Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

venerdì 29 giugno 2012

Esm, l’ultima creatura-mostro dell’eurocrazia finanziaria.



Tra una settimane sarà discusso in Parlamento per la ratifica, ma nessuno osa parlarne e in pochi sanno cos’è. Si tratta del “Meccanismo Europeo di Stabilità” che servirà – almeno così viene dichiarato – a salvare gli stati dell’Unione sull’orlo del default. È un organismo intergovernativo e sovranazionale e sarà gestito da persone che godranno di immunità da qualsiasi giurisdizione

di Francesco Filini.

ROMA – Fra poche settimane il Parlamento Italiano sarà chiamato a ratificare la modifica all’art. 136 del trattato sul funzionamento della UE che istituirà l’ESM (MES la sigla italiana), il “Meccanismo Europeo di Stabilità” che servirà – almeno così viene dichiarato – a salvare gli stati dell’Unione sull’orlo del default. L’ultima creatura uscita dalla fabbrica dell’€urocrazia finanziaria andrà a sostituire i fondi “salva stati” (leggi banche) EFSF e EFSM, concepiti negli anni in cui la finanza internazionale pensava che solo Portogallo e Irlanda erano i paesi sull’orlo del precipizio.

ESM, MOSTRO GIURIDICO – Il Trattato ESM prevede la creazione di un organismo intergovernativo e sovranazionale con sede in Lussemburgo, al quale gli Stati affideranno la gestione di un fondo iniziale di circa 700-750 miliardi per aiutare i membri UE in difficoltà finanziaria. Fin qui nulla da eccepire, sembrerebbe quasi un fondo comune nato dalla solidarietà reciproca tra stati per far fronte alle difficoltà della crisi.Nulla di più falso. Quest’organismo sarà gestito da persone che godranno di immunità da qualsiasi giurisdizione e i documenti che l’ESM produrrà saranno inviolabili e inaccessibili a chiunque: nell’Europa ex-democratica si istituisce un organismo sovranazionale che gestirà la politica economica dei membri che aderiscono al trattato. Nessuna trasparenza, nessuna garanzia e nessun controllo: tutti i poteri all’ESM.


COME FUNZIONA L’ESM – Il funzionamento è semplice: gli Stati “azionisti” dovranno versare la rispettiva quota all’organismo, quando un Paese si troverà sull’orlo del fallimento si rivolgerà all’ESM che provvederà ad erogare la somma necessaria a scongiurare il default, ovviamente sotto forma di prestito ad interesse. Ovvero l’organismo sovranazionale presterà ad interesse i soldi degli stati agli stati stessi. Geniale. Ma c’è di più. Quando uno stato chiederà al MES un prestito questo assumerà il controllo della sua politica economica imponendo scelte finalizzate a garantire la “stabilità”, una parola tanto rasserenante sempre più in voga nel linguaggio delle elite europee. Peccato che la stabilità di cui si parla non sia riferita all’economia ma alla finanza: le scelte che il MES imporrà agli stati ex-sovrani non saranno altro che misure di “macelleria sociale”, privatizzazioni e tassazioni orizzontali necessarie a garantire la solvibilità di uno stato.L’Italia, ratificando il trattato, si obbligherà a versare ben 125 MLD nei prossimi cinque anni. Soldi che l’Italia non ha. Quindi? Non c’è alcun problema, le banche sono state inventate apposta: ci indebiteremo oltremisura per versare soldi su un fondo che ce li ripresterà dettandoci quali misure di politica economica dobbiamo adottare. No, purtroppo non siamo su scherzi a parte.

CHI NON PRODUCE NON HA DIRITTO A ESISTERE - Il nome che l’eurocrazia ha voluto dare a questo nuovo mostro giuridico è davvero appropriato, la parola “meccanismo” ci fa intendere che le scelte di politica economica che ESM imporrà agli stati saranno semplicemente il risultato di un freddo calcolo matematico, privo di qualsiasi contenuto umano: se la sanità diverrà un costo insostenibile bisognerà privatizzarla, chi non potrà permettersela… tanto peggio per lui! Nell’Europa trasformata in un ammasso di ingranaggi finanziari mossi dal pensiero unico del profitto (delle elite bancarie, obviously), chi non produce non ha diritto ad esistere. Nel modello di società imposto dal nuovo ordine mondiale, tutto viene misurato in funzione del costo e del profitto. Persino le malattie o la disabilità saranno piaghe da estirpare perchè rappresentano un costo, una remissione. L’ESM è il trattato che mette nero su bianco la dittatura finanziaria sui popoli europei.

A BREVE IN PARLAMENTO MA NESSUNO OSA PARLARNE – Il trattato doveva essere ratificato entro la fine del 2013 ma la finanza, visto il precipitare della crisi, ha chiesto e ottenuto che venga ratificato entro Luglio 2012. Il nostro Parlamento ha già in calendario il provvedimento, fra un paio di settimane comincerà la discussione e il voto. Eppure nessuno osa parlarne. Esattamente come per Maastricht e Lisbona, i due trattati che hanno cambiato radicalmente l’assetto politico-istituzionele, anche per la legge che istituisce l’organismo di stabilità il silenzio è d’ordinanza. La misura della tragedia europea sta nel constatare che la maggior parte dei politici non sa minimamente cosa sia l’ESM, e quei pochi che lo sanno pensano che sia addirittura un’opportunità per mettere in riparo l’Italia dalla crisi. Nell’indifferenza, nell’ignoranza e nel silenzio di gente messa a rappresentare – dietro lauto compenso – il popolo italiano nelle istituzioni, è possibile ascoltare i rintocchi delle campane a morto che celebrano il funerale di secolari lotte all’insegna dei diritti e della democrazia. Benvenuti nell’era della dittatura finanziaria.


giovedì 28 giugno 2012

Buttafuoco: "Gli italiani tornino ad essere navigatori".


Pietrangelo Buttafuoco
La crisi che stiamo vivendo è soltanto economica o c'è dell'altro?

"Sicuramente in questa crisi c'è un fondamento spirituale, anzi nell'assenza di spiritualità si manifesta questa crisi. Il fatto stesso che abbiamo forgiato generazioni abituate all'idea del posto di lavoro, anzi abituate più allo stipendio che al lavoro avendo noi abbandonato quella che è stata la tradizione dell'umanesimo del lavoro questo ci ha portato a essere soltanto carne da macello a disposizione dei progetti di globalizzazione nella migliore delle ipotesi o, nella peggiore, a essere soltanto un granaio di consenso a disposizione del primo che arrivava nei nostri paraggi e dettava legge".

Rispetto alle crisi passate, sembra esserci un maggiore scoramento, quasi come se la speranza di uscire dal tunnel sia una chimera. E' d'accordo?

"Nel passato c'era un radicamento terraneo, forte che faceva sì che comunque la dimensione fosse quella della profondità, del vivere in profondità, con grande partecipazione perché c'era anche un aspetto corale forte di simbiosi. Adesso siamo solo delle monadi solitarie impazzite, tanto è vero che non abbiamo più davanti a noi una prospettiva. Ti faccio un esempio pratico?"

Prego

"Se tu metti a confronto una fotografia scattata a Scampia, allo Zen di Palermo o al Librino di Catania con una scattata in uno slum di Mombay la differenza è totale. Perché sono tutti e 4 quartieri della cosidetta emarginazione della povertà con la differenza che in quello di Mombay tu vedi brulicare la vita, vedi gente che non sta con le mani in mano, che si muove, che si agita, che fabbrica, che si adopera e che cerca di realizzare qualcosa pur nella povertà dei mezzi. Nelle tre foto scattate nelle nostre tre zone vedrai qualcuno appoggiato al muro, qualcun altro ad attardarsi in un bar, un altro ancora impegnato a cercare un cliente per lo spaccio della droga. Dopodiché il deserto totale".

Lei è anche uno studioso di religioni. C'è qualche colpa da additare al cristianesimo?

"Il cristianesimo ha smarrito totalmente quella che è l'unica vera spinta propulsiva della religioni che per dirla nel linguaggio di Nietsche è la volontà di potenza. Se tu metti a confronto una foto di una chiesa costruita nel 2012 e una moschea vedrai che la moschea è comunque bella, rifulge di potenza mentre la chiesa avrà questo effetto di grande casamento mesto, triste, disegnato secondo le esigenze e le necessità di quegli scatoloni da periferia. Queso perché nella moschea c'è la volontà di potenza, l'adesione a un progetto di bellezza. Nel cristianesimo è venuto meno. Tanto è vero che si è confusa l'identità religiosa con una specia di società di assistenza sociale, diventando solo un accomodante ufficio di ascolto sociale".

Secondo lei, siamo al capolinea o c'è spazio per una rinascita?

"La rinascita, la rigenerazione ci sarà e ha anche un destino ben preciso che è l'Eurasia. La cosa che mi fa ridere in tutto questo parlare di crisi è che noi stiamo a guardare che cosa farà la Germania, la Francia, l'Inghilterra non parliamo poi di cosa può essere la deriva statunitense, ma non ci rendiamo conto invece che vicino a noi c'è una grande potenza regionale come la Turchia che è molto più potente economicamente, commercialmente, culturalmente e anche dal punto di vista della freschezza delle generazioni rispetto a Francia, Inghilterra, Italia".

La rigenerazione risiede nella Turchia, quindi?

"La patria nostra è quella che ha saputo dare un indirizzo alla via della Seta con il percorso verso la Cina, verso le Indie, verso quella grande traiettoria dove c'era quella capacità dell'italiano di ritrovare se stesso viaggiando nel mondo. Non è un incaponirsi da erudito perché non lo sono, ma è una indicazione che devono raccogliere innanzitutto i mercati, i commercianti, quelli che devono recuperare giorno dopo giorno questo spirito imprenditoriale e riuscire a fare quello che nella storia è stato sempre segnato da chi ha saputo essere popolo di santi, eroi, ma soprattutto navigatori".

Che idea si è fatto del fenomeno dei suicidi dal punto di vista sociale e giornalistico?

"Sui suicidi la penso come il Duce. Bisogna applicare la censura, non bisognerebbe parlarne perché c'è sempre quella dimensione di contagio che poi prende l'opinione pubblica. E' pericolosissimo parlare di suicidi, applicare la morbosità come condimento dell'informazione".

Un percorso di letture per uscire dalla crisi?

"Una guida del touring club che porti attraverso il percorso della via della Seta. Solo questo, viaggiare, andarsene via".


Generazione Euromed.



La costruzione dell'Europa, avvenuta tramite infiniti processi di integrazione, non pone elementi di certezza tra le relazioni fra i diversi Paesi interessati. Nell'immediato dopoguerra, la geografia era la stessa, ma la geopolitica era molto diversa. In pochi, tra pensatori, politici e cosiddetti statisti, immaginavano uno scenario che riuscisse ad archiviare il Patto Atlantico e quello di Varsavia.
I trattati di Roma erano molto lontani, l'Europa era una terra disperata più che una prospettiva di speranza e nessuno avrebbe mai pensato all'Erasmus, al mercato comune, addirittura alla moneta (purtroppo?), ai piani di finanziamento regionali, figuriamoci se poco più di venti anni fa qualcuno potesse pensare che un ragazzo di Berlino potesse addirittura decidere di andare a lavorare a Parigi senza il passaporto.
Certo, le criticità erano e sono evidenti: il dibattito sulle radici cristiane nella Costituzione europea appare infinito,  il demos europeo un'utopia da biblioteca, però almeno sono problemi che animano il dibattito della regione europea, sia perchè tutti le nazioni sarebbero troppo piccole per navigare in mezzo ai nuovi scenari politici ed economici (tra il Brics che emerge e l'America che decresce), sia perchè bisogna rintracciare ancora il ruolo universale dell'Europa.
Però l'Europa ha bisogno del disegno comune, soprattutto in politica estera, come dimostra la strategia invisibile relativa alle primavere arabe, che tra social network, loschi interessi pilotati e interessi nazionali tutelati a discapito di quelli di altre potenze, hanno impedito all'Italia di essere la (famosa) piattaforma logistica del Mediterraneo perchè costretta ad esercitare un ruolo di scivolo di interessi nazionali franco-tedeschi.
Quest'occasione persa, ha determinato due sconfitte: l'impossibilità di consentire al Sud Italia di diventare attrattiva culturale, politica e commerciale dei paesi post primavere, permettendo quindi all'Italia di superare il dualismo territoriale Nord/ Sud e di essere più competitivi in Europa e ai paesi nord africani in difficoltà di essere accompagnati alla strutturazione di un modello di sviluppo che, tramite una cooperazione onesta, avrebbe consentito a queste terre un percorso di ripresa economica non per forza connessa all'occidentalizzazione delle strutture politiche.
Capitalismo e democrazia non sono complemtari per definizione, anche se in realtà spesso si accoppiano. La sconfitta umana va oltre il modello di sviluppo del Maghreb e la mancata occasione di ripresa del Sud Italia: quello che è davvero mancato è stata la capacità di far nascere una generazione euromediterranea, che avrebbe davvero consentito di trasformare il Mediterraneo nel mare d'insieme, perchè Mediterraneo vuol dire letteralmente "media tra le terre ed il mare".
I rapporti politici tra le due aree e la vicinanza geografica e territoriale, separata solo da una inifinita distesa d'acqua, che, però, è il luogo della mediazione, della sintesi può determinare le condizioni per iniziare un confronto culturale con le giovani generazione che hanno animato (o che sono state costrette ad animarle) le primavere arabe.
La generazione euromed (termine presuntuosamente coniato) esisterà, perchè aumenteranno i programmi di cooperazione europea verso quell'area, perchè le università inizieranno a dialogare tra loro, perchè dopo la prima fase quelle terre torneranno ad essere mete estive ambite, perchè troppe imprese investiranno (basti vedere a quanto ammontavano i rapporti commerciali tra l'italia e questi Paesi prima del 2011).

di Gianfranco Manco.


mercoledì 27 giugno 2012

Gestione dei rifiuti e politiche comunitarie.




di Roberto Tortoli *

Uno degli obiettivi principali della politica comunitaria è un uso più efficiente delle risorse, al fine di ridurne le ripercussioni negative sull’ambiente e sulla salute nell’intero ciclo di vita.

Questo approccio, per una più razionale gestione di tutti i materiali e le risorse naturali nel corso del loro ciclo di vita, si applica anche alla gestione dei rifiuti ed è stato ribadito in diversi documenti comunitari.

La tabella di marcia per un uso efficiente delle risorse, contenuta nella Comunicazione della Commissione europea del 20 settembre 2011 (COM2011 571 def), dedica uno spazio importante al riutilizzo, nell’ambito dei processi produttivi, di materie prime scartate come rifiuti attraverso il riciclo e il recupero secondo una logica di uso efficiente delle risorse nel loro ciclo di vita.

Ogni anno nell’Unione europea in media solo il 40% dei rifiuti solidi viene riutilizzato o riciclato, il resto è messo in discarica o è destinato all’incenerimento.

L’Unione europea si è posta un obiettivo ambizioso che è quello di addivenire nel 2020 alla completa gestione del rifiuto come risorsa e per far questo adotterà una serie di iniziative nei prossimi anni che punteranno sempre più sul riutilizzo e il riciclaggio.

Ricordo che con l’adozione della direttiva quadro sui rifiuti 2008/98/CE del Parlamento europeo e del Consiglio è stato introdotto il concetto di “ciclo di vita” nella gestione dei rifiuti – considerati come risorse e non come materiali di scarto – ed è stata definita la cosiddetta “gerarchia dei rifiuti” privilegiando azioni di prevenzione, riutilizzo, riciclaggio e recupero, considerando lo smaltimento in discarica come soluzione residuale.

La direttiva comunitaria è stata recepita dall’Italia con il decreto legislativo n. 205 del 2010 che ha modificato il Codice ambientale introducendo nell’ordinamento interno, tra gli altri, il concetto di “sottoprodotto”, “cessazione della qualifica di rifiuto” (cosiddetto end of waste). Nell’ottica di perseguire le priorità nella gerarchia dei rifiuti sono previsti alcuni obiettivi, tra i quali quello di assicurare il 65% della raccolta differenziata entro il 31 dicembre 2012, un obiettivo che difficilmente sarà perseguibile entro tale data.

