Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

martedì 31 luglio 2012

In Ricordo di Giuseppe Santostefano.


Giuseppe Santostefano
Il governo antifascista Rumor, nel luglio del 1970, decise di spostare lo storico capoluogo della Regione Calabria da Reggio a Catanzaro assegnando ad essa la sede dell’Assemblea Regionale. I sindacati e i partiti politici cittadini, tranne il Partito Comunista Italia e il Partito Socialista Italiano, diedero vita ad una rivolta popolare, organizzando per il giorno 15 luglio uno sciopero generale. Alcuni manifestanti, radunati davanti alla Prefettura, furono subito caricati dalle Forze di Polizia. I primi feriti. Nel giro di poche ore la città di Reggio Calabria fu completamente bloccata e isolata. Erette le prime barricate all’imbocco delle strade statali e autostrade. Numerosi ferrovieri aderirono allo sciopero, abbandonando i convogli in maniera tale che nessun treno potesse proseguire la corsa. La stessa sera, poco prima della mezzanotte, i carabinieri ritrovarono in via Logoteta, una traversa di Corso Garibaldi, il cadavere di Bruno Labate, operaio e frenatore delle Ferrovie dello Stato, iscritto al sindacato Cgil. Il primo caduto della rivolta di Reggio. Il sindaco, Pietro Battaglia, fu costretto a tirarsi indietro, consegnando al Movimento Sociale Italiano la guida dei rivoltosi e dare continuità alla rivolta contro un regime definito nemico del popolo reggino. Il 17 settembre dello stesso anno, le Forze di Polizia assaltarono il quartiere Sbarre, roccaforte dei “Boia chi Molla” guidati dal sindacalista della Cisnal Ciccio Franco. Arrestato e deportato nel carcere di Bari. Un altro reggino, Angelo Campanella, quarantacinque anni, autista dell’azienda Municipale di trasporti e padre di sette figli, fu colpito mortalmente da un proiettile sparato dalle Forze di Polizia mentre rientrava a casa. Solo nel marzo del 1971, grazie ai rastrellamenti e alle perquisizioni a tappeto, le Forze di Polizia riuscirono a portare l’ordine in città. Alle elezioni politiche del 1972, i reggini, votarono in blocco il Movimento Sociale Italiano eleggendo Ciccio Franco Senatore. A distanza di un anno, dal trionfo del partito di Giorgio Almirante, i comunisti diedero un segnale della loro presenza politica assassinando uno dei più attivi sindacalisti della Cisnal, Giuseppe Santostefano. Il 31 luglio del 1973, durante un comizio del Partito Comunista Italiano, Giuseppe Santostefano, cinquant’anni anni, fu aggredito violentemente da un gruppo di militanti della sinistra extraparlamentare. Morì poche ore dopo in ospedale senza mai riprendere conoscenza. La sua morte sancì la definitiva sconfitta per la città di Reggio.


lunedì 30 luglio 2012

"AMORE E CORAGGIO": RECENSIONE DEL DISCO DEGLI NSP...


"Amore e coraggio" è il titolo del primo album degli Nsp. Un ottimo lavoro, autofinanziato e portato a termine dopo anni di sforzi e di sudore dalla formazione romana. Nove brani e un buon ritmo, per un disco che certamente farà parlare. Una nuova linfa per la musica identitaria, nel solco della tradizione rock, con sonorità accattivanti, una buona qualità di registrazione, buona esecuzione degli strumenti e buona voce. Elementi che non si trovano troppo spesso nei lavori che nascono dal basso e che solitamente vantano grande passione, ma qualità approssimative e dozzinali. Non è il loro caso.

Dirompente il primo brano ("Lma"), che molti avevano già sentito in rete o dal vivo nei concerti degli ultimi anni (quello del luglio 2009 a Casaggì, nel quale si esibirono gli Nsp, ce li fece piacere subito). Notevoli anche le altre canzoni, con buona varietà di temi e un excursus nella storia e nella identità militante della propria comunità di riferimento ("Castrum" e "Solstitium"). Da sottolineare "La mia gente", caratterizzata da un testo di livello, che meglio non poteva esprimere la tensione ideale ed emotiva che sta alla base della nostra scelta di vita. Bella anche "Cinquantatre" dedicata a Trieste e ai moti di rivolta per l'italianità e  "Renuncio", dedicata ad Evita Peron. Un plauso particolare per "Stornello". Simpatica "Archeofà" e orecchiabile "Senza Nome", con buona disposizione di strofe e rime. In tutti i brani e da sottolineare la cura negli accordi e nella sovrapposizione degli strumenti, che non fa mai perdere di livello all'insieme del suono.

Ciò che conta di chi fa musica identitaria, poi, è la condotta quotidiana, la capacità di mettere in pratica quei concetti su se stessi, la volontà di far vivere quelle note nei gesti di tutti i giorni. E' anche per questo che consigliamo questo disco: perchè conosciamo chi lo ha realizzato.

Un grande in bocca al lupo agli Nsp.

Tratto da Casaggì Firenze.

domenica 29 luglio 2012

I progressisti in nome dei gay mistificano anche Platone.



L’Italia - si dice - è sull’orlo della bancarotta economica e il Pd in che modo si candida a governarla? Azzuffandosi sulle «nozze gay». Se questa torrida estate non fosse tragica, sarebbe comica. Perché perfino l’incolpevole Platone viene trascinato a sproposito nell’infuocata querelle che in queste ore ha visto polemizzare la Bindi, Bersani, la Concia e Casini. È capitato sulle pagine di D, il magazine di Repubblica. Nella sua consueta rubrica, Umberto  Galimberti critica il fatto che scienza, psicoanalisi, religione e diritto - a suo avviso - discriminano l’omosessualità considerandola «esclusivamente sul piano sessuale» (a differenza dell’eterosessualità).  A questo punto Galimberti sostiene che Platone combatté proprio questo «pregiudizio negativo nei confronti degli omosessuali» e per dimostrarlo si lancia in un’azzardata escursione nel «Simposio». Da cui cita un passo dove - a suo avviso - «Platone lega opportunamente la condanna dell’omosessualità a un problema di democrazia, a cui forse noi, a causa del perdurare dei pregiudizi, non siamo ancora giunti».

Ora, fare di Platone un teorico e paladino della «democrazia» (oltretutto una democrazia moderna e libertaria) è - a dir poco - surreale. Per sorriderne non occorre neanche aver letto Karl Popper (o il libro di Franco Ferrari, «Platone. Contro la democrazia», Rizzoli).

PAUSANIA, CHI ERA COSTUI?

Ma ancora più sconcertante è vedere attribuito a Platone un pensiero che nel «Simposio» è espresso da Pausania. Si deve infatti sapere che in questo dialogo vari personaggi intervengono esprimendo il loro diverso punto di vista su Eros. La voce con cui si identifica Platone ovviamente non è affatto quella di Pausania o quelle di Aristofane e di Agatone, ma - come di consueto - quella di Socrate che interviene dopo tutti gli altri e che demolisce tutti i discorsi che lo hanno preceduto. In sostanza Socrate guida gli ascoltatori a scoprire che l’amore non è ciò che loro credevano, ma piuttosto l’attrazione che l’anima umana ha per la perfezione e per l’Assoluto (qui si capisce perché il cristianesimo dialogò subito, non con le religioni, ma con la filosofia greca, che vedeva pervasa dell’attesa del Logos divino).

Se poi consideriamo l’intervento di Pausania - quello che Galimberti erroneamente presenta come pensiero platonico - è assai dubbio che si occupi di omosessualità, ma di certo si può dire che è il discorso più misogino che lì risuoni perché attribuisce l’amore per le donne all’Eros dell’«Afrodite volgare» (e lo depreca), mentre l’ Eros dell’«Afrodite celeste» è esclusiva dei maschi. È davvero esilarante che su un magazine femminile quale è  D venga citato come esemplare, edificante e «democratico» un discorso di quel tenore dove Pausania esalta il genere maschile perché «per natura più forte e più dotato di cervello».

ALTRO CHE PERBENISTA

Se poi volessimo sapere cosa veramente Platone pensava e cosa ha scritto sulla pratica omosessuale, scopriremmo pagine che oggi, sulle colonne del giornale di Scalfari e Galimberti, verrebbero subito condannate come terribilmente «omofobe».

Infatti nelle «Leggi», Platone critica quanti hanno «corrotto la norma antica e secondo natura relativa ai piaceri sessuali non solo degli esseri umani, ma anche degli animali». E spiega: «Bisogna considerare che, a quanto pare, il piacere sessuale fu assegnato secondo natura tanto alle femmine quanto ai maschi affinché si accoppiassero al fine di procreare, mentre la relazione erotica dei maschi con i maschi e delle femmine con le femmine è contro natura e tale atto temerario nasce dall’incapacità di dominare il piacere».

Come si vede qui Platone è perfino più «rigorista» della Chiesa per quanto riguarda l’unione dell’uomo e della donna al cui congiungimento fisico la teologia cattolica riconosce anche il fondamentale valore unitivo, cioè dell’amore fra i coniugi. In altri passi delle «Leggi», Platone condanna di nuovo i rapporti sessuali diversi da quelli fra uomo e donna adulti, invitando ad attenersi alle leggi di natura e a cercare sempre e solo l’acquisizione delle virtù. Il filosofo greco sembra considerare perfino come un «pericolo», per l’ordine sociale, gli «amori di donne al posto di uomini e uomini al posto di donne» perché «innumerevoli conseguenze sono derivate agli uomini privatamente e a intere città». Del resto Platone - decisamente lontano e opposto alla mentalità epicurea -  indicando l’esempio di un famoso atleta, Icco tarantino, che per vincere alle Olimpiadi si astenne da tutti i piaceri durante il lungo allenamento, invita a incitare i giovani a fare altrettanto e a «tener duro in vista di una vittoria molto più bella» ovvero: «la vittoria sui piaceri». Platone - con buona pace di coloro che fantasticano di un’antica Grecia libertaria e accusano la Chiesa Cattolica di aver portato illiberalità e sessuofobia - arriva addirittura a chiedere alle leggi di prescrivere la virtù: «La nostra legge deve assolutamente procedere dicendo che i nostri cittadini non devono essere peggiori degli uccelli e di molte altre bestie che, nati in grandi gruppi, vivono fino alla procreazione non accoppiati, integri e puri da unioni sessuali, ma quando giungono a questa età, congiuntisi per proprio piacere il maschio alla femmina e la femmina al maschio, vivono il resto del tempo in modo santo e corretto, attenendosi e saldamente ai primi patti d’amore; dunque essi (i cittadini) devono essere migliori delle bestie».

Questa la prima legge (dove si condannano anche i rapporti prematrimoniali e l’adulterio). E «qualora (i cittadini) vengano corrotti», aggiunge Platone, bisogna escogitare «una seconda legge per loro». Ovvero, se proprio alcuni non resistono all’attrazione dei piaceri senza legge «sia presso di loro cosa bella compiere di nascosto questi atti (…), mentre sia turpe il non farli di nascosto». Questo è il Platone vero, quello che racchiude le leggi nell’«ossequio agli dèi, l’amore pe gli onori e il fatto che non ci sia desiderio dei corpi, ma dei bei costumi dell’anima».

Dell’altro Platone, quello di Galimberti, non si trova notizia sui suoi testi. Voglio aggiungere che siccome a quel tempo sotto la categoria di amore andava anche il rapporto fra maestro e discepolo, e siccome questo rapporto poteva scadere (e scadeva) nella pederastia, c’è un passo di Platone (nella Repubblica, il dialogo filosofico, non il giornale) in cui si legge la condanna di questa degenerazione possibile: «tu stabilirai una legge nella città che stiamo fondando, in base alla quale chi prova affetto (erastés) per il suo ragazzo affezionato (ta paidikà), lo ami e lo accompagni e lo tocchi come farebbe un padre con il figlio; con il suo consenso e avendo come fine la contemplazione e la conoscenza del bello. Mai dunque dovrà accadere o sembrare che si vada oltre questi limiti».

LA FAMIGLIA NATURALE

Qualcuno potrà sorprendersi di scoprire questo Platone, perché da tempo si è diffuso il luogo comune che la famiglia eterosessuale (come fondamento della civiltà) e la legge naturale siano un’invenzione del cristianesimo. In realtà la famiglia fra uomo e donna è stata il fondamento istituzionale esclusivo di tutte le civiltà precedenti il cristianesimo e di tutti i popoli. Da sempre. E la legge naturale ben prima del cristianesimo è stata il fondamento della riflessione morale, in modo speciale nell’antica Grecia. Un formidabile saggio di Francesco Colafemmina, «Il matrimonio nella Grecia classica» vuole dimostrare tutto questo con ricchezza di citazioni (sorprendenti) e brillante scrittura. Il libro di Colafemmina (a cui devo tante preziose indicazioni) intende ribaltare «le mistificazioni contemporanee» e ricostruisce «un’etica matrimoniale condivisa fra ellenismo e cristianesimo». Una lettura preziosa in questi tempi di confusione e di ideologia. Una lettura da consigliare a tutti i nostri spensierati politici.

di Antonio Socci.

sabato 28 luglio 2012

Italia? Invidiabile la Spagna al confronto.


Espacio de Las Artes, Santa Cruz (Lanzarote)
di Maurizio Blondet.

Di ritorno dalle Canarie: se devo valutare da quest’angolo della Spagna che ho visto, penso che quel Paese sia meglio attrezzato dell’Italia di fronte alla crisi, e che si solleverà prima di noi. Anche là vige il disprezzo per i politici e la politica; cresce, persino più che da noi, la consapevolezza dei privilegi e del parassitismo delle burocrazie pubbliche, il che è un buon segno divitalità politica della popolazione, che mette sotta accusa i salari sicuri degli statali mentre nel settore privato la disoccupazione è alle stelle. Ma visto come stiamo messi noi, vorrei fare il cambio. Ecco alcuni motivi:

Infrastrutture

D’accordo, durante il boom edilizio (causato dai tassi eccessivamente bassi che l’euro «germanico» ha chiesto per indebitarsi, e dalla banche tedesche, rigurgitanti di capitali, che li hanno offerti in eccesso agli iberici) s’è costruito troppo, ed ora è scoppiata la bolla edilizia. Ma ciò che colpisce, è la quantità e la qualità delle infrastrutture progettate ed attuate dalla «politica». Se i politici spagnoli hanno rubato, non si sono tenuti tutto loro; hanno anche attrezzato il Paese per la modernità. Strade extra-urbane nuove fiammanti a Lanzarote, autostrade a quattro corsie (e gratis) a Tenerife; non una buca nell’asfalto, non un lampione bruciato, e ovviamente non un cartello perforato da gragnuole di proiettili (tipico del folklore in Sicilia e Calabria). Nella capitale Santa Cruz, che è pur sempre una cittadina di nemmeno 230 mila abitanti, grandiosi spazi culturali firmati da archistar (tipico l’auditorium ideato da Calatrava, e lo Espacio de Las Artes dello svizzero Herzog) che possono non piacere, ma testimoniano l’impegno dei pubblici poteri per la cittadinanza, ospitano mostre, biblioteche, teatri.

Due aeroporti che non sono affatto cattedrali nel deserto, anzi frequentatissimi da voli internazionali (arrivano 5 milioni di turirsti – che poi tornano, al contrario di quelli che vengono in Sicilia). Immensi parcheggi sotterranei publici, che da noi non si sono mai fatti perchè «il Comune non ha i soldi» o «il comitato di quartiere si oppone» o non ci si mette d’accordo sulle mazzette. Un sistema-modello di trasporti pubblici: la piccola capitale canaria ha una metropolitana leggera nuova fiammante (del 2004, finanziata da Fondi UE) che tocca tutte le zone che contano, e fa’ capolinea all’Intercambiador: ossia alla grande stazione dei bus («guaguas», nel gergo locale), su sei livelli con scale mobili, da cui si può raggiungere qualunque villaggio dell’isola a prezzi popolari dopo aver lasciato l’auto nel parcheggio sottostante, che basta a 1400 veicoli.

Come dire che questo Interscambiador è una delle installazioni che mi ha più colpito? Fate un confronto mentale con una stazione di corriere o anche dei treni in Italia, dove arrivino e partano, come qui, 3500 bus al giorno: immaginate le cartacce e le cicche per terra, la polvere (e peggio) che si addensa negli angoli, gli odori di urina; immaginate i barboni che dormono sulle panchine, i mendicanti molesti, o i personaggi più loschi e pericolosi che, nelle ore notturne, abitano le stazioni italiane. Immaginate, perchè qui è l’esatto contrario: nella monumentale hall i pavimenti sono lucidi; il bar-ristorante offre bocadillos e tapas invitanti (io ci ho mangiato un pasto completo per 10 euro), anzichè quelle oltraggiose cartilagini di prosciutto risecchito che vengono vendute a peso d’oro nelle nostre stazioni da qualche innomina entità che «s’è aggiudicata l’appalto». I gabinetti pubblici, ovviamente usatissimi dai passeggeri di ogni nazione e livello sociale, sono unospecchio, benchè gratuiti. Non ne ho mai trovato uno reso inservibile con occlusioni di carta igienica cacca e piscio, com’è regola da noi. Misteriosamente, nelle loro pareti mancano del tutto le scritte oscene che tanto rallegrano i cessi pubblici italioti. Miracolo, gli addetti alle pulizie fanno effettivamente i lavoro per cui percepiscono il modesto salario pubblico, e li vedi sempre in giro con scopino e scopa a raccogliere anche una sola cicca.

Immaginate i bus? Come minimo, direte voi, avranno l’aria scalcinata, rotta e bisunta di quelli di Roma (si sa, ci sale tanta gente, il Comune è in rosso), perchè dopotutto parliamo di isole arretrate e marginali di un Paese meno ricco e sviluppato del nostro. Macchè: i «guaguas» sembrano tutti nuovissimi, in perfetto stato di manutenzione, con aria condizionata funzionante. Ogni mattina, prima di partire, passano sotto il lavaggio-auto comunale lì a fianco, alla vista di tutti.

E non basta. Il Cabildo (l’antico Consiglio) ha mandato due emissari a Bruxelles per chiedere soldi per costruire dal nulla una linea ferroviaria. Siccome Madrid ha tagliato i finanziamenti, i due inviati di Tenerife sono andati a chiedere all’Europa di coprire il buco: dopotutto è un progetto europeo, che il Cabildo ha presentato ed è stato approvato in sede UE, e che sarà completato coi fondi europei: esattamente come la giunta della Sicilia o delle altre regioni meridionali, che non riescono ad usare i fondi europei per incapacità progettuale, o se li fanno ritirare per malversazioni (1); o che nemmeno li chiedono, perchè che gusto c’è a fare opere pubbliche su cui non si possono estrarre tangenti perchè Bruxelles ti controlla?

Taccio, per non farla troppo lunga, delle infrastrutture immateriali e culturali; dal Wi-Fi in tutti i bar e ristoranti al museo della Natura, che vale una visita non solo perchè espone parecchie mummie del popolo guancio (i nativi delle Canarie), ma per godersi un esemplare di gestione museale limpida e interessante, con tanto di «laboratori» affollati di scolari che fanno piccole sperimentazioni e imparano facendo, sotto la guida di maestri e maestre. Taccio dell’università di La Laguna, nient’affatto periferica nel sistema di studispagnolo (che il governo sta per rendere più severo, avendo annunciato che il livello di istruzione deve mgliorare). Taccio delle spiagge tutte libere e gratuite, fornite dall’amministrazione cittadina di docce, spogliatoi e Wc. Edella polizia sempre presente e visibile sulle strade urbane ed estraurbane invece che imboscata negli uffici.

A Lanzarote, l’edilizia è basata su un modulo della casa tradizionale elaborato dall’artista locale Manrique, da cui nessun costruttore si discosta con fantasiosi villini da geometra; tale architettura è basata su muri bianchi immacolati, mai bruttati da graffiti e firme di dementi come da noi; dovrei parlare delle auto che si fermano – non rallentano, si fermano – appena fai l’atto di voler attraversare la strada sulle striscie. Perspicua, e per un italiano stupefacente, l’assenza di cumuli di monnezza per le strade, di discariche improvvisate nelle scarpate, e l’assenza di vandalismi tipo cabine telefoniche spaccate e smerdate.

In una parola, vige in Spagna quella civiltà che ormai è un costume in tutta Europa, salvo che in questa Italia fiera del suo sedimento incancellabile divolgarità.

Anche il Re senza tredicesima

Tra le misure per affrontare la crisi del debito statale, il governo Rajoy ha sospeso (ossia tagliato) la tredicesima di tutti i dipendenti pubblici. Anche la sua; anche dei membri del governo, anche dei 350 deputati e dei 266 senatori, non esclusi gli ex parlamentari pensionati. Nessuno l’aveva chiesto al Rey: ebbene, il chiacchieratissimo Juan Carlos s’e tagliato sua sponte di 20 mila euro l’anno l’emolumento, l’equivalente della sua tredicesima. Dunque oggi il Rey, la più alta istituzione dello Stato riceve, 271.842 euro lordi annui; risulta così che un qualunque governatore italiota di regione arraffa più del redi Spagna; il direttore generale della Rai, quel tal banchiere Gubitosi messo lì da Monti, ci costa come due re e mezzo.

Il principe di Asturia, l’erede al trono, s’è tagliato 10 mila euro, in quanto il suo emolumento è esattamente la metà di quello paterno, 135.921 euro. Il capo della Real Casa, che ha il rango e il soldo di un ministro, s’è ridotto anche lui lo stipendio nella stessa proporzione dei membri del governo. Niente a che vedere con quelli che godono i direttori della Real Casa italiana, detta Quirinale, di cui basta ricordare i 2 milioni di euro l’anno, più appartamento e ufficio permanente sul Colle, dell’immarcescibile Gaetano Gifuni.

El Rey de Espana è notoriamente molto criticato per i suoi lussi, per il suo amore delle gonnelle, e per le sue cacce all’elefante in compagnia di una cacciatrice bianca che sarebbe la sua amante. D’accordo, ma a metà luglio, l’84enne Juan Carlos è partito per Mosca ad incontrare Vladimir Putin a capodi una delegazione di ministri e imprenditori iberici. Scopo del viaggio, raccomandare la partecipazione delle industrie spagnole nel progetto di TGV russo (Mosca-San Pietroburgo a 300 all’ora) che costerà 17,5 miliardi di euro. Già, perchè la Spagna possiede il know-how allo stato dell’arte: le sue linee ad alta velocità sono operative già da 25 anni, ed oggi il TGV ispanico (che si chiama AVE, Alta Velocidad Espanola) dispone in Spagna della più grande rete ad alta velocità d’Europa, e seconda solo alla Cina: 2665 chilometri. Fu il governo socialista di Felipe Gonzales a lanciare questo grande progetto strategico per l’economia spagnola; un governo che rubava come quello diCraxi, si disse; ma che fece i compiti a casa. E non si ha notizia dicontestazioni dal basso, tipo No-Tav. Oggi, le imprese spagnole dell’alta velocità si sono aggiudicate il progetto per il treno Mecca-Medina, una linea che i sauditi pagheranno 6,7 miliardi di euro.

I costi della politica

Il governo ha tagliato del 50% il sussidio di disoccupazionee dopo il sesto mese; ma ha anche tagliato del 20% le sovvenzioni ai partiti politici e ai sindacati (che si aggiunge al 20% già tagliato da Zapatero), del 30% il numero dei consiglieri degli «ayuntamientos», del 5% le paghe degli statali a cui ha decurtato i permessi sindacali e i giorni «di libera disponibilità». Tali misure incontrano un diffuso favore della cittadinanza, consapevole (l’ho già detto) che la crisi mette in questione i «privilegi» del settore pubblico, nonchè la corruzione e l’impunità delle caste politiche; privilegi e stipendi e impunità che tuttavia non hanno alcuna dimensione paragonabile a quella dei pubblici italiani. Sul quotidiano ABC ho letto un commento durissimo contro i 266 senatori «che non servono a niente» e prendono – udite udite – 2813 euro al mese, a cui il commentatore unisce «una sovvenzione annuale per ogni partito, che per i due partiti maggiori ammonta rispettivamente a 3,5 milioni e a 1,5 milioni per il 2012», che però non vanno agli individui ma ai partiti; uno scandalo che il commentatore invita a «trattare con l’ascia».

La mente corre ai 200 milioni di euro che i partiti italiani si incamerano ogni anno, a dispetto di un referendum che glieli ha negati; e prende la voglia diabbracciarli, quei poveri senatori sotto accusa per 2800 euro mensili.

Anche in Spagna le «autonomie» regionali spendono e spandono – dicono gli spagnoli – senza controllo, e le più battagliere (prima fra tutti ovviamente la Catalogna) si sono opposte ai tagli del governo, minacciando ritorsioni (la Catalogna, elezioni anticipate); i governanti di Asturie e Canarie hanno annunciato che non taglieranno la tredicesima ai «loro» dipendenti. Ladifferenza con la situazione italiana sta non solo nella levità delle cifre dei presunti sprechi (niente di paragonabile ai 5 miliardi di debiti della Sicilia in bancarotta, o i 70 complessivi contratti dai nostri comuni, o l’inaccertabile debito miliardario di Roma Capitale, inaccertabile perchè nascosto dietro bilanci truccati), ma anche nell’ostilità che le «autonomie» stanno riscuotendo in quanto, appunto, autonome nella spesa.

«Questi governi autonomici si sono mutati in un ariete contro gli interessi nazionali – ha scritto l’editoriale di ABC – mostrano il lato oscuro di un autonomismo che si pensa come non dovessero mai sorgere problemi difinanziamento». Le Regioni come il Lato Oscuro della Forza: come vorremmo aver sentito almeno una volta simili valutazioni in Italia.

Da questi sparsi esempi si può vedere che i governi spagnoli i compiti a casa li hanno fatti, nel complesso, molto prima di noi; ed il Paese ha le infrastrutture e la cultura per eventualmente ripartire. Se non riuscirà, sarà essenzialmente perchè è sbagliata la cura imposta dalle Merkel, è sbagliato l’euro, è sbagliato il metodo di assoggettare i bisogni finanziari del Paese sovrano agli umori dei «mercati». E forse, perchè quello che stiamo vivendo un capolinea della storia, in cui l’Europa – con tanta storia dietro – è smarrita e non sa più che fare.

L’immane disoccupazione giovanile degli spagnoli è forse un sintomo diquesta fase terminale, additando un futuro di lavoro raro e precario per le masse. Basterà dire solo che i giovani spagnoli stanno reagendo con l’emigrazione di massa. E dove emigrano? Sì, 117 mila in Germania e 86 mila negli Usa; ma 368 mila in Argentina, 179 mila in Venezuela, 94 mila in Messico, 44 mila in Cile, persino 89 mila a Cuba, più che negli Stati Uniti. Insomma il vasto mondo di lingua ispanica fa’ da ammortizzatore sociale, ed è inutile far notare cosa vuol dire emigrare in un Paese dove si parla la tua lingua-madre: significa andare a fare non solo le pulizie e gli scaricatori ma fare, poniamo, il giornalista, far valere la propria laurea e le proprie qualificazioni, inserirsi nei piani alti del Paese ospite. Andare in Argentina e in Venezuela è pur sempre sfociare in quella grande «Spagna dell’anima» che dura ancora, di quel mondo che continua a vedere Madrid come la sua patria capitale. Significa non perdere i contatti con la patria di tutti. Significa poi più facilmente ritornare a casa, se riparte la crescita; laddove i nostri giovani italiani che emigrano, i migliori, non tornano più ed a hanno ragione.

È un effetto forse imprevisto di quel che resta negli spiriti del grande impero spagnolo su cui «non tramontava mai il sole». Ma l’argomento – l’impero spagnolo – è così importante, che merita presto un nuovo articolo.

1) Dai giornali di metà luglio: «l’Unione Europea ha sospeso il trasferimentodi 600 milioni di fondi alla regione siciliana, motivando questa decisione con la cattiva gestione degli appalti e l’inadeguatezza dei controlli. (…) In una dura relazione di poche settimane fa i magistrati contabili avevano scritto di“eccessiva frammentazione degli interventi programmati” (troppi soldidistribuiti a pioggia anziché investiti su pochi obiettivi-chiave), di “scarsa affidabilità” dei controlli, di “notevolissima presenza di progetti non conclusi”,di “tassi d’errore molto elevati” tra “la spesa irregolare e quella controllata”,di “irregolarità sistemiche relative agli appalti”». (…) «Tra il 2000 e il 2006 l’isola ha ricevuto 16,88 miliardi di fondi europei pari a cinque volte quelli assegnati a tutte le regioni del Nord messe insieme. Eppure su 2.177 progetti finanziati quelli che un anno fa, il 30 giugno 2011, risultavano conclusi erano 186: cioè l’8,6%. La metà della media delle regioni meridionali».

venerdì 27 luglio 2012

Il mito di Evita 60 anni dopo.


di Gloria Sabatini.

Il 26 luglio di sessant’anni fa moriva la regina dei descamisados, l’icona dell’Argentina moderna, né di destra né di sinistra. Se l’incontro al Luna Park di Buenos Aires con Juan Domingo Peròn cambiò per sempre la vita alla ragazza della Pampas, fu lei, la povera e gracile Eva Duarte, a imprimere all’Argentina quella modernizzazione interclassista che nessuno, complottisti e denigratori postumi, si azzarda a negare. «La segreteria di stampa della presidenza della Nazione compie il penosissimo dovere di informare il popolo della Repubblica che alle ore 20,25 è deceduta la signora Eva Peròn, leader spirituale della Nazione». Ad appena 33 anni, per un cancro al collo dell’utero, moriva la primera dama d’Argentina. Interrotte le trasmissioni alla radio, proclamato il lutto nazionale per un mese, al suo funerale partecipò un oceano di milioni di persone e il suo corpo imbalsamato fu esposto per tre anni. Carisma, grinta barricadera e un’attenzione eccezionale ai più deboli e diseredati. A capo della sezione femminile del Partito giustizialista strappò agli elefanti il diritto di voto alle donne, entrando nella storia argentina. In prima fila nelle fabbriche e nelle piazze, Evita sedusse lavoratori e lavoratrici assicurando a Peròn l’elezione nel ‘46 e il secondo mandato nel ‘51. L’opposizione militare le impedì di accedere alla vicepresidenza facendole pronunciare il celebre renunciamiento davanti alla folla: «Renuncio a los honores pero no a la lucha» («Rinuncio agli onori ma non alla lotta»). La razòn de mi vida, l’unica autobiografia, avrà il suo stesso destino: esaltata, beatificata, esecrata, obbligatoria nelle scuole e poi bandita dalle librerie. «Per divorziare dal suo popolo il capo del governo dovrebbe cominciare col divorziare dalla propria moglie», scriveva. Senza Evita, Peròn sarebbe stato un caudillo come tanti.

giovedì 26 luglio 2012

Io dico: aboliamo le Regioni, non le Province. E vi spiego perché.



di Andrea Fluttero. (Secolo d’Italia)

Consapevole di sostenere posizioni che non godono di grande popolarità in questo periodo, ho però piacere di inviarvi alcune mie piccole considerazioni sul tema dell’eliminazione delle Province. Dal 1985 al 2011 sono stato consigliere comunale e assessore in un piccolo Comune, poi consigliere provinciale, e poi ancora sindaco e consigliere comunale in un Comune di medie dimensioni, vivendo quindi dall’interno il sistema degli enti locali. Semplificando possiamo dire che oggi ci troviamo di fronte a cinque livelli di governo: l’Europa, lo Stato nazionale, le Regioni, le Province e i Comuni. Tre di questi livelli legiferano, Europa, Stato e Regioni, due amministrano, Province e Comuni.
Partendo dal basso mi pare evidente che, escludendo le grandi città metropolitane, gli oltre 8mila Comuni italiani hanno bisogno di un livello sovracomunale nel quale gestire i servizi di area vasta e trovare economie di scala non raggiungibili a livello comunale. Tale livello è naturalmente e storicamente la Provincia, che potrebbe efficacemente diventare un organo di secondo livello, composto dai sindaci dei Comuni che vi apportano i servizi da far gestire. Con tale configurazione dovrebbero essere eliminate tutte le altre forme intermedie di gestione sovracomunale come Ato, Consorzi e Società varie. Le Province così definite non avrebbero la necessità di essere accorpate forzosamente e in modo innaturale, ma seguirebbero la naturale e storica propensione di un territorio di avere come riferimento la città più grande, che, spesso fin dal medioevo, ne rappresenta il capoluogo e ne definisce l’identità culturale e socio-economica.
Partendo dall’alto, invece, lo sviluppo e la concretizzazione del progetto europeo ha reso gli Stati nazionali sempre più “regioni d’Europa” che hanno, e dovrebbero sempre più avere, nella dimensione e nell’omogeneità culturale, linguistica ed economica gli elementi di forza per rappresentare in ambito europeo gli interessi dei propri cittadini. Dopo aver partecipato in fase ascendente alla definizione delle Direttive europee, il Parlamento nazionale si incarica di introdurne i principi nella legislazione. Due livelli che amministrano il territorio, Comune e Provincia, due livelli che legiferano, Europa e Stato nazionale.
A me pare, a questo punto, che il livello ridondante sia quello regionale, con 20 Regioni, per altro di dimensioni molto diverse tra loro, che legiferano su svariate materie, creando confusione normativa per chi vuole investire in Italia. Le Regioni sono storicamente poco definite, perché nate per scelta politico-amministrativa negli anni Settanta, e spesso disomogenee da un punto di vista sociale, culturale ed economico. Mi chiedo, per esempio, cosa leghi sotto questi aspetti Cuneo con Novara, Varese con Piacenza o Foggia con Taranto. Inoltre, la vicenda dei trasferimenti di competenze dallo Stato alle Regioni dimostra la scarsa utilità di questi enti. Infatti ogniqualvolta lo Stato ha trasferito competenze, come nel caso delle strade ex Anas o degli Uffici di collocamento, le Regioni hanno rapidamente trasferito queste competenze alle Province. Ancora più incomprensibile la gestione della sanità, che assorbe circa l’80% dei bilanci delle Regioni e che dovrebbe essere uno di quei servizi rispetto ai quali si deve garantire ai cittadini il massimo della omogeneità su tutto il territorio nazionale, anziché modelli qualitativamente diversi per ogni Regione.
Le Regioni che “giocano” a fare gli Stati, con presidenti che si credono “governatori” e aprono sedi di rappresentanza all’estero e a Roma, che legiferano in modo caotico e con frequenti conflitti di competenza con lo Stato, che sfondano regolarmente i budget di spesa sanitaria e che si indebitano con mutui per pagare la spesa corrente sono, come dimostra la recente cronaca e come dimostrano i preoccupanti dati di bilancio di molte di esse, non solo al Sud, il vero e grande problema da affrontare. In un’epoca caratterizzata da internet e video conferenze, da facilità di collegamenti aerei e ferroviari, il dialogo tra Europa e Stato, che legiferano, e Comuni e Province, che amministrano il territorio, può essere risolto settore per settore con meccanismi di confronto tra i ministeri dello Stato centrale e coordinamenti di Province che di volta in volta si formano in funzione della materia e non dei confini amministrativi. Capisco che dopo mesi di campagne mediatiche per l’eliminazione delle Provincie possa sembrare strano proporre di eliminare le Regioni, ma eliminando le Province a me parrebbe ancora più strano e discutibile il modello organizzativo nel quale ci verremmo a trovare, con tre che legiferano, Europa, Stato e Regione, e uno solo che amministra, il Comune. Sarà magari perché mi ricorda quelle vecchie barzellette nelle quali in tre dirigono e uno lavora...

mercoledì 25 luglio 2012

Tommaso, l'unico Moro davvero Santo.


Aldo Moro
Lunedì scorso, in silenzio, è stato accolto il primo passo per avviare la santificazione di Aldo Moro, servo di Dio. Me lo diceva un suo fedelissimo, Luigi Ferlicchia, presidente del centro studi Moro e promotore con il postulatore Nicola Giampaolo della canonizzazione.

Ferlicchia è pure convinto che Moro sia stato vittima del Kgb sovietico: ricorda un borsista che seguiva le lezioni di Moro, Sergeij Sokulov, agente del Kgb, che avrebbe condotto Moro per braccio nel rapimento di via Fani.

Una tesi condivisa da due stretti collaboratori di Moro, Franco Tritto e Renato Dell'Andro. Ma questa è roba da commissione Mitrokhin.

Mi turba di più la santità di Moro (idem per De Gasperi. Verrà poi il turno di Andreotti?). Ammiro la devozione eterna dei postulanti nei confronti di Moro ma francamente non vedo tracce di santità. Non tiro in ballo il compromesso storico e l'apertura a sinistra di un politico che pure nasce moderato e da giovane fu fascista; né lo dico ricordando lo scandalo dei petroli, i suoi collaboratori inquisiti o l'affare Lockheed. Moro fu un politico e si comportò da politico, non da santo. La sua morte brucia ancora, ma come diceva Sant'Agostino non è la pena ma la causa a fare i martiri. E non vedo Moro mosso da una causa cristiana, al più democristiana. O dovremmo santificare tutte le vittime cattoliche del terrorismo?

veri santi si sacrificano nel nome della fede o dedicano la loro vita a opere di carità o compiono miracoli. Moro rientra in questi canoni? Un Santo Moro politico c'è già: è San Tommaso Moro. Basta lui. Dio non votava Dc.

di Marcello Veneziani.

Bce, la fabbrica del debito che sta rovinando l’Europa.



Se tutti i giorni i Merkel, Monti, Barroso, Draghi scendono in campo per rassicurarci che “l’euro è irreversibile” (non un Grillo qualsiasi che dopo aver lungamente sbraitato contro la moneta unica ora si professa sincero europeista), vuol dire che stiamo assistendo a un rito scaramantico per allungare il più possibile la vita del moribondo. Tutti gli indicatori dell’economia reale attestano in modo inequivocabile che giorno dopo giorno siamo prossimi al funerale. Dell’euro? Dei padroni dell’euro? No, il nostro funerale! La recessione sempre più profonda, l’indebitamento pubblico che cresce, il Pil che si riduce, la produzione, le esportazioni e i consumi in calo, le tasse più alte al mondo e nella storia, le imprese strangolate che chiudono, i disoccupati e i poveri che aumentano, i giovani senza prospettive, i figli che non si fanno più, la democrazia svuotata di contenuti, i partiti e il parlamento che si sono auto-commissariati svendendo l’Italia alla triplice dittatura finanziaria, relativista e mediatica, gli italiani sempre più ingannati, traditi, rassegnati, frustrati, disorientati.

Ebbene come è possibile che, da un lato, la crisi è colpa dell’euro e, dall’altro, siamo noi italiani, noi europei, a pagarne le tragiche conseguenze? La risposta è nella recente dichiarazione del governatore della Bce (Banca Centrale Europea) Draghi al quotidiano francese Le Monde: “Il nostro mandato non è di risolvere i problemi finanziari degli Stati, ma di garantire la stabilità dei prezzi e mantenere la stabilità del sistema finanziario in tutta indipendenza”. Ma come: la Bce, insieme al Fmi (Fondo Monetario Internazionale) e alla Commissione Europea, la celeberrima e temutissima troika, dopo aver imposto fin nei minimi dettagli condizioni spietatissime agli Stati per poter accedere al credito finalizzato al ripianamento del debito pubblico, ora ci dice che si lava le mani dei problemi degli Stati? Ma come: se questi problemi sono essenzialmente legati alla carenza di liquidità monetaria e l’unica istituzione titolata ad emettere l’euro è la Bce che si rifiuta di farlo? Ma come: quando le banche e le società quotate in borsa crollano si pretende il massiccio intervento degli Stati con denaro pubblico mentre quando gli Stati sono in crisi voltate loro le spalle?

Per capire le ragioni profonde della crisi strutturale della finanza e dell’economia internazionale, bisogna iniziare dall’a, b, c della scienza monetaria. La moneta è solo un mezzo di scambio della vera ricchezza che sono beni e servizi prodotti. Il suo valore è convenzionale e lo conferisce chi lo accetta non chi la stampa. Il signoraggio è la differenza tra il costo reale e il valore nominale della moneta. Oggi la Bce stampa la banconota da 100 euro al costo di 3 centesimi e la vende alle banche commerciali a 100 euro più l’1% di interesse in cambio di titoli di garanzia. Le banche rivendono la banconota allo Stato a un tasso superiore in cambio di Buoni del Tesoro che sono titoli di debito. Lo Stato ripaga questi interessi facendoli gravare sulle tasse imposte ai cittadini. Quindi tutto il denaro in circolazione è gravato da interessi percepiti dalle banche e da tasse che gravano sulle nostre spalle. E’ così che noi siamo indebitati dal momento in cui nasciamo, a prescindere da qualsiasi responsabilità oggettiva! E’ il sistema che di fatto corrisponde ad una “fabbrica del debito”. Chi è il responsabile? A differenza di quanto si tenderebbe a pensare, la Bce, al pari della Banca Centrale d’Italia, è un’istituzione che svolge una funzione pubblica ma è di proprietà privata, detenuta da banche private, comprese quelle dei Paesi europei che non aderiscono all’euro. Ha la struttura di una società per azione e gode di autonomia assoluta dalla politica pur condizionando pesantemente la politica. Questa “fabbrica del debito” si è arricchita grazie a due nuovi trattati, il Fiscal Compact o Patto di stabilità, e il Mes o Fondo Salva-Stati, approvati a larghissima maggioranza il 19 luglio dal nostro parlamento senza né un’adeguata informazione né la consapevolezza da parte degli italiani che ci siamo ormai auto-condannati ad essere indebitati a vita. Di fatto ci siamo impegnati, al fine di dimezzare il debito pubblico per portarlo al 60% del Pil, a ridurre i costi dello Stato di 45 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni, ciò che si tradurrà in nuove tasse e ulteriori tagli alla spesa pubblica; mentre per creare il Fondo Salva-Stati, l’Italia si è accollata la quota di 125 miliardi di euro, che non abbiamo. Qualora non dovessimo rispettare gli impegni sulle condizioni del pareggio di bilancio che abbiamo inserito nella Costituzione, anche in questo caso tra la distrazione generale degli italiani, scatterà in automatico una sanzione pari all’1% del Pil, 15 miliardi di euro.

Nasciamo indebitati perché la moneta non la emette lo Stato ma una banca privata e abbiamo sottoscritto degli accordi con istitituzioni sovranazionali le cui sentenze sono inappellabili, che ci impegnano a indebitarci ulteriormente per ripianare il debito! Va da sé che d’ora in poi lavoreremo sempre di più e vivremo sempre peggio per pagare i debiti. Scordiamoci i soldi per favorire lo sviluppo, per sostenere la famiglia, per dare speranza ai giovani. Anche antropologicamente muteremo trasformandoci in un tubo digerente: ci limiteremo a produrre per consumare beni materiali, non ci saranno né risorse né tempo per occuparci della dimensione spirituale che ci eleva al rango di persona depositaria di valori non negoziabili alla vita, alla dignità e alla libertà. Siamo ad un bivio epocale: salvare l’euro per morire noi come persona, oppure riscattare la sovranità monetaria per salvaguardare la nostra umanità. Ecco perché solo una nuova valuta nazionale emessa direttamente dallo Stato, che ci affranchi dalla schiavitù del signoraggio e scardini dalle fondamenta la “fabbrica del debito”, emessa a parità di cambio con l’euro per prevenire fenomeni speculativi e inflazionistici, potrà darci la libertà di essere pienamente noi stessi nella nostra Italia che ha tutti i requisiti di credibilità e solidità per andare avanti a testa alta e con la schiena dritta.

di Magdi Cristiano Allam.

martedì 24 luglio 2012

Tecnocratica e senz'anima. L'Europa così non funziona.


Nel 1998, Mario Monti, in un suo breve libro, Intervista sull'Italia in Europa (Laterza), auspicava una sostanziale dissoluzione degli Stati nazionali a vantaggio di un superstato europeo. Il pamphlet era dato alle stampe nei mesi cruciali della fase di avvio per l'approdo all'euro e il professore, commissario a Bruxelles, tratteggiava le sue idee sull'Europa, non certo il continente dei popoli, sedimentato in una cultura millenaria comune, bensì una sovrastruttura tecnocratica che doveva mirare alla gestione economica del mercato. Tra Maastricht e i primi anni del Duemila l'idea neoilluminista di un'Europa a direzione centralista e tecnocratica è stata egemone nei giornali, nelle università, nei luoghi dove si è formata l'alleanza tra salotti giacobini e “poteri forti”. Cosa non solo teorizzata ma avvenuta nei fatti quando agli Stati nazionali è stato sottratto il governo dell'economia, tratto distintivo della sovranità accanto all'esercizio della forza militare. Europa forza gentile fu il titolo di un altro libro, a firma di Tommaso Padoa-Schioppa, che uscì in occasione del varo dell'euro e che vedeva in Bruxelles una forza buona chiamata a domare il senso di nazionalità. Nondimeno, un anno prima di diventare Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano pubblicò Altiero Spinelli e l'Europa (il Mulino) dove si auspicava il «mettere insieme delle sovranità, delle funzioni, dei poteri, per esercitarli a livello sovranazionale», contro le «forme di nazionalità esasperata».

Alla prova dei fatti l'Europa così concepita si è dimostrata un fallimento, non solo perché ha prodotto una spaventosa crisi economica, non ciclica ma epocale, ma soprattutto perché - come ha scritto Giorgio Israel - sta «sgretolando le culture nazionali che dovevano essere i mattoni costitutivi dell'identità culturale del continente». In altre parole, quella pluralità nazionale che per secoli è stata la ricchezza dell'Occidente, parte essenziale della civiltà europea, è stata distrutta dal burosauro tecnocratico.

Se è vero, come ricorda, Federico Chabod, nel suo classico L'idea di nazione, che dire senso di «nazionalità, significa dire senso di individualità storica», il sedimento storico non può essere generato in laboratorio. Per secoli la forza dell'Occidente è stata la libertà degli individui, consacrata dalle costruzioni giuridiche e soprattutto da un potere riconoscibile ed emendabile. Il potere delle tecnocrazie, invece, appare indistinto e lontano. Scruton salda in un binomio indissolubile nazione e democrazia: «Le democrazie devono la loro esistenza alla fedeltà nazionale». E aggiunge che «dovunque l'esperienza di nazionalità sia debole o inesistente, la democrazia ha mancato di attecchire». Lo storico polacco Ernst Kantorowicz fa risalire a Federico II l'origine dell'unità giuridica e culturale dell'Occidente attraverso la nozione di Europa imperialis, una res pubblica universae christianitatis, dove il potere non è tirannia ma è chiamato a rappresentare la communitas, un popolo unito dalla storia. Un ruolo che valse a Federico II il riconoscimento postumo di Nietzsche che lo definì: «Il primo europeo di mio gusto». Lo jus publicum europeaum, ben descritto da Carl Schmitt nel Nomos della terra, come «diritto interstatale», che delimita «l'ordinamento spaziale della respublica cristiana medievale», non ha avuto, dunque, quella modernizzazione evolutiva che necessitava come base della costruzione europea. L'Europa dei tecnocrati ha evidentemente tradito i postulati culturali della possibile unità europea, negando quello che Scruton definisce il «dono principale delle giurisdizioni nazionali».

E non si esagera nel ritenere che l'Europa giacobina dei poteri forti sia antidemocratica, priva di radicamento popolare. L'Unione di oggi, quella di Bruxelles è un dato solo formale che ha distrutto le virtù delle nazionalità ed è priva di «quell'anima» dei popoli teorizzata da Charles Péguy o del Volksgeist caro e Herder e Fichte. E non gode neanche di un fondamento plebiscitario: in Italia non c'è mai stato un referendum sull'Europa, mentre le consultazioni popolari di Francia e Olanda hanno bocciato la Costituzione europea.

Per secoli lo Stato nazionale, grazie al suo radicamento culturale, si è dimostrato un modello di prosperità economica e di democrazia. E occorre domandarsi quanto della crisi dell'Occidente sia da imputare all'abbandono delle strutture nazionali. Il peggio ammoniva Gustave Flaubert è quando la bêtise (la stupidità) di un certo universalismo si allea con la canaille, che per mantenere i propri privilegi economici, mira a sovvertire le gerarchie della storia.

di Gennaro Sangiuliano.

lunedì 23 luglio 2012

Viaggio in Islanda, riflessioni sull'acqua e la democrazia.



di Andrea Degli Innocenti.

Gli islandesi e l'acqua. Da questo rapporto profondo Andrea Degl'Innocenti parte per raccontare le prime impressioni legate al suo viaggio in Islanda. Dal carattere ospitale degli abitantialla loro incredulità di fronte alle vicende dei referendum italiani. Questo, anche per anticipare il vero motivo del viaggio: un libro in cantiere sulle rivolte popolari del 2009, contro il governo ed il ricatto del debito.

"L'acqua rappresenta bene il carattere degli islandesi. Essi appaiono pacifici e aperti come un ruscello, ma sono capaci di lottare per i propri diritti e trasformarsi di colpo in cascata"

“Come è possibile che sia successo questo, che qualcuno si sia appropriato dell'acqua?” mi chiedevano stupiti i commensali. “Questo qui in Islanda non potrebbe mai succedere. Sarebbe lo stesso che privatizzare l'aria!”

“Anche in Italia, cinquant'anni fa, se tu avessi detto a mio nonno che in futuro l'acqua sarebbe appartenuta a privati ti avrebbe probabilmente riso in faccia e mandato bonariamente a quel paese”, provavo a rispondere.

Mi trovavo a Reykjavik, capitale islandese, a casa della figlia di Salvor, un'attivista di Attac Iceland che ci ha ospitato – me e Marco, mio compagno di viaggio – per tutta la durata della nostra permanenza. Mentre aspettavamo di cenare conversavamo sulla situazione del paese. Mi è capitato di fare riferimento all'Italia, in particolare al movimento per la ripubblicizzazione dell'acqua.

La cosa ha da subito rapito la loro attenzione. Ciò che li stupiva – anzi, di cui a dire il vero proprio non si capacitavano – non era tanto che i governi e le amministrazioni locali stessero violando ogni regola democratica e proseguissero imperterriti con le privatizzazioni anche dopo i referendum – alla cattiva politica erano abituati anche in Islanda -; era piuttosto il fatto che gli italiani, sì proprio il popolo italiano, e con loro buona parte degli europei come gli avrei spiegato a breve, avessero permesso a dei privati di accaparrarsi la gestione dell'acqua.

L'acqua in Islanda è qualcosa di intimamente legato all'animo di ognuno.Sgorga dal suolo bollente e solforosa oppure ghiaccia come l'oceano artico. Schizza in aria lanciata dalla enorme pressione dei geysir o si fionda giù con violenza per dirupi di sessanta e passa metri nelle immense cascate di Gullfoss o Dettifoss.

Si può bere, ovunque nell'isola, direttamente dai ruscelli che scivolano sui pendii non appena un po' di calore estivo inizia a sciogliere gli enormi ghiacciai perenni. Nessuno compra acqua in bottiglia. A dire il vero l'acqua in bottiglia praticamente non esiste, con qualche eccezione per quella con le bollicine. D'altronde hanno “la migliore acqua del mondo”, come affermano orgogliosi.

Ho sempre avuto l'idea che sarei dovuto partire proprio dall'acqua nel descrivere il mio viaggio in Islanda. Eppure esso ha avuto molto più a che fare con le vicende legate al debito ed alla cosiddetta “rivoluzione delle pentole” del 2009, alle deliranti politiche neoliberiste che hanno portato all'esplosione di una bolla di credito, alla tragica crisi economica ed alla reazione del popolo islandese. Su questi argomenti ho in cantiere un libro che uscirà in autunno. A questo è servito il viaggio; attorno a questi argomentiruotavano le interviste e le ricerche.

Ma l'acqua, a me pare, ha un legame intrinseco con l'intera vicenda, così come con il carattere degli islandesi. Essi appaiono pacifici e aperti, disponibili e amichevoli, come le acque ciottolanti di un ruscello. La storia dimostra che sono però anche capaci di lottare per i propri diritti quando serve, e di trasformarsi di colpo in cascata.

L'acqua è l'elemento che più caratterizza l'isola. Più della terra brulla che ricopre le vaste zone semidesertiche lungo la dorsale oceanica; più dell'aria tersa, illuminata da un sole che già sul finire di maggio se ne va solo per un paio d'ore al giorno, lasciando comunque un chiarore costante; persino del fuoco, che pure zampilla dai vulcani sotto forma di lava e lapilli.

Essa rappresenta il legame che gli islandesi hanno con la propria terra, con la natura straripante. Un legame di forte dipendenza, quasi di serena sottomissione. In altre occasioni mi è capitato di parlare dell'acqua e dei referendum italiani con gli isolani. Ad esempio con Andrea Jóhanna Ólafsdóttir, candidata alle elezioni presidenziali da poco svoltesi; vinte, per la quinta volta consecutiva, da Ólafur Ragnar Grímsson. Ogni volta la reazione era la stessa. “Qui in Islanda non sarebbe mai potuto succedere, l'acqua è troppo importante per noi”.

Il libro che sto scrivendo non parlerà dell'acqua, se non in maniera marginale. Ma mi pareva giusto rendere omaggio al carattere degli islandesi, quasi a ringraziamento per l'ospitalità e l'accoglienza, con un inno (senza pretese) all'elemento che più li caratterizza. Oscar Olivera, leader della guerra del aguadi Cochabamba, in Bolivia, contro le privatizzazioni imposte dalle multinazionali affermava: “dobbiamo essere come l'acqua: trasparenti e in movimento”. Gli islandesi, la cui cultura ha inaspettatamente molto a che vedere con quella dell'America Latina (il romanziere Einar Már Gudmundsson me lo ha confermato) lo hanno preso in parola.

domenica 22 luglio 2012

All’attacco dei rossi nel nome di Dio e del Re cattolicissimo.




Può sembrare strano, a noi contemporanei, immaginare un soldato del XX secolo andare all’assalto alla baionetta recitando il rosario e invocando la Vergine. Più strano ancora se a farlo sono interi battaglioni di volontari, arruolatisi in un’armata esplicitamente e programmaticamente cattolica. Invece una tale armata ci fu, i cosiddetti Requetés «carlisti» che combatterono contro i rojos (i «rossi»: comunisti e anarchici) nella guerra di Spagna del 1936-39. Il loro essere nuovi crociati stava nello stile a cui si assoggettavano per giuramento: soccorso dei nemici feriti e preghiere di accompagnamento per i nemici caduti, rispetto massimo della popolazione civile, niente bordelli e ubriachezze, messe e comunioni al campo, vita liturgica compatibilmente con le operazioni di guerra.

Militavano nel campo dei nacionales, evidentemente, ma con le debite distanze ideologiche da Franco e, soprattutto, dai falangisti, che consideravano servi dei nazisti tedeschi (non di rado tra questi e i requetés iniziava con sfottò e finiva in risse, subito sedate dagli ufficiali). Li si riconosceva dal basco rosso, visibilissimo in combattimento, per cui venivano chiamati tomates (pomodori) o amapolas (papaveri). «Carlisti» perché i loro avi avevano combattuto, nell’Ottocento, ben due guerre a favore del pretendente al trono Carlos, fratello del re Ferdinando: il primo prometteva di restaurare l’antica monarchia tradizionale spagnola, cattolica e rappresentativa dei fueros locali; il secondo era sostenuto da liberali e massoni, nonché da italiani dello stesso credo, come Cialdini e Durando, arruolatisi appositamente. Internazionale era anche la composizione del volontariato carlista, che annoverava anch’esso italiani accorsi per difendere la civiltà cristiana.

Questa fu l’esplicita motivazione che convinse uno di loro, il romagnolo Alfredo Roncuzzi, a partire per la Spagna. Tenente requeté ma anche uomo di lettere (era scrittore e commediografo, amico di Raimondo Manzini e Piero Bargellini, sulla cui rivista Frontespizio scriveva), è il solo che abbia affidato allo scritto il resoconto di quei giorni di guerra vissuti in prima persona, dalla partenza via nave al ritorno a conflitto finito. Oggi le Edizioni del Girasole ne propongono le memorie: L’altra frontiera. Un requeté romagnolo nella Spagna in guerra, a cura di Pier Giorgio Bartoli (pagg. 262, euro 20).

Ferito più volte nel suo Tercio, racconta de visu quel che la storia ci ha tramandato: la strage di preti e suore, il terrore comunista, le distruzioni di chiese, le fucilazioni rituali delle statue di Cristo. Ma anche il clima tetro che vigeva nel campo avverso, di contro alla serena allegria nelle trincee requetés; i miliziani costretti ad avanzare con la pistola alla nuca e che, alla prima occasione, disertavano, nostalgici dei canti religiosi che sentivano nella trincea opposta. Ma quel che desta meraviglia, nelle pagine del Roncuzzi, è l’esatta coscienza del motivo per cui lui e i suoi commilitoni si erano arruolati: un regno spagnolo (nelle speranze, primizia per il resto d’Europa) realmente rappresentativo, un parlamento coi «rappresentanti di ceti qualificati e categorie produttive: esponenti del clero, delle forze armate, delle corporazioni, delle municipalità, dei sindacati ecc., non di un popolo indifferenziato, valevole solo numericamente». C’è anche una perfetta analisi del processo di scristianizzazione, cominciato dal Rinascimento e passato per la rivolta luterana, l’Illuminismo, il giacobinismo e finito, logicamente, con i seminatori di odio puro per tutto ciò che esiste.

«Il marxismo, del resto, è così: protesta, sciopera, scatena tutte le tempeste per arrivare al potere e, giuntovi, non sa più che fare di quello Stato per la cui distruzione si era mosso»; così, «impone il collettivismo, che nessuno vuole, perché tutti intendono la solidarietà nella misura del proprio benessere non soggetto quotidianamente a sorveglianza speciale, dà agio all’ateismo di diventar religione di Stato».

E poi, l’amara constatazione: «Come diceva Donoso Cortés, le rivoluzioni avanti tutto sono malattie della gente ricca». Di fronte alle solite accuse alla Chiesa: «La Chiesa nel suo umano svolgersi presenta una società in cui il dispotismo può introdursi, in certe evenienze, di soppiatto e contro la sua dottrina; l’antichiesa, invece, è una chiesuola in cui il dispotismo è di casa e perpetuo».

di Rino Cammilleri.

sabato 21 luglio 2012

Il pensiero di destra alla ricerca di una nuova casa.



Sarà stato per il luogo, il millenario monastero camaldolese di Valledacqua, sperso sugli Appennini piceni. Sarà stato per l'atmosfera, a metà fra la concentrazione della clausura e l'attesa del conclave. Ma non sono mancati i buoni propositi e gli entusiasmi fra coloro che domenica hanno raccolto l'invito di Renato Besana e Marcello Veneziani a «tornare a Itaca».

Un richiamo a un «rientro in patria» diretto a tutti gli intellettuali di centro-destra (ma per lo più ultimi epigoni di area Msi-An) che si ritengono apolidi della politica e vittime della frantumazione del progetto del Pdl. Sessanta fra pensatori e giornalisti (fra cui molti nomi noti nel panorama culturale, come Gennaro Sangiuliano, Adolfo Morganti, Sandro Giovannini, Fabio Torriero, oltre alle adesioni di Pietrangelo Buttafuoco e Gianfranco de Turris), partendo dall'assunto di conclusione di un ciclo ventennale che ha visto il dibattito nazionale avvitarsi fra berlusconiani e antiberlusconiani, si sono confrontati sui modi da adottare per affrontare la sfida del futuro. Alla ricerca di un'area di rappresentanza comune che riunisca precedenti esperienze ora disperse.

Gli autoconvocati di Valledacqua hanno individuato nel ristabilimento della supremazia della politica sull'economia e sui tecnici (il presidente Monti a più riprese è stato indicato come «rappresentante di un governo d'occupazione») ma anche nella sua salvaguardia dai politicanti («causa della disaffezione dei cittadini dalla vita civile») i cardini di ogni possibile iniziativa futura. Già perché il lavoro avviato a Valledacqua non vuole limitarsi a essere un'esperienza culturale ma un'officina prepolitica ove costruire una proposta «alternativa - come detto da Renato Besana - alla sovietizzazione dell'economia mondialista». Con poca nostalgia verso il passato, ma ancora con tratti «volutamente semiclandestini», i naviganti verso Itaca si definiscono «maieuti», pronti a confrontarsi coi politici attraverso la costituzione di un movimento. Ma senza compromessi, anzi riaffermando i principi patrimonio della destra italiana: il valore dell'identità greco-romano-cristiana della nostra civiltà e il patriottismo della tradizione più che della Costituzione del 1948.

Non tutti fra i presenti però si sono trovati d'accordo. Pasquale Squitieri, infastidito da un intervento circa la necessità di proporre in politica volti nuovi, lascia la sala. E non tutti hanno risposto all'appello. Si è sfilato, fra gli altri, anche Franco Cardini, con una struggente riflessione che mescola Itaca a Troia, la vittoria di Lepanto alla sconfitta dell'Invicibile Armada, Ulisse («l'eroe fraudolento») a Ettore («nobile domatore di cavalli»), in nome di un passato ideale che non può più tornare e di un futuro da costruire partendo da esperienze del tutto personali. Ma l'impolitica disillusione dell'illustre medievista non sembra contagiare gli intellettuali di Valledacqua che si affacciano all'agone. Resta ora da verificare in che modo questo progetto si misurerà con le emergenze materiali dell'Italia e degli Italiani, senza naufragare fra concetti e richiami mitico-storici. Come rimane tutta da costruire una piattaforma che possa tenere insieme un mondo così composito e, per sua intrinseca natura, tendente al particolarismo e all'autoreferenzialità. Un progetto che possa riconquistare una fetta degli astensionisti e fornire nuove motivazioni ai giovani. Ma su tutto si staglia l'ombra del Cavaliere che si sta riaffacciando sulla scena. E gli intellettuali di Valledacqua non potranno non tenerne conto.

di Gianluca Montinaro.

venerdì 20 luglio 2012

L’Europa può ricominciare. Se si parte dalla memoria.



Qualche mese fa, all’inizio della crisi greca ch’è una crisi europea, mentre sembrava – e, non c’illudiamo, continua a sembrare ancora – che le evidentemente ancor fragili strutture dell’Europa scricchiolassero e qualcuno cominciava a parlare con insistenza di “ritorno alla sovranità monetaria” (come se, tra le sovranità che l’Italia ha perduto, ci fosse soltanto quella…), molti fra noi sono stati invasi da un cupo, profondo senso di tristezza. Parlo soprattutto per me: classe 1940, dichiaratamente europeista da qualcosa di più di mezzo secolo, per quanto le formule federalistiche allora di moda non mi convincessero né mi soddisfacessero. Quel che allora noi sognavamo, e dico “noi” perché non eravamo poi tanto pochi, era un’Europa che, forte della coscienza della sua unità culturale di fondo e delle tragedia che da troppi secoli aveva dovuto sopportare a causa della sua divisione, riprendesse il cammino che la Cristianità medievale le aveva indicato, quello dell’unità, e lo traducesse in termini di identità comunitaria capace di misurarsi con il mondo moderno.

Non che le forme del pensiero europeistico elaborate fra Otto e Novecento ci soddisfacessero: non ci convincevano né Saint-Simon, né Thierry, né Michelet, né Cattaneo (anche se la formula “Stati Uniti d’Europa” ci affascinava), né Coudenhove-Kalergi, né Spinelli, né Schuman: qualcuno di noi (anch’io) guardò a Thiriart, ma non era convincente nemmeno lui. Sentivamo che superare i vecchi schemi nazionali non bastava, che cercar di fondare una specie di nuovo “ipernazionalismo” sarebbe stata una follìa, ma che pur bisognava uscir prima o poi dal truce dopoguerra di un continente europeo spaccato in due a causa e per colpa senza dubbio d’una sciagurata guerra (cominciata peraltro non già nel ’39, bensì nel ’14) ma anche della volontà congiunta delle due superpotenze che, in disaccordo su tutto, con i patti di Yalta si erano trovate d’accordo però su una cosa, vale a dire che la parola Europa andava ridotta per sempre a una pura espressione geografica. Per questo la nuova Europa economico-finanziaria che cominciò a prender forma a partire dai primi Anni Cinquanta non ci piaceva: la ritenevamo necessaria certo, ma non sufficiente; né tanto meno primaria, in quanto ritenevamo che le istituzioni finanziarie e monetarie dovessero accompagnare se non addirittura tener dietro, ma certo non precedere quelle politiche, istituzionali, sociali e anche militari.  Per questo la costosissima Unione Europea di Bruxelles e di Strasburgo, con la sua pesante burocrazia e i suoi organi parlamentari consultivi, non poteva né piacerci né bastarci.

La crisi scoppiata già da qualche mese, e ancora in atto, ha rischiato di far volare in pezzi anche quel poco che c’era: un “poco” pesante e pletorico, ma insoddisfacente. Eppure, forse qualcosa si sta movendo. Qualcosa che ci condurrà a prender concordi atto che quella “falsa partenza” ha servito se non altro a farci prendere comune coscienza di un bisogno diffuso per quanto mai evidenziato, mai approfondito dalle forze politiche dei paesi membri della Ue. Non a caso, non abbiