sociale.

IMPUNITA’ ZERO.
Certezza della pena per chi è condannato. Processo equo e in tempi ragionevoli per chi è indagato. Responsabilità civile per il magistrato che sbaglia per dolo o colpa grave.

DENATALITA’ ZERO.
Quoziente famigliare per fisco e servizi pubblici. Asili nido e servizi per i minori, Iva al 4% per i prodotti per l’infanzia. Piena applicazione della legge 194 sull’aborto, finora dimenticata e inapplicata nella parte che prevede di rimuovere le cause economiche e sociali che portano una donna a rinunciare alla maternità. Contrastare l’invecchiamento della popolazione è l’unica ricetta per dare un futuro all’Italia e riequilibrare il sistema pensionistico.

IGNORANZA ZERO.
Ricerca scientifica e innovazione tecnologica strumenti per la competitività. Favorire gli investimenti privati con agevolazioni mirate, aprire scuola e Università al mondo del lavoro senza mettere in discussione l’autonomia della cultura.

DEGRADO ZERO.
Fare una vera e propria campagna per la ‘bellezza’, contro il degrado dei quartieri, per il recupero delle periferie, la tutela dei beni storici, architettonici e paesaggistici. Basta con i venditori ambulanti abusivi, cartellone selvaggio, vietare la prostituzione in strada.

TOLLERANZA ZERO.
La ricetta che ha salvato New York dalla morsa della criminalità è ancora oggi l’unica che funziona: non dare tregua a delinquenti e criminali, tutelare la sicurezza dei cittadini, a cominciare dai più deboli. Lotta a tutte le mafie senza quartiere.

SUDDITANZA ZERO.
A testa alta in Europa e nel mondo. Politica estera senza soggezione per affermare il ruolo e gli interessi italiani nel mondo. Accettare di cedere quote di sovranità in favore di un’Europa politica, potenza continentale, e non di un’Europa ridotta ad astratto ‘mercato’ senz’anima.

LOBBY ZERO.
Una politica sempre dalla parte dei cittadini, degli interessi deboli e diffusi. Fuori dalla porta poteri forti, lobby e potentati.

DROGA ZERO.
Combattere tutte le dipendenze, rafforzare e integrare le politiche proibizionistiche con la prevenzione, contrastare la cultura dello sballo. Dimostrare ai giovani che ci si può divertire, ballare, cantare senza bisogno di usare ‘sostanze’.

USURA ZERO.
Sbloccare l’accesso al credito, riportare il sistema bancario al servizio del territorio. Incentivare il sostegno alle famiglie e alle imprese, agli investimenti produttivi, e penalizzare le attività speculative e puramente finanziarie che sottraggono risorse all’economia reale. Ridurre i costi di gestione dei conti correnti, delle carte di credito e di debito, degli strumenti finanziari che i cittadini sono costretti a utilizzare per le esigenze quotidiane.

VIOLENZA ZERO.
Riaffermare con intransigenza il fermo rifiuto della violenza come strumento di lotta politica. Contrastare la violenza in ogni forma e in ogni luogo: violenza sessuale, discriminazioni etniche, fanatismo religioso, sopraffazione degli indifesi ci troveranno sempre in prima fila a fermarne il cammino.

MASCHILISMO ZERO.
Perseguire l’effettiva parità tra uomo e donna. L’Italia è tra le ultime nazioni nel mondo sviluppato in questo campo. L’assenza delle donne nei luoghi che contano impoverisce il dibattito e fa venire meno un contributo visuale determinante. Favorire la crescita delle donne significa ripensare i tempi e i modi in cui è organizzata la società, il lavoro, la politica.

NOMINATI ZERO.
Basta con il parlamento dei nominati. Serve una nuova legge elettorale che reintroduca le preferenze o le primarie per dare ai cittadini il diritto di scegliere. La partecipazione è il fondamento della democrazia.

PARTITOCRAZIA ZERO.
Niente passi indietro sul bipolarismo. Al contrario, la riforma istituzionale deve segnare un avanzamento: elezione diretta del capo dell’esecutivo, fine del bicameralismo perfetto e del potere di veto dei partiti, maggioranze stabili. Partiti trasparenti, con statuti democratici e rispettati.

SECESSIONE ZERO.
La riforma approvata dal governo Berlusconi disegna un federalismo solidale e rispettoso dell’identità nazionale. Attribuisce le risorse agli enti territoriali responsabilizzandoli nella spesa, sostiene le aree depresse con il fondo perequativo, introduce il meccanismo dei costi standard al posto della spesa storica che ha finora premiato chi spreca, riconosce a Roma la specificità di Capitale. Il PDL deve rivendicare questa interpretazione del federalismo, sottraendolo a una Lega sempre più in crisi di ruolo e di nuovo tentata dalla deriva secessionista.

DIGITAL DIVIDE ZERO.
L’accesso a internet e ai relativi servizi informatici nella società moderna è un diritto universale, differenze così marcate di trattamento tra cittadini dello stesso paese sono inaccettabili. Il ritardo accumulato dall’Italia è spaventoso e riduce la competitività delle imprese. Investire sulla banda larga è una delle risposte necessarie per uscire dalla crisi e rilanciare l’economia.

venerdì 25 maggio 2012

Quando Evola e Eliade vollero «fare fronte» spirituale.



Quella fra Julius Evola e Mircea Eliade fu, come scrisse molti anni fa Philippe Baillet, «una amicizia mancata», o meglio fu Un rapporto difficile: è questo il titolo di un saggio scritto da Liviu Bordas, dell'Istituto Studi Sud-Est Europei dell'Accademia Romena di Bucarest, pubblicato sul nuovo numero di Nuova Storia Contemporanea. Uno studio ricco di analisi e interrogativi sull'incontro fra i due studiosi, che si basa sul ritrovamento di 8 lettere inedite del periodo 1952-1962 dell'italiano al romeno, scovate da Bordas tra i Mircea Eliade Papers custoditi all'Università di Chicago e che si aggiungono alle 16 pubblicate poco tempo fa dalla casa editrice Controcorrente (Julius Evola, Lettere a Mircea Eliade 1930-1954).

I rapporti tra Evola e Eliade furono soprattutto epistolari e sicuramente comprendono molte più missive di quelle sino a oggi rintracciate: nell'immediato dopoguerra, Evola cercò di riprendere i contatti con le sue maggiori conoscenze culturali, scrivendo loro sin da quando era in ospedale, nel 1948-49: a Carl Schmitt, a Ren´ Gu´non, a Gottfried Benn, a Ernst Jünger e a diverse altre personalità fra cui, appunto, Eliade. Lo scopo ideale era non solo riallacciare contatti personali ma cercare di ricostruire una specie di fronte spirituale nella nuova situazione pubblicando in Italia la traduzione di alcune delle opere delle sue antiche conoscenze. Non tutti compresero le sue intenzioni.

Nell'epistolario con Eliade, a esempio, il problema che si pose in quei primi anni Cinquanta nei quali Evola si diede molto da fare per la pubblicazione dei più importanti libri dello studioso romeno, come documentano le nuove e vecchie lettere, fu quello di quanta poteva essere l'influenza degli autori «tradizionalisti» sugli scritti scientifici e divulgativi di Mircea Eliade e il fatto che questi non citasse quasi mai certe sue fonti che alla «Accademia» potevano sembrare sospette. Erano anni turbolenti e anche pericolosi per chi era stato sul fronte degli sconfitti e lo studioso di certo non amava che gli si ricordasse la sua vicinanza prima della guerra alla Guardia di Ferro di Codreanu. Sta di fatto che, nonostante l'aiuto concreto che Evola diede alla pubblicazione dei libri di Eliade, dopo l'uscita della sua autobiografia Il cammino del cinabro (1963) in cui venivano ricordati certi precedenti «politici» eliadiani, questi sospese ogni contatto e, come rivela Bordas, che ha esaminato i diari inediti dello storico delle religioni romeno, confessò nelle sue note di essere molto amareggiato. Insomma, il rapporto fra i due andò avanti sempre fra alti e bassi, comprensioni e incomprensioni che avevano radici culturali e psicologiche, come ben documenta Bordas.

Il quale ha fatto un ottimo lavoro di esegesi incurante dei pregiudizi «politici» che man mano negli anni sembrano accentuarsi sia per Evola sia per Eliade. Ultimo esempio è un recentissimo articolo di Claudio Magris, in cui l'autore, elogiando lo scrittore romeno Norman Manea, afferma che Eliade è «il più grande rappresentante» di quella «grande e spesso cialtronesca cultura romena che genialmente ha indagato e talora pasticciato e falsificato l'universo del mito, disprezzando le ideologie (quelle liberali e democratiche) in nome delle ineffabili verità dell'occulto». Parole che rispecchiano una conoscenza di seconda e terza mano, sorprendente in una personalità come Magris, il quale confonde «occulto» con «esoterismo».

Eliade fu sempre contro l'occulto (anche Gu´non ed Evola lo furono) e, come dimostra il saggio di Bordas, elaborò studi «scientifici» anche se si interessava degli autori «tradizionalisti».

di Gianfranco de Turris.

Una domanda a Fini, l'uomo con la cravatta dal colore del cane in fuga.



L’ultima volta che ho incrociato lo sguardo di Gianfranco Fini è stato a un semaforo. Io aspettavo l’autobus e lui era nella sua auto blu, sulla corsia interna di via Gregorio VII, a Roma. Ci siamo guardati un istante. Giusto il tempo di riconoscerci reciprocamente (così, almeno, spero, perché forse l’ho riconosciuto solo io, non riconoscendo nulla di ciò che era stato lui). Era stato, lui, quanto di peggio la destra potesse essere in un’Italia attardata negli anni 70 del secolo scorso. Era banale e normale. Non capiva la Voce della fogna. Non sapeva neppure chi fosse Alain de Benoist. Non apriva un libro e predicava il Fascismo del Duemila. Diocenescampi quant’era ordinario Fini, specie in tema di fascismo (a proposito: i ragazzi di CasaPound, oggi, sbagliano con “fascismo del Terzo millennio”, rischiano di restare nel solco di Fini). E se fosse utile scovare le stupidaggini ideologiche, in quel leader – così incrostato di destrismo, dove tutto il cascame della propaganda piccolo-borghese vi faceva alloggio – basterebbe svelarne la biografia: dalle simpatie per i regimi sudamericani alle gite da Saddam Hussein, fino ad arrivare alla campagna contro gli immigrati. Lo ricordo come fosse oggi, così comiziava a Montesilvano: “Devono imparare l’uso del sapone”.

Era il civilizzatore, dopo di che, certo, tutto si aggiusta. A maggior ragione si aggiustano le biografie. Ed è cambiato, Fini. Ha cominciato a non farsi riconoscere più parlando la lingua sofisticata di quelli che erano stati i suoi avversari interni. Quando si farà la storia della Destra in Italia verrà fuori tutto un mondo interessante, quello degli antifiniani, quello di Flavia Perina, di Umberto Croppi, di Fabio Granata e di Tomaso Staiti di Cuddia. Discendevano da radici importanti che erano i Pino Rauti, i Pino Romualdi, i Beppe Niccolai, e che erano tre diversi modi di buttarsi alle spalle il fascismo, quello di Rauti era “lo sfondamento a sinistra”, quello di Romualdi era il conservatorismo e quello di Niccolai, invece, era il socialismo tricolore. Si cambia e Fini, per dire, non poteva accettare uno come Romualdi che, pur essendo stato vicesegretario del Partito fascista a Salò, odiava il nostalgismo. Romualdi, raffinato e cosmopolita, spiegava sempre, non senza quella sua bella parlata predappiese: “Dopo il fascismo, sono i cretini che se ne vanno a fare i fascisti”. Fu anche il promotore “dell’idea occidentale”, Romualdi.

E Beppe Niccolai, il pisano, predicava un’Italia dove ai missini doveva essere dato il compito di difendere Adriano Sofri dalle accuse di assassinio e dove perfino Piazzale Loreto potesse finalmente trasfigurarsi, nella memoria, in un atto d’amore… Nulla di tutto ciò era in Gianfranco Fini, scelto da Giorgio Almirante, imposto in luogo di una figura straordinaria qual è Marco Tarchi, destinato a cambiare anche grazie a tutte quelle personalità – Granata, Croppi, Perina, Staiti oggi non più – un tempo irriducibilmente avversarie, quando in quello sfilacciarsi degli anni 70 e poi ancora negli anni 80, Fini restava l’Italiano in Lebole. Ed è cambiato, Fini. E’ stato anche un bravo ministro degli Esteri (niente a che vedere con Franco Frattini o, peggio, con l’attuale ministro). Aveva un ruolo alla Farnesina, era calato nella parte, e aveva un ottimo collaboratore, ovvero Salvatore Sottile che non è quello delle donne, suvvia, lo sapete bene. Lui, Salvo, è piuttosto quello che ha pagato un prezzo ingiusto senza mai chiedere di essere ripagato.

Ecco, forse ci ha messo un carico di buona fede, Fini. Lo voglio credere mentre se ne va via con la sua macchina, immagino reduce dalla sua nuova dimora di Val Cannuta. E però devo confessarlo che mi è venuto difficile scrivere questo pezzo perché, insomma, tutto s’è consumato mentre l’ho riconosciuto dietro quel vetro. E il suo modo di buttarsi alle spalle una storia è stato certo il peggiore di tutti i modi. L’antifascismo non è omeopatia, è un veleno. Altrettanto quanto può esserlo, giusta caricatura berlusconiana, l’anticomunismo. Praticare l’antifascismo oggi è un rinfocolare una guerra civile che gli italiani avevano già conclusa nel 1971, nell’anno della vittoria elettorale del Msi in Sicilia. Avrei voluto dirglielo se fosse durato ancora un minuto il semaforo rosso. E’ cambiato, certo, ma come i parvenu che ragliano al cielo la propria festosa mutazione, continua a cambiare fino a diventare uno scarto di Pier Ferdinando Casini. E ha gettato nel cesso della storia un mondo fatto di almeno tre milioni di italiani. E’ riuscito, lui, con le sue cravatte sbagliate, a distruggere un partito – un ambiente, una comunità – che da Bolzano a Trapani aveva superato le persecuzioni, l’ostracismo e l’indifferenza.

L’altra domanda, quella che magari riesco a recapitargli con queste righe, è questa: “Segretario, lo hai fatto un bilancio?”. Sicuramente sì, l’avrà fatto. E si sarà detto, sottovoce, di aver perso l’asino con tutte le carrube. Avrà fatto mente locale e capito – una volta per tutte – di non avere la stima e il rispetto di tre milioni scaricati nelle fogne. E si sarà aggiustata, ben annodata al collo, la sua cravatta il cui colore è quello del cane in fuga, bandiera di un’ambizione stritolata.

di Pietrangelo Buttafuoco.

giovedì 24 maggio 2012

Per Repubblica Falcone era un guitto.


Giovanni Falcone
Il 9 gennaio 1992 Repubblica esce con un articolo firmato da Sandro Viola intitolato “Falcone, che peccato”. (L'articolo casualmente è sparito dall'archivio digitale di Repubblica). L'autore rimprovera al giudice Giovanni Falcone “l’eccessivo presenzialismo del magistrato” nelle trasmissioni televisive. Critiche ingrate e anche ingiuste. Pochi mesi dopo, il 23 maggio, esattamente 20 anni fa, Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso per mano mafiosa.

Riportiamo integralmente l’editoriale di Sandro Viola.

D'un uomo come Giovanni Falcone, il magistrato che alla metà degli anni Ottanta, dal suo posto alla Procura di Palermo, inflisse alcuni duri colpi alla mafia, si vorrebbe dire tutto il bene possibile. O quanto meno, per evitare di trovarsi nella pessima compagnia di certi suoi detrattori, non si vorrebbe dirne male. E tuttavia, da qualche tempo sta diventando difficile guardare al giudice Falcone col rispetto che s'era guadagnato.

Egli è stato preso, infatti, da una febbre di presenzialismo. Sembra dominato da quell'impulso irrefrenabile a parlare, che oggi rappresenta il più indecente dei vizi nazionali. Quella smania di pronunciarsi, di sciorinare sentenze sulle pagine dei giornali o negli studi televisivi, che divora tanti personaggi della vita italiana – a cominciare, sfortunatamente per la Repubblica, dal Presidente della Repubblica – spingendoli a gareggiare con i comici del sabato sera, con il prof. Sgarbi, con i leaders di partito, con i conduttori di “talk-shows”, con gli allenatori di calcio, insomma con tutti coloro che ci affliggono quotidianamente, nei giornali e alla televisione, con le loro fumose, insopportabili logorree.

Ecco quindi il magistrato Falcone, oggi ad uno dei posti di vertice del ministero di Grazia e Giustizia, divenuto uno dei più loquaci e prolifici componenti del carrozzone pubblicistico italiano. Articoli, interviste, sortite radiofoniche, comparse televisive. E come se non bastasse, libri: è uscito da poco, infatti, un suo libro-intervista dal titolo accattivante, un titolo metà Sciascia e metà “seriale” televisivo, “Cose di cosa nostra”, che con il suo suono leggero, la sua graziosa allitterazione, a tutto fa pensare meno che ai cadaveri seminati dalla mafia. Concludendo: ecco il giudice Falcone entrato a far parte di quella scalcinata compagnia di giro degli autori di “instant boooks”, degli “opinionisti al minuto”, dei “noti esperti”, degli “ospiti in studio”, che sera dopo sera, a sera inoltrata – quasi un “memento mori” -, s'affacciano dagli schermi televisivi.

Né il giudice Falcone può invocare la sua esperienza del crimine, e del crimine mafioso in particolare, come giustificazione di tanti interventi. Certo, ci sono materie in cui la parola va data al “noto esperto”: la gastronomia, poniamo, il giardinaggio, il salvataggio dei monumenti. Nulla osta, infatti, acchè queste materie, vengano trattate in tutta libertà, col più esplicito dei linguaggi. Ma parlare di crimine quando si ricopre un'altissima carica nell'amministrazione della giustizia, è diverso.

Infatti, si pone il problema formale della compatibilità tra al funzione nell'apparato statale e l'attività pubblicistica. E poi c'è un elemento sostanziale. Trattare la materia mafiosa quando si è, allo stesso tempo, un magistrato coinvolto a fondo nella lotta alla mafia, impone un riserbo. Costringe, se non proprio all'evasività, a discorsi generici. Infatti, dal dr. Falcone lo spettatore televisivo, il lettore dei suoi articoli, ricaverà quasi sempre molto poco. Perché quello che il direttore degli Affari Penali sa, non può certo essere detto interamente; e quello che pensa – se appena l'argomento è un po' delicato -, va detto con estrema cautela.

Il risultato è che le esternazioni del dr. Falcone risultano quando mai nebulose. Così, qualcuno penserà che egli non sa niente di niente sulla criminalità organizzata, un altro crederà che lancia messaggi trasversali, un altro ancora riterrà che ciurla nel manico, un ultimo sospetterà che non sa esprimersi. E dunque che senso può avere pronunciarsi (come il giudice Falcone fa così di frequente), quando il decorso della funzione giudiziaria, gli obblighi di discrezione connessi alla carica, impediscono giustamente d'essere troppo espliciti? Non si potrebbe rispondere alle segreterie di redazione del Tg2 e del Tg3 che telefonano per organizzare una trasmissione, “Grazie, ma sono occupato”?

Beninteso, rimproverare al giudice Falcone di contribuire senza risparmio al “ronzio incessante di commenti estetici, di opinioni al minuto, di giudizi pontificali pre-imballati che invadono l'etere”, sarebbe più pertinente in un altro paese che non l'Italia. In Italia, si sa come stanno le cose. Il primo a violare giornalmente ogni obbligo di riserbo, di misura, di rispetto per la propri funzione, è il primo cittadino della Repubblica. E di fronte a tanto disprezzo delle regole da parte di chi, per primo, dovrebbe servire da esempio, illustrando le virtù della discrezione e della compostezza, prendersela col dr. Falcone può risultare ozioso.

“Ma è il passato del giudice Falcone, che induce alla critica. Non lo si tirerebbe in ballo se egli fosse uno dei tanti magistrati che si sono messi a far politica, ad ammorbare con la loro prosa indigeribile le pagine dell'”Unità”, ad esibire le loro parlantine in televisione. Ma la capacità con cui egli svolse i suoi incarichi alla Procura di Palermo, la stima che suscitò in tanti di noi costringono ad esprimere uno stupore, una riserva, sull'eccesso di verbosità con cui egli va conducendo questa seconda parte della sua carriera. Perché nessuno regola o consuetudine prevede che i magistrati tengano una “rubrica fissa” sul crimine. Perché nessun paese civile ha mai lasciato che si confondessero la magistratura e l'attività pubblicistica. E dunque non si capisce come mai il dr. Falcone, se proprio tiene tanto al suo nuovo ruolo di “esperto in criminalità mafiosa”, non ne faccia la sua professione definitiva, abbandonando (questo sì, questo sarebbe inevitabile) la magistratura.

Qualcuno mi dice che le continue sortite del giudice palermitano avrebbero un loro scopo, peraltro apprezzabile: quello d'illustrare, propagandare, i due organismi varati recentemente per combattere meglio la mafia, la cosiddetta Superprocura e la Dia. Personalmente, considero la Superprocura e la Dia due misure sensate (che mi auguro risultino efficaci) mentre mi sfuggono le ragioni di chi invece le avversa. Ma quanto al propagandarle, il direttore degli Affari penali avrebbe altro modo che non il presenzialismo di cui s'è detto. Due interviste all'anno – chiare, circostanziate – sarebbero infatti più che sufficienti.

Quel che temo, tuttavia, è che a questo punto il giudice Falcone non potrebbe più placarsi con un paio d'interviste all'anno. La logica e le trappole dell'informazione di massa, le sirene della notorietà televisiva tendono a trasformare in ansiosi esibizionismi anche uomini che erano, all'origine, del tutto equilibrati. L'apparire, il pronunciarsi ingenerano ad un certo momento come una “dipendenza”, il timore lancinante che il non esibirsi sia lo stesso che il non esistere. E scorrendo il libro-intervista di Falcone, “Cose di cosa nostra”, s'avverte (anche per il concorso d'una intervistatrice adorante) proprio questo: l'eruzione d'una vanità, d'una spinta a descriversi, a celebrarsi, come se ne colgono nelle interviste del ministero De Michelis o dei guitti televisivi.

E, si capisce, la fatuità fa declinare la capacità d'autocritica. Solo così si spiegano le melensaggini di “Cose di cosa nostra”. Frasi come: “Questa è la Sicilia, l'isola del potere della patologia del potere”; oppure: “Al tribunale di Palermo sono stato oggetto d'una serie di microsismi...”; oppure ancora: “Ho sempre saputo che per dare battaglia bisogna lavorare a più non posso e non m'erano necessarie particolari illuminazioni per capire che la mafia era una organizzazione criminale”. Dio, che linguaggio. A Falcone non saranno necessarie, ma a me servirebbero, invece, due o tre “particolari illuminazioni”: così da capire, o avvinarmi a capire, come mai un valoroso magistrato desideri essere un mediocre pubblicista.

di Sandro Viola - 9 gennario 1992

Tutto è rito, e l'antimafia è liturgia. Di Pietrangelo Buttafuoco.

Hunger. La vera storia di Bobby Sands, secondo Steve McQueen.



di Miro Renzaglia.

A quattro anni dall’uscita è arrivato finalmente in Italia Hunger, letteralmente “Fame”, opera prima del registaSteve McQueen, realizzato nel 2008 ma distribuito da noi solo da poche settimane, grazie al grande successo di Shame, sempre realizzato da McQueen nel 2011 e che ha convinto i produttori a recuperare questo film che avevano colpevolmente tenuto in un cassetto.

Hunger, dopo Some mother’s son (in italia tradotto con “Una scelta d’amore”) del 1996 di Terry George, e Il silenzio dell’allodola (2005) di David Ballerini, è il terzo film a narrare la vicenda di Bobby Sands, il giovane militante della Provisional IRA (Irish Republican Army), poeta e giornalista,leader dei detenuti politici all’interno dei Blocchi H del carcere di Long Kesh inIrlanda del Nord, che iniziò il 1° marzo 1981 uno sciopero della fame per protestare contro le loro condizioni disumane di vita e per ottenere il riconoscimento dello status di prigionieri politici per i combattenti detenutinelle prigioni dell’Ulster. Status che gli inglesi avevano abolito per tutti i criminicommessi dopo il 1º marzo 1976, considerando i prigionieri come detenuticomuni.

Le proteste dei militanti incarcerati iniziate con la blanket protest (protesta delle coperte) nel 1976, quando i prigionieri si rifiutarono di indossare le uniformi da detenuti comuni, indossando solamente una coperta per tutto il tempo, per passare poi nel 1978 alla dirty protest (protesta dello sporco), che vide i prigionieri rifiutarsi di andare in bagno e spalmare i propriescrementi sui muri delle celle e buttare l’urina sotto le porte. Una protesta estrema che denunciava le percosse subite dai secondini nel momento in cuisi lasciavano le celle per andare in bagno.

I detenuti in sciopero facevano cinque richieste: 1) Diritto di indossare i proprivestiti e non la divisa carceraria, 2) Diritto di non svolgere il lavoro carcerario, 3) Diritto di libera associazione con gli altri detenuti durante le ore d’aria, 4) Diritto di avere reintegrata la remissione di metà della pena, diritto che avevano perduto in conseguenza delle proteste, 5) Diritto di ricevere pacchisettimanali, posta e di poter usufruire di attività ricreazionali. Il governo britannico non intendeva cedere alle richieste dei detenuti per non compromettere la propria strategia di criminalizzazione del movimento repubblicano.

A differenza del precedente sciopero della fame di pochi mesi prima, nel marzo 1981 i dirigenti dell’IRA, in accordo coi compagni in carcere lanciarono uno sciopero ad oltranza, iniziato da Bobby Sands, a cui altri carceratiavrebbero dovuto unirsi ad intervalli regolari, così da aumentarne la risonanza esterna. Sands, che nel suo diario Un giorno della mia vita, aveva scritto «ero soltanto un ragazzo della working class proveniente da un ghetto nazionalista, ma è la repressione che crea lo spirito rivoluzionario della libertà. Io non mi fermerò fino a quando non realizzerò la liberazione del mio paese, fino a che l’Irlanda non diventerà una, sovrana, indipendente, repubblica socialista».

Durante lo sciopero fu perfino eletto membro del parlamento inglese in un’elezione suppletiva, ma ciò non gli risparmiò una lunga sofferenza ed infine la morte dopo sessantasei giorni di sciopero.

Dopo la sua morte e prima che la protesta venisse interrotta di fronte all’intransigenza del governo inglese, altri nove detenuti (5 militanti dell’IRA e 3 dell’INLA), trovarono la morte: Francis Hughes (morto il 12 maggio 1981), Raymond Mc Creesh e Patsy O’Hara (21 maggio), Joe Mc Donnell (8 luglio), Martin Hurson (13 luglio), Kevin Lynch (1° agosto), Kieran Doherty, deputato al Parlamento di Dublino (3 agosto), Tom Mc Elwee (8 agosto), Michael Devine (20 agosto).

Il film di McQueen è a mio modesto parere bellissimo: una sfilza di pugni nello stomaco che inchiodano lo spettatore dal primo all’ultimo fotogramma, una sfilza di pugni che ti butta giù a terra dolorante ma che non ti abbatte. E lungidallo spingerti alla rassegnazione ti fa subito venire voglia di rialzarti e correre magari ad informarti sulle vicende di quel giovane ragazzo irlandese che scelse di morire di fame a soli 27 anni per un ideale.

La sceneggiatura scritta dallo stesso McQueen e da Enda Walsh è frutto anche del dialogo dei due autori con ex detenuti, alcuni dei quali sopravvissutiallo sciopero della fame, e con uno dei funzionari della prigione, oltre ad alcunifamiliari dei prigionieri, ma non quelli di Bobby Sands.

McQueen, ha ricreato gli ambienti con grande realismo, senza smussare gliangoli e facendo così rivivere gli eventi in maniera molto tragica, dura, senza alcuno spazio per la pietà o la speranza. Le immagini sono molto crude, il ritmo è incalzante, esclusi i momenti di dialogo, pochi ed essenziali, escluso il colloquio tra Bobby Sands e padre Moran ripreso a distanza con telecamera fissa, che vede protagonisti Michael Fassbender (nei panni di Bobby Sands) e Liam Cunningham (nel ruolo di Padre Moran): una scena che con i suoi 17 minuti e mezzo, ha battuto ogni record e fatto entrare Hunger nel guinness dei primati come il film con la scena più lunga in presa diretta, scena ripetuta circa 23 volte al giorno per cinque giorni consecutivi prima di trovare la forma definitiva.

Di prim’ordine la fotografia, così come l’interpretazione di Michael Fassbender dimagrito fino all’inverosimile per interpretare Bobby Sands, che si è sottoposto ad una dieta inizialmente basata su 900 calorie giornaliere, poiscese a 600 (l’equivalente di 2 confezioni di more ed una sardina!) verso la fine delle riprese.

L’attenzione della spettatore non è indirizzata sulle vicende storiche ed i retroscena della protesta, ma sul corpo di Sands e dei suoi compagni, corpiche diventano una vera e propria arma di lotta e di resistenza dei detenuti, che subiscono brutali pestaggi dai secondini, e che sono anche l’unico mezzo per nascondere i messaggi da scambiare clandestinamente con l’esterno durante i colloqui con i parenti. Un corpo che nel caso di Sands dimagrisce fino alla morte, e le cui piaghe, in una delle scene memorabili del film, tragicamente realista e molto espressiva nel suo silenzio e nella sua esasperazione dei particolari, macchiano di sangue le lenzuola, fino a trasformarle nel sudario di un “martire” del nostro tempo.

Veramente meritati i riconoscimenti attribuiti a suo tempo ad “Hunger”, al protagonista ed al regista, vincitore della Caméra d’or per la miglior opera prima del 61º Festival di Cannes e dell’European Film Awards per la miglior rivelazione – Prix Fassbinder 2008.