Il recepimento della normativa comunitaria ha determinato un nuovo approccio nella politica nazionale in materia di rifiuti, passi importanti sono stati fatti ma molto resta da fare se si pensa all’incidenza delle procedure di infrazione in materia di rifiuti che tuttora rappresentano il 20 per cento di  quelle relative al settore ambientale complessivamente considerato.

Tra le azioni principali su cui puntare occorre, pertanto, per un verso ridurre lo smaltimento in discarica e, per l’altro, aumentare la raccolta differenziata che registra ritardi in alcune aree del Meridione.

La Commissione ambiente della Camera, di cui sono vicepresidente, ha avuto modo di evidenziare la necessità di insistere su queste azioni in occasione dell’esame della relazione della Commissione al Parlamento europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo e al Comitato delle regioni concernente la strategia tematica sulla prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti (COM(2011)13 definitivo), a conclusione della quale è stato approvato un documento conclusivo il 22 giugno dell’anno scorso.

Il Parlamento è sempre più attento all’esame dei documenti comunitari e questo, a mio avviso, è fondamentale perché occorre intervenire sempre più nella fase ascendente delle politiche comunitarie.

L’importanza di una gestione razionale dei rifiuti può avere effetti positivi nella fornitura di materie prime, nella produzione di energia e nella creazione di nuovi posti di lavoro.

Di fronte alla crescente dipendenza dell’Unione europea dall’importazione di materie prime da Paesi terzi le politiche in materia di rifiuti possono contribuire allo sviluppo dei mercati delle materie prime secondarie.

Per quanto riguarda la creazione di posti di lavoro è particolarmente significativa la valutazione della Commissione europea secondo cui il riciclo del 70 per cento dei rifiuti a livello di UE assicurerebbe la creazione di 500 mila nuovi posti di lavoro.

Per questo, nel difficile momento che stiamo vivendo è strategico puntare ad una corretta gestione dei rifiuti, che rappresenta una grande opportunità, perché, oltre a ridurre le ripercussioni negative sull’- ambiente, può avere ricadute benefiche sull’economia

Per garantire il successo di questa strategia sarà fondamentale il coinvolgimento della società civile e questo andrà tenuto presente nell’adozione delle politiche future.

* Vicepresidente Commissione Ambiente Camera dei Deputati.

Globalisti sì, ma non troppo.





di Giovanni Sartori.

Non ieri ma diciannove anni fa (nel 1993) scrivevo che la globalizzazione economica - non quella finanziaria, che è cosa diversa - mi pareva un errore per questa semplice ragione (in condensatissima sintesi): che a parità di tecnologia i Paesi a basso costo di lavoro avrebbero messo in disoccupazione i Paesi benestanti, perché la manifattura si sarebbe dovuta trasferire nei Paesi poveri e così, ripeto, i lavoratori dei Paesi benestanti sarebbero restati senza lavoro.

Ho fatto questo rilievo in parecchie altre occasioni, ma sempre parlando a dei sordi. Eppure l'argomento era semplice e ovvio. Oggi la abnorme disoccupazione dell'Occidente e il trasferimento della manodopera nei Paesi nei quali costa anche dieci volte meno è sotto gli occhi di tutti. Ma gli economisti non l'avevano previsto e ora fanno finta di nulla. La loro ricetta per l'Occidente è di diventare sempre più inventivo e all'avanguardia. Ma è un alibi che non tiene. Anche loro, come tutti, sanno che da gran tempo il Giappone e successivamente anche Cina e India sono tecnologicamente bravi quanto noi. Resta il fatto che ormai la frittata è fatta.

In questa frittata gli italiani sono tra i peggio messi. Noi siamo chiaramente in recessione. Per uscirne e risalire la china la parola d'ordine è: investire-crescere, investire-crescere. Tante grazie; ma i soldi dove sono? Lo Stato è stracarico di debiti e non ha in cassa nemmeno i soldi per pagare i suoi fornitori in tempi ragionevoli. Se si prescinde dalla caccia agli evasori fiscali (sacrosanta ma che acchiappa soprattutto pesci piccoli, perché i grandi evasori sono tranquillamente parcheggiati nei paradisi fiscali) il presidente Monti deve anche lui ricorrere a nuove tasse, più salate che mai. Ma oramai stiamo spremendo sangue da una rapa. Ammettiamo che la rapa sopravviva. Anche così il circolo è perverso: riattiviamo produzioni che per sopravvivere si dovranno, quantomeno in parte, delocalizzare. Così torniamo al punto di prima con sempre più giovani senza lavoro.

Tornare alla lira, tornare alla dracma? Sarebbe, temo, una ulteriore follia. Mentre nessuno ha pensato a una unione doganale dell'eurozona. Nessun dazio, nessuna dogana, all'interno di eurolandia. Ma, occorrendo, dazi e protezioni per salvare, in Europa, quel che non ci possiamo permettere di perdere.

Vale ricordare che il primo Paese industriale è stato l'Inghilterra. E tutti gli altri hanno protetto la creazione del proprio sistema industriale. Allora nessuno disse che questa protezione era una cosa orrenda. Era necessaria e fu benefica. Mi chiedo: come mai nessuno (o quasi) propone una unione doganale europea? Sarà sicuramente una costruzione complicata. Ma come non averla quando Stati Uniti e Inghilterra sono a oggi liberissimi di proteggere se stessi, occorrendo, alzando barriere protettive, o anche svalutando, senza chiedere permessi a nessuno, la propria moneta? È così per tutto il mondo che conta (economicamente). Deve essere proibito solo a noi europei? Perché?

Ho già concesso che la nostra protezione doganale sarà una costruzione difficile. Ma cominciamo almeno a pensarci.

martedì 26 giugno 2012

Implosione Pdl: non ci sono idee.



Pdl, una vera e propria implosione: neppure il più pessimista degli analisti politici avrebbe potuto immaginarla tanto devastante e tanto repentina. Nella mente e nel cuore di Berlusconi il partito era già morto da tempo. Gli irriducibili hanno coltivato qualche illusione circa la sua sopravvivenza fino a pochi giorni fa finendo per arrendersi all’evidenza dopo le discutibili uscite del leader sulla crisi, sulle elezioni anticipate, sulla fine dell’euro e sul ritorno alla lira. Ma sono stati soprattutto gli spericolati movimenti promossi dal Cavaliere all’interno del Pdl (primarie, annunci di “sorprese” che non hanno sorpreso nessuno, ammiccamenti al grillismo e ad indefinite liste civiche o di genere) a mettere tutti di fronte al fatto compiuto: l’eutanasia del soggetto nato su un predellino nel novembre 2007 e compiutamente formatosi nel marzo 2009 con un congresso che assomigliava più ad una convention aziendale che ad una assise politica.

È singolare che ancora oggi, quando nessuno più realisticamente immagina una rimonta che dopo la scissione promossa da Fini nell’estate 2010 sembrava alla portata, non ci sia un solo dirigente che s’interroghi sulle ragioni di una dissoluzione avvenuta in tempi tanto rapidi da sorprendere perfino coloro che pure avevano pronosticato un percorso accidentato alla formazione politica nata da una “fusione a freddo” o, come disse qualcuno all’epoca, da una fusione per incorporazione concretizzatasi nella fagocitazione di Alleanza nazionale da parte di Forza Italia secondo uno schema notarile e commerciale a dir poco inusitato nella formazione di aggregazioni politiche.

Ed è ancora più singolare che nessuno si chieda come mai il partito in soli quattro anni sia precipitato dal trionfale 37,8% conseguito alle politiche a poco più del 15%. Con stupore assistiamo a tragicomiche ipotesi di sopravvivenza avanzate da quegli stessi che non si sono accorti che ciò che è mancato al Pdl sono state le idee, una cultura politica nuova, un’identità: tutta roba che non s’acquista ai banchi degli illusionisti che fondano le loro ragioni sul malessere senza offrire ricette adeguate a crisi epocali come quelle che stiamo vivendo da almeno un ventennio. Al Pdl per diventare il fulcro di una mobilitazione di massa tesa all’innovazione sociale ed alla modernizzazione istituzionale occorreva una visione della politica ed un progetto organico intorno al quale chiamare a raccolta gli italiani dei quali non è riuscito a dotarsi.

Il fallimento dell’esperienza, del resto, non è stato improvviso: era iscritto nella nascita stessa del partito berlusconiano che ha declinato, soprattutto nell’ultima fase, la gestione del potere in chiave personalistica e tutt’altro che carismatica facendo crescere faziosità intestine che lo hanno balcanizzato fino a renderlo ingovernabile. Da qui la delusione stessa del Cavaliere che si è trovato di fronte ad un meccano dalle molte anime e per niente unitario, dominato da interessi contrastanti che non hanno mai trovato il modo di comporsi poiché mancavano di un minimo comun denominatore che li tenesse insieme.

Non si comprende sulla base di quale prospettiva molti pasdaran del Pdl invocano in un contesto tanto lacerato il ritorno alle elezioni a breve scadenza: una pulsione suicida sembra animarli non rendendosi conto che con la vigente legge elettorale ed in virtù della diminuzione dei parlamentari (sempre che la mini-riforma vada in porto) avrebbero una rappresentanza poco più che simbolica nel nuovo Parlamento. Non che le cose cambierebbero a marzo o ad aprile, ma se non altro verrebbero risparmiate al Paese da qui alla prossima primavera convulsioni tali da affossarlo definitivamente.

Un ragionamento semplice diventa complicato quando ognuno gioca una sua partita. Complice il Cavaliere che li ha stimolati a prevedere lo spacchettamento del Pdl (casa buona e giusta e fosse avvenuta ordinatamente e seguendo ragionamenti politici lineari e fondati), i capicorrente si sono inventate opzioni asimmetriche per tentare di salvaguardare se stessi ed i propri sostenitori. Così il Pdl è diventato un contenitore di velleità e di risentimenti che nessuno più è in grado di arginare. Altro che federazione dei moderati o degli incazzati. Ci mancava la “Rosa tricolore”, un’estrema follia o un’ultima bufala? Comunque la si pensi, può accadere che nel clima di cupio dissolvi si imbastiscano le ipotesi più bizzarre e perfino ridicole, ma che poi tanto ridere non fanno. Me ne viene in mente una. Sembra che Pdl e Lega abbiano ritrovato l’antico feeling sullo scambio tra semipresidenzialismo e Senato federale. Non so se è vero; è comunque plausibile. Ma qualcuno si è chiesto se la forma di governo può essere davvero cambiata con un semplice emendamento e se un ramo del Parlamento può essere definito “federale” posto che la forma di Stato federale non è?

Ecco, quando mancano le idee tutto è possibile. Perfino che la farsa si trasformi in tragedia. Per il Paese, naturalmente.

di Gennaro Malgieri.

Afghanistan, un’altra vittima: muore carabiniere trentenne.



Ennesimo lutto per il contingente italiano in Afghanistan: il carabiniere scelto Manuele Braj, trentenne di Galatina (nel Leccese), effettivo al 13° Reggimento “Friuli-Venezia Giulia” è morto e altri due suoi commilitoni sono rimasti feriti in seguito a un’esplosione avvenuta in un campo addestrativo della polizia afghana, in Adraskan, nell’Afghanistan occidentale. Alle ore 8,50 locali (6,20 italiane), spiega una nota dello Stato maggiore della Difesa, all’interno del locale campo addestrativo della polizia afghana, si è verificata un’esplosione che ha interessato una garitta di osservazione installata nei pressi della linea di tiro del poligono, coinvolgendo i tre militari dell’Arma appartenenti al Police speciality training team.


lunedì 25 giugno 2012

Il fallimento del sistema denaro: una opportunità?



«Un uomo stava camminando nella foresta quando s’imbattè in una tigre. Fatto dietro-front precipitosamente, si mise a correre inseguito dalla belva. Giunse sull'orlo di un precipizio, ma per fortuna trovò un ramo sporgente di un albero a cui aggrapparsi. Guardò in basso, e stava per lasciarsi cadere, quando vide sotto di sé un'altra tigre. Come se non bastasse, arrivarono due grossi topi, l'uno bianco e l'altro nero, che cominciarono a rodere il ramo. Ancora poco e il ramo sarebbe precipitato. Fu allora che l'uomo scorse una fragola matura. Tenendosi con una sola mano la colse e la mangiò. Com'era buona!».
Koan Zen

di Edoardo Zarelli
prefazione al volume Sull'orlo del baratro di Alain de Benoist, Arianna editrice

Un tempo si diceva che il battito d’ali di una farfalla in Polinesia poteva provocare una catastrofe nell’emisfero opposto. Era una classica iperbole della complessità, per esprimere il concetto che l’ecosistema Terra è integrato e ogni sua componente è interdipendente. Nel sistema mondo capitalista, l’iperbole si è realizzata patologicamente in economia, attraverso il denaro che, essendo virtuale, non conosce i limiti del contesto fisico ambientale. Enormi masse di denaro si spostano ogni giorno, ogni ora, ogni minuto da una parte all’altra del mondo senza trovare ostacoli. In un mondo integrato e globale, la spregiudicatezza locale nell’elargizione di mutui ipotecari – per restare alla nostra metafora – può avere conseguenze devastanti in ogni angolo del Pianeta.

Quella in corso, tuttavia, è solo la più recente e ampia versione di una crisi strutturale, che sussegue ad altre degli ultimi anni montando con irreversibile compulsione: bancarotta del Messico nel 1996, tracollo delle "piccole tigri" asiatiche nel 1997, "subprime" americani nel 2008; quindi è rimbalzata in Europa, provocando il default dell’Irlanda e della Grecia, poi, come un’onda di ritorno, ha colpito di nuovo gli Stati Uniti, mentre in Europa le defaillance irlandese e greca hanno intaccato il Portogallo e la Spagna, e hanno aggredito l’Italia e oggi, probabilmente, tutto il vecchio continente. Una crisi, insomma, che non può essere governata, perché segna il punto d’arrivo di un modello di sviluppo basato sulle crescite esponenziali. In tal senso, come si fa ad uscire dalla economia debitoria – leggi “finanziarizzazione dell'economia” – senza uscire anche dall'economia della crescita? La crisi non si limita ai comportamenti criminali di un manipolo di speculatori; le sue cause strutturali, sistemiche, sono da individuare in una crescita smisurata e nel conseguente ricorso a vari tipi di indebitamento: finanziario (derivati, obbligazioni, titoli azionari mobilitati per un valore totale otto volte superiore al PIL reale), monetario (il denaro emesso è dodici volte il PIL mondiale), pubblico (sia quello contratto dai vari Stati con altri Stati, sia quello verso i propri cittadini-risparmiatori), privato (crediti al consumo, carte di credito ecc.).

Via gli speculatori, quindi? Certo, ma di fatto non ci sarebbero grossi cambiamenti, perché anche l'azienda presso cui andiamo a lavorare, l'amministrazione comunale del posto in cui abitiamo, la locale azienda sanitaria, il fondo che gestisce la nostra pensione, la banca emettitrice del nostro bancomat e l'agenzia di Stato che versa il sussidio di disoccupazione al nostro vicino cassaintegrato sono da tempo, in un modo o nell'altro, indebitati. Tutti avevano fatto conto ("aspettativa", si dice in economia) di riuscire in futuro a guadagnare – facendo profitti, riscuotendo tasse, realizzando interessi, vendendo immobili e "cartolarizzando" il Colosseo... – più di quanto avevano ricevuto in prestito. Credevano, cioè, nella chimera di una crescita economica esponenziale e senza fine. Un calcolo tragicamente sbagliato. Da tempo – dieci, venti anni, e c’è chi dice trenta – le economie occidentali sono in crisi di realizzo, il loro tessuto produttivo non è più in grado di riprodurre guadagni tali da riuscire a mantenere gli standard dei consumi privati e pubblici. Per mascherare questo fallimento e allontanare il declino, le hanno tentate tutte: la leva finanziaria, i titoli tossici, il signoraggio del dollaro, oltre, ovviamente, al vecchio trucco di stampare carta moneta. Niente: nonostante le continue invocazioni e i lauti sacrifici umani, la "santa crescita" non arriva, e non arriverà mai più, almeno per chi è da questa parte del mondo.

I debiti nelle economie industriali mature, a partire dagli Stati Uniti (il Paese maggiormente debitore, al mondo) hanno cominciato a crescere già a cavallo degli anni '70 e '80 del secolo scorso. L'immissione di crediti si è resa necessaria, perché si erano inceppati i normali meccanismi di profitto-accumulazione-investimenti-riproduzione fino a quel momento garantiti dai tradizionali cicli economici produttivi industriali. L'idrovora dell'espansione, dello sviluppo e della crescita è insaziabile. L'intensificarsi delle crisi (non solo finanziarie) rende sempre più stringente il dilemma: continuare a inseguire il benessere attraverso la crescita dei beni e dei servizi immessi sul mercato, pur sapendo che i costi ambientali e sociali per la maggior parte delle popolazioni della Terra superano di gran lunga i benefici, oppure cambiare rotta usando strumenti di riferimento diversi dal dettato economicista? Non è il caso di cominciare a domandarci se non sia una solenne sciocchezza pensare soltanto agli aumenti del PIL? O, addirittura, se non ce la faremmo lo stesso a cavarcela – e magari anche meglio – con una "economia in contrazione", cioè producendo, comprando e vendendo non molto di più di quanto ci è necessario per vivere? Un’economia "stazionaria", come la virtuosa ciclicità naturale insegna.

La parola "crisi" in cinese, composta nei suoi ideogrammi, può essere interpretata abbinando il concetto di "crisi" con quello di "opportunità". Si può quindi uscire dall'economia del debito (cioè da quell’economia che pone gli interessi del capitale al di sopra di quelli del lavoro e della vita stessa delle persone e dell'ecosistema terrestre) e da tutto ciò che ne deriva. È questo, il vero recinto di pensiero da cui nessuno riesce a uscire. Le vecchie ricette keynesiane non hanno realmente più margini di applicazione, in una crisi strutturale di queste dimensioni e di questa qualità. È ormai chiaro che le risposte possono venire solo uscendo dalle regole e dai dogmi del mercato. Dovremmo pensare a un altro tipo di ricchezza, a un altro tipo di benessere, a un altro modo di lavorare e a un altro modo di relazionarsi, tra le persone, che non sia quello che passa attraverso il portafogli.

In tal senso, diventa realistico parlare di post-crescita, se si indica la necessità è l’urgenza di un’inversione di tendenza rispetto al modello dominante dello sviluppo e della crescita illimitati.

La società della crescita non è auspicabile per almeno tre motivi: dispensa un benessere materialistico illusorio, incrementa le disuguaglianze e le ingiustizie e non offre un tipo di vita filosoficamente o religiosamente giusto, conviviale e comunitario. È una "antisocietà", malata di ansia di ricchezza, di egoismo e di utilitarismo. Il miglioramento del tenore di vita, di cui crede di beneficiare la maggioranza degli abitanti dei Paesi "sviluppati" è un'illusione; indubbiamente, molti possono spendere di più per acquistare beni e servizi mercantili, ma dimenticano di calcolare una serie di costi aggiuntivi in forme diverse, non sempre monetizzabili, legate al degrado – non quantificabile, ma subìto – della qualità della vita (aria, acqua, ambiente): ad esempio, le spese di "compensazione" e di riparazione (farmaci, trasporti, intrattenimento) imposte dalla vita moderna o determinate dall'aumento dei prezzi di generi divenuti rari (l'acqua in bottiglie, l'energia, il verde...). Lo stesso criterio di “qualità della vita”, disponendo come principio essenziale, per una fattiva controtendenza, il reincantamento del mondo su principi certi inerenti alla sacralità del vivente e l’irriducibilità della condizione esistenziale dell’uomo come parte consapevole del cosmo, è oramai ostaggio del nichilismo individualista, che affoga nell’inautenticità della mercificazione universale. Un’inversione di tendenza si rende quindi necessaria, per il semplice motivo che l'attuale modello di sviluppo è ecologicamente insostenibile, ingiusto e incompatibile con gli equilibri omeostatici della natura: esso porta con sé, sulla scia dei Paesi ricchi, perdita di autonomia, alienazione, nichilismo pragmatista, aumento delle disuguaglianze sociali e dell'insicurezza personale e comunitaria.

Occorre allora tracciare un percorso che ci conduca verso un nuovo immaginario, un paradigma alternativo, un’originale prospettiva meta politica. È questo, l'orizzonte di un'altra economia, giusta e sostenibile, cioè comunitaria; è questo, il sostrato materiale di un principio universale di giustizia internazionale: l'autodeterminazione dei popoli.

In senso generale, se in ogni luogo c’è un centro del mondo possibile, è necessario che gli uomini tornino a essere abitanti del loro territorio, riprendano cioè in mano la questione ecologica e spirituale della loro sopravvivenza, dal momento che è oramai minacciata nella sua stessa sostanza dai meccanismi razionalistici, che si insinuano a livello cellulare fino al fondamento stesso del vivente. In questo orizzonte, l’esigenza identitaria va politicamente reinterpretata come energia costruttiva per la crescita della coscienza del luogo e per l’affermazione di modelli di sviluppo autocentranti, fondati sulle peculiarità socioculturali, sulla cura e la valorizzazione delle risorse locali – territoriali, cioè ambientali e quindi produttive e sostenibili – e su reti di scambio complementari e reciprocitarie, invece che gerarchiche, fra entità locali. Il principio di sussidiarietà deve partire dall’entità fondamentale della comunità naturale (la famiglia) e delegare alle entità superiori solo ciò che non è assolvibile dal livello fondamentale, autonomo e libero, e quindi coeso e comunitariamente partecipe dell’organismo complessivo. Allora l’uomo si sentirà parte di una comunità, protetto, e quindi avrà verso di essa un comportamento sobrio, responsabile e consapevole.

Si vede subito, quali sono i valori prioritari da far prevalere su quelli oggi dominanti: la sacralità del vivente sulla mercificazione; l'altruismo sull'egoismo; la reciprocità sulla competizione; il piacere ludico e relazionale sull'ossessione del lavoro; l'importanza della vita sociale sul consumo; il gusto del bello, del bene e del vero sull'efficientismo pragmatico. Il problema è che i valori utilitaristici attualmente dominanti sono pervasivi, perché suscitati e stimolati dal sistema, che essi stessi, a loro volta, contribuiscono a rafforzare. La scelta di un'etica personale diversa, come quella della sobrietà volontaria, può incidere sull'attuale tendenza e minare alla base l'immaginario del sistema. Senza una sua contestualizzazione partecipativa, però, il cambiamento rischia di rimanere limitato al livello della coscienza individuale. È necessario un nuovo paradigma, che mostri in modo persuasivo l’indispensabilità di un mutamento epocale sul piano reale: culturale, sociale ed economico. Costruendo delle identità comunitarie tese al bene comune e alla ciclicità della natura, si può uscire dall'artificio vettoriale e suicida della modernità.

domenica 24 giugno 2012

Ernst Jünger nel grembo segreto della madre terra.


Ernst Jünger
All’inizio del De anima, discutendo le concezioni dei pensatori presocratici che ponevano a principio di tutte le cose o l’acqua (Talete) o l’aria (Anassimene) o il fuoco (Eraclito), Aristotele constata: “Tutti gli elementi hanno avuto un avvocato difensore, tranne la terra”. Nemmeno Aristotele, tuttavia, intende prendere le parti del più povero degli elementi. Per oltre duemila anni la tradizione razionalistica occidentale ha lasciato la terra – fredda, secca, ricettacolo delle determinazioni materiali, sensibili, inferiori, e perciò svalutate rispetto a quelle nobili ed elevate dello spirito – senza avvocati.

Questo lungo abbandono è stato interrotto nel Novecento da tre eminenti difensori: Heidegger, Schmitt e Jünger. Il primo ha valorizzato la terra come categoria filosofica nel saggio L’origine dell’opera d’arte (1935/36). Il secondo ha messo in luce il radicamento terrestre dell’uomo e del diritto nel racconto Terra e mare (1942), scritto per la figlia Anima, e nel trattato sul Nomos della terra (1950). Il terzo ha riabilitato la dimensione ctonia e tellurica dell’Essere nel saggio Al muro del tempo, che fu in parte tradotto da Evola e che ora Adelphi pubblica integralmente in una superlativa versione di Alvise La Rocca e Agnese Grieco, curata da Roberto Cazzola (pagg. 283, lire 34.000).

Si tratta, dopo Il lavoratore, del più importante testo speculativo di Jünger. Uscì nel 1959, alla fine di un “decennio filosofico” di intense riflessioni e straordinaria produttività, ma segnato dalle insistenti visite dell’”angelo della malinconia”. A descrivere tale situazione ricorrono nei suoi diari due parole: tristitia, cafard. In una lettera del 1958 di Gretha, la prima moglie, si legge: “Le depressioni perdurano. È un continuo girare in circolo su se stesso, che coinvolge praticamente tutto… Una pesantezza plumbea grava su lui e sulla casa… Non so che ne sarà di tutto ciò… Comunque, poco o nulla si può cambiare. Posso solo tentare di arginare queste ondate di tetra malinconia”.

Michael Klett, il suo editore, ricorda che “per un anno intero si alzava la mattina e, vestito come per andare in società, passava la giornata seduto in poltrona con lo sguardo fisso davanti a sé”. Per uscirne, a volte si metteva a osservare intensamente un fiore; oppure marciava per ore e ore nella pioggia, nel vento o nella neve, fino allo stremo; e si sottoponeva a una regola di vita monastica. Al muro del tempo sgorga dunque da un abisso. Ma la scrittura converte il de profundis in audaci slanci speculativi. Che cosa sono il tempo, la storia, il destino? Come può l’uomo, che li attraversa e ne è attraversato, conferire loro un barlume di intelligibilità? Inanellando pensieri e ragionamenti che spaziano da un capo all’altro dello scibile, dall’ astrologia alla metafisica, dalle scienze naturali alla storiografia, dal mito alla filosofia della storia e alla teologia, Jünger scruta il divenire del cosmo e i suoi ritmi per determinare il senso dell’apparizione principesca dell’uomo. Che posto occupano nell’evoluzione del Tutto le res gestae, le magnifiche sorti e progressive? Jünger guarda alla storia del genere umano come a un capitolo della storia della terra: “rinaturalizza” la storia, riporta il tempo della vita umana al suo letto geologico e considera l’umanità come un’efflorescenza della crosta terrestre.

Ad aprire questa prospettiva è l’astrologia. Non tanto per il preteso influsso degli astri sulla nostra vita, ma perché l’astrologia ci familiarizza con le rivoluzioni celesti e i cicli della terra, ristabilisce un collegamento – occultato dalla civilizzazione tecnica – con il ritmo del grande orologio primordiale. Il tempo e la storia dell’uomo eccedono, è vero, la naturalità, eppure affondando in essa le loro radici.

E se la comparsa del genere umano rende unica la terra, osservato dalle immense distanze cosmiche con cui l’astronomia ci sgomenta esso appare come un breve respiro della natura. Se, come insegna Vico, la storia è un factum, un prodotto dell’uomo, è altrettanto vero che quest’ultimo è parte della terra, un brulichio che anima la superficie del globo.

Proprio nell’anno di pubblicazione dell’opera, Jünger diede vita a un progetto che lumeggia questo suo sforzo speculativo. Con Mircea Eliade fondò e diresse fino al 1971 la rivista Antaios, che ambiva a fornire una “mitografia delle forze cosmiche”. Essa raccolse una straordinaria serie di indagini sul mito, la religione, l’arte, la cultura, sotto il patrocinio di Anteo, il gigante che diventava invincibile quando poggiava i piedi sulla Madre terra, e che Eracle riuscì ad uccidere solo sollevandolo dal suolo.

La Terra è dunque il grembo che genera l’uomo, il fondo da cui egli trae le sue forze ed energie, la nutrice che lo alimenta e lo protegge. È una sorta di “trascendenza naturale” che fa da contrappeso alla Tecnica, quando quest’ultima diventa fattore di nichilismo, cioè quando consuma ed erode le risorse simboliche e naturali dell’uomo, provocando impoverimento, diminuzione, perdita.

A rigore, dal punto di vista della Tecnica e del Lavoratore non si dà nichilismo: “Semplicemente si scorge il Nuovo e vi si prende parte”, senza voltarsi indietro e preoccuparsi di che cosa ne derivi, un’edificazione o una distruzione. Qui invece la prospettiva è mutata: le trasformazioni e le accelerazioni cui la Tecnica sottopone l’uomo appaiono sotto il segno dei prossimi Titani, sono prodromi di una nuova età del ferro sfavorevole allo spirito. Qui “Dio si ritira” (L. Bloy), e lo svanire della fede, la sparizione dell’Antico, non lascia come risultato il nulla, bensì “un vuoto, con la sua potenza di risucchio”, dunque un’inquietudine e un bisogno. È quanto occupa le ultime riflessioni jüngeriane, le Prognosi per il XXI secolo (ora nel primo supplemento dei Sämtliche Werke, Klett-Cotta, pagg. 624).

Eppure, come in Oltre la linea, Jünger guarda con ottimismo alla transizione verso la nuova epoca, fiducioso che lo spirito non soccomberà. E coniuga la dottrina gioachimita dei tre Evi storici, del Padre, del Figlio e dello Spirito, con l’antica concezione astrologica, basata sulla precessione degli equinozi, secondo cui dopo l’Età dell’Ariete e quella dei Pesci entreremmo nell’Era dell’Acquario, che sarà “una grande epoca dello Spirito”.

Si capisce allora la conclusione cui Jünger approda: vero interlocutore della Terra non è l’intelletto con i suoi titanici progetti, ma lo Spirito come potenza cosmica. E si capisce il temerario intento segretamente sotteso a tutta l’opera: risalire all’indietro le tappe che Comte aveva assegnato allo sviluppo del sapere umano, dalla scienza alla metafisica fino a ritrovare la religione e il mito, con le loro potenti immagini.


sabato 23 giugno 2012

Berlusconi: Uscire dall'euro non è una bestemmia.


La soluzione principale alla crisi sarebbe che la Germania si convincesse che la Bce debba diventare una banca di garanzia



“Non credo che sia una bestemmia l’ipotesi che l’Italia esca dall’euro e torni alla propria moneta nel caso l’euro non abbia alle spalle una Bce che faccia la banca di garanzia ed emetta euro".
Lo ha affermato Silvio Berlusconi intervenendo alla presentazione del libro “Nel cuore dell’Impero. L’America di Barack Obama” di Gianstefano Frigerio,

"Auspichiamo che Monti sappia far valere la forza economica dell’Italia e faccia una pressione affinché la Germania possa ammorbidire la sua posizione e arrivare ad una Europa che non si disintegri e a una moneta che regga rispetto a quelle mondiali. Io mi sono battuto contro la politica di rigore della Germania, che avvelena l’economia. Sono contro la Tobin tax, che si può attuare solo se tutti sono d’accordo, altrimenti i capitali si spostano in Svizzera.
L’unica soluzione è che l’euro sia sostenuto da un governo centrale europeo e da una Banca centrale che faccia da garante. Oggi l’emissione dei titoli del debito pubblico italiano è al 6%
mentre quelli del Giappone sono all’1%. Ci sono investimenti nei titoli di Stato giapponesi visto che gli investitori sanno che il Giappone dà delle garanzie stampando moneta, come fa la Fed americana.
L’alternativa è che gli Stati ritornino alla propria moneta nazionale. Non sarebbe auspicabile ma ci sono dei vantaggi perché da quando c’è l’euro non ci sono più le svalutazioni, mentre avere una propria moneta consente con una svalutazione competitiva di aumentare le esportazioni e non ci sarebbero ripercussioni sul mercato interno. Non bisogna aver paura di una moderata inflazione. Negli anni ’80 avevamo un’inflazione a due cifre, ma ci sono stati aumenti di consumi e la disoccupazione era al minimo.

La Germania si deve convincere che la Bce deve fare la banca di garanzia, pagare i titoli emettendo euro.
Se la Germania non dovesse, si potrebbe ipotizzare l’uscita dall’Euro di Berlino. Ho parlato con alcuni esperti tedeschi che sarebbero favorevoli."

L'Europa ha venduto l'anima ai banchieri.



Siamo prigionieri di politici che hanno rinunziato al loro ruolo per permettere ai banchieri di distruggerci come «Nazione», come «Stato», come «Popolo» attraverso un unico strumento, quello finanziario.

Sono convinta che della nostra civiltà, italiana, francese, tedesca, di quella di tutti i Popoli d’Europa, non rimarrà nulla, sopraffatta dalle invasioni africane, musulmane, cinesi, ma soprattutto dalla volontà di ucciderci che anima i nostri governanti. I banchieri ne sono lo strumento più rapido e più spietato.

Non è catastrofismo. Il libro Dopo l’Occidente , che ho presentato ieri alla Libreria Feltrinelli di via Orlando a Roma, con gli amici Barbara Palombelli e Giordano Bruni Guerri, è stato scritto anche con una segreta, disperata speranza: che ciò che affermo non avvenga; che parlandone, discutendone, mettendo il quadro davanti agli occhi di tutti, qualcuno sia spinto ad agire per impedirlo. Saremmo ancora in tempo, infatti, se domani, non più tardi di domani, l’Italia desse il segnale della ribellione al suicidio, della volontà di riappropriarsi di se stessa, della propria identità, della propria cultura, della propria storia, quella storia attraverso la quale siamo riusciti con tanta fatica e tanto coraggio a diventare liberi, liberi del dominio papale, del dominio austriaco. Liberi, liberi, liberi, ma vi rendete conto? Come si è potuto pensare di far ritornare gli italiani ad obbedire agli stranieri? Chi ha potuto credere che gli italiani, e non soltanto gli italiani, ma tutti i popoli d’Europa non sarebbero morti, morti nell’anima, prima ancora che nelle proprietà e negli affari, così come appaiono oggi, nel trovarsi prigionieri e fustigati di volta in volta da un tal ignoto belga, da un talaltro ignoto tedesco, sudditi di un impero surreale, creato a tavolino da quei pochi potenti che aspirano al governo mondiale e che debbono necessariamente perciò distruggere le nazioni, i singoli popoli.

L’Europa unita non esiste e non può esistere salvo che inducendo i popoli alla morte politica e civile; facendoli guidare, dominare da banchieri nel nome del denaro, della moneta. Oggi ne abbiamo avuto l’ennesima prova. La Borsa va male, come al solito, o perfino peggio del solito. Tutti quelli che credevano e speravano che in base ai risultati delle elezioni in Grecia, interpretati come una risposta «pro euro», finalmente la Borsa avrebbe cominciato a dare qualche segnale positivo, esprimono il proprio disappunto come se davvero la catastrofe provocata dall’unificazione europea potesse essere annullata con il grido di sottomissione emesso dalla vittima all'ultimo respiro nel momento in cui il carnefice sta per stringerle definitivamente il cappio al collo. I greci hanno appunto detto di sì perché avevano il cappio al collo. I governanti, politici e banchieri, che esultano per questo risultato, si rivelano per quello che sono: ripugnanti usurai che la penna di Balzac non sarebbe sufficiente a descrivere.

La cosa più tragica, poi, è che non sono soltanto avidi usurai: tutti i banchieri, salvo le rare eccezioni di coloro che hanno accumulato grandissime ricchezze riducendo sul lastrico milioni di persone, sono di mediocrissima intelligenza e commettono enormi errori nella loro cupidigia come dimostrato dalle crisi di cui stiamo pagando il conto dal 2008 a oggi. Non sono stati forse i banchieri a scrivere il trattato di Maastricht, capolavoro d’ignoranza e di falsità, a progettare la moneta che ci ha portato al disastro?

Non c’è nulla di più vergognoso e stupido che mettere a capo delle istituzioni dei banchieri. Dobbiamo trovare il modo per liberarcene.

di Ida Magli.

venerdì 22 giugno 2012

L'Islam radicale? Raccoglie l'eredità di comunisti e nazisti.



Quali sono stati i due movimenti politici più importanti che negli ultimi due secoli si sono opposti con maggior determinazione all’avvento della modernità laica ed edonistica rappresentata dal capitalismo? Non c’è dubbio: il comunismo e il nazionalsocialismo.

È la tesi di Ernst Nolte, il quale però ora aggiunge alla lista un terzo nemico della società aperta, l’islamismo nel nuovo saggio Il terzo radicalismo. Islam e Occidente nel XXI secolo , Edizioni Liberal, pagg. 341, euro 23.

Venticinque anni fa lo storico tedesco scandalizzò la storiografia mondiale affermando che la causa del nazismo andava ricercata nel comunismo. Con la rivoluzione d’Ottobre il bolscevismo si presenta come un fenomeno mondiale che tenta l’annientamento di ogni borghesia nazionale, cioè uno sterminio generalizzato di classe, dando inizio alla guerra civile europea. Di qui la reazione nazista: allo sterminio di classe viene opposto lo sterminio di razza. Scatta un antagonismo imitativo, la creazione originale produce una copia: il Gulag genera Auschwitz.

Ora Nolte ritorna all’idea della comparabilità tra comunismo e nazismo ponendola quale premessa per la comprensione storica del terzo grande radicalismo avverso alla modernità e all’Occidente: l’islam. Anche l’islam, infatti, è un fenomeno antimoderno perché la sua intima natura è data dalla negazione radicale del progresso volto ad unificare il mondo con lo sviluppo tecnico scientifico iniziato con l’illuminismo e la rivoluzione industriale. Il comunismo, il nazismo e l’islamismo, con diversi intenti, sono risposte «religiose» tese a fermare l’avanzata rivoluzionaria del capitalismo.

Naturalmente va osservato che mentre il comunismo e il nazismo sono nati all’interno dell’Occidente, essendo un prodotto estremo della secolarizzazione, l’islamismo ne è del tutto estraneo. Comunque, a fronte del processo della modernità, definito da Nolte «omogeneizzazione distruttrice dell’identità» e «secolarismo antropocentrico», il comunismo, il nazismo e l’islamismo, «nonostante le profonde differenze», risultano convergenti per «il fondamento comune» dovuto al loro «conservatorismo rivoluzionario». Con questo ossimoro lo storico tedesco afferma che i tre movimenti risultano radicalmente avversi alla modernità, e in questa avversione manifestano la loro dimensione rivoluzionaria; però, nello stesso tempo, esprimono una comune propensione conservatrice perché non accettano l’espansione universale e trasformatrice della società liberale, laica ed edonistica.

Nolte descrive storicamente l’avversione islamica all’Occidente partendo dalla Prima guerra mondiale per giungere fino ai nostri giorni. La sua attenzione è rivolta in modo particolare verso lo Stato d’Israele, definito giustamente la fonte della modernità nel contesto del mondo islamico; mentre del tutto discutibile è la sua distinzione fra antisemitismo e antisionismo, che di fatto riecheggia gli stereotipi propri del terzomondismo islamico. Detto questo, osserviamo, da parte nostra, che la vittoria definitiva del capitalismo sul comunismo ha dissolto ogni vera alternativa storica al capitalismo medesimo. Il comunismo, infatti, era un sistema socio-economico radicalmente opposto perché pretendeva di costituire un mondo superiore rispetto al mercato e alla proprietà privata. La realtà islamica, invece, non ha nulla di tutto questo, non avendo un suo specifico sistema di produzione e di distribuzione della ricchezza, né di organizzazione tecnica delle risorse, vale a dire un sistema che sia congruo al proprio finalismo religioso: il sapere teologico del clero sciita nulla sa della gestione dei pozzi petroliferi. L’islam è radicalmente opposto all’Occidente solo in termini religiosi e politici.
La mancanza di una competizione tra assetti economici opposti e alternativi indica perciò il senso vero della competizione in atto, vale a dire la lotta mortale tra laicità e religione.

L’avanzata della modernità produce degli esiti incontrollabili, come osservò, con straordinaria lucidità, Oriana Fallaci. Ne consegue, purtroppo, la quasi impossibilità di una comparazione tranquilla tra la civiltà occidentale e quella islamica; permane, insomma, quello scontro di civiltà, già rilevato a suo tempo da Samuel Huntington.

(n.d.r. nella foto il Gran Muftì di Gerusalemme, Amin al Husseini)

di Giampietro Berti.

Una vita tecnologica priva di emozioni.



di Marcello Frigeri.

Chissà cosa penserebbe John Stuart Mill dell’uomo contemporaneo se ancora oggi calpestasse il suolo di questa terra. Il filosofo utilitarista vissuto nei primi 70 anni dell’Ottocento, infatti, era un pensatore che credeva fermamente nella bellezza e nella specialità della vita umana. Secondo il suo punto di vista l’uomo era una creazione della natura che nessuna diavoleria meccanica, nessuna macchina creata col fine di sottrarre l’uomo dalle proprie azioni quotidiane, poteva neanche lontanamente eguagliare. La sua vita si svolse interamente durante gli anni d’oro della rivoluzione industriale, dunque Mill subì prepotentemente l’evoluzione della catena di montaggio delle fabbriche, rudimentali agglomerati di ferraglie che compivano azioni, ripetitive e meccaniche, un tempo sbrigate dagli artigiani di bottega. Fu ilperiodo in cui il cielo plumbeo di Londra si ricoprì di un denso e nero strato di inquinamento atmosferico.

Stuart Mill passeggiava per le sue campagne, probabilmente con passo lento e riflessivo, e si fermava a guardare lo skyline grigiastro e fetido della città, poi i campi intorno, tutti quanti deformati e lavorati dall’aratro. “Qui – scriveva dalle colline dello Yorkshire – non potete spingere lo sguardo in una qualunque direzione senza vedere fumo; e le città che, viste in lontananza e specialmente da un’altura, costituiscono in genere gli elementi più belli del paesaggio, qui non sono altro che sorgenti di fumo nero gettato fuori a fiotti da alte ciminiere che sorgono come gli alberi delle navi in un bacino sovraffollato. Non avevo mai visto una città costruita per i suoi tre quarti di fabbriche, costruite a mezza strada tra la caserma e il carcere, ognuna delle quali contribuiva per la sua parte ad annerire il cielo e a rendere disgustosa l’aria che si respirava”. Poi Mill volgeva il pensiero agli uomini della sua contemporaneità, maledicendo il tempo in cui il freddo metallo delle macchine acquisì più valore dell’uomo stesso. Scriveva: “Tra le opere dell’uomo che la vita s’impegna a perfezionare e a abbellire, la prima per importanza è l’uomo stesso. Anche ammesso che fosse possibile costruire case, coltivare grano e combattere guerre per mezzo di macchine, sarebbe comunque una perdita rilevante sostituire con tali automi gli uomini e le donne, che sicuramente sono soltanto un pallido esemplare di ciò che la natura può produrre e produrrà nell’avvenire”.

Al volgere dell’Ottocento, nell’epoca bismarckiana dell’età degli Imperi, Stuart Mill non aveva fatto che descrivere il futuro degenerativo dell’umanità. Non c’è oggi settore della vita in cui la macchina non abbia sostituito la mano e l’inventiva dell’uomo, e la sostituzione dell’uomo con la macchina hacertamente reso più comoda l’esistenza, ma ha tolto a noi il sapore della vita stessa, e probabilmente anche la capacità dell’emozione. Un tempo non troppo lontano il mondo era fatto da “interminati spazi” e “sovrumani silenzi”, e non c’era tecnologia fotografica o aerei computerizzati e ultraveloci che potessero portare a conoscenza dell’uomo sedentario la bellezza del nostro pianeta. Soltanto il viaggio attraverso i pericolosi e inesplorati oceani (anch’essi un universo naturale) o a cavallo, ci dava la sensazione di essere parte del mondo, e non dominatore dello stesso. Chi rimaneva al proprio villaggio (la maggior parte della gente) ripercorreva con l’immaginazione ilracconto dell’esploratore. La terra, in sostanza, era un qualcosa di sconosciuto e misterioso. Oggi non c’è zona del globo che non sia stata sondata, vivisezionata, studiata: non serve più l’esplorazione, l’avventura perpetua, per sapere com’è fatta l’Australia o la criniera di un leone; gli animali esotici sono tutti rinchiusi allo zoo, e alla portata di chiunque (ma dov’è la bellezza della natura nel vedere una tigre in gabbia con una ciotola di metallo tra le zanne?); se le montagne sono prive di neve, si spara quella finta, e il sapere quando si manifesta un acquazzone ha una pretestuosa importanza: programmare i viaggi al mare. Siamo arrivati al punto da non sopportare la pioggia per il semplice motivo che ci si bagna.

In estrema sintesi viviamo la vita senza però vivere ogni suo singolo attimo: a suo modo, infatti, il bisogno incessante di modellare tempo ed esistenza attraverso l’uso della tecnologia, che senza dubbio e con ritmi sempre più frenetici hasostituito le azioni umane, ci ha allontanato dall’essere parte di un mondoche ha sempre avuto le sue regole naturali: là dove un tempo era la natura a dettare i modi del vivere, e l’uomo si limitava a conviverci rispettandola, oggi essa è dominata e manipolata, e l’uomo contemporaneo ha finito con l’essere sempre più ciò che ha e sempre meno ciò che è. Ma che sapore può avere l’esistenza se è tutto qui, a portata di mano? Anche la guerra, che in una certa misura ha la sua filosofia e che comunque è aspetto esclusivo dell’essere umano, è oggi priva delle sue antiche caratteristiche: un tempo nel campo di battaglia ci si affrontava a viso aperto, ed era un contatto tra condannati che dava un senso alla morte o alla paura di morire, e per questo, sempre in una certa misura, si portava rispetto per chi veniva dilaniato dai colpi inferti. In Afghanistan, oggi, la guerra è combattuta dalla Nato per mezzo di droni computerizzati e guidati migliaia di chilometri lontano dalle zone di battaglia. Si pigia un bottone in Texas e muoiono centinaia di uomini a Kabul: così agendo non si percepisce la sofferenza e la tragedia della morte che, perdendo valore, toglie valore anche alla vita. Le attuali società primitive sono la prova provata che l’uomo contemporaneo, con ilmito del progresso, abbia sovvertito il mondo naturale. In queste tribù tutto è magico e sacro, di conseguenza le attività profane che modellano la natura per i bisogni elementari sono, appunto, causa di profanazione, e non hanno senso nella vita di tutti i giorni.

Ci viene detto che queste civiltà primitive sono schiave delle loro stesse credenze. Ma è tanto diverso per noi, che siamo schiavi delle nostre? “Non c’è molta soddisfazione – conclude in uno dei suoi illuminanti passi Mill – nel contemplare un mondo in cui nulla sia lasciato all’attività spontanea della natura, dove ogni zolla di terra in grado di produrre cibo per gli esseri umani sia messa in coltura, ogni distesa fiorita e ogni pascolo naturale arato, ogni animale o uccello non addomesticato per l’uso dell’uomo sterminato come un rivale nella lotta per il cibo, ogni siepe o albero non utile sradicato, e non rimanga quasi luogo dove un cespuglio selvatico o un fiore possa crescere senza essere strappato come erbaccia in nome del progresso”. E qui la sua speranza: “Se la terra è destinata a perdere gran parte della bellezza che le deriva da quelle cose che la crescitaillimitata della popolazione e della ricchezza estirperebbe da essa, al solo scopo di metterla in grado di sostentare una popolazione più ampia, ma non migliore o felice, io spero in tutta sincerità, per il bene dei posteri, che essi si accontenteranno dello stato stazionario assai prima che la necessità ve li costringa”.

Il voler sostituire un’azione naturale con la macchina equivale al voler sostituire la natura con un mondo fittizio e a misura d’uomo (quando in realtà dovrebbe essere l’uomo a misura della natura). Tutto questo è possibile, e lo vediamo soprattutto oggi. Ma ha un senso? Un senso umano, intendo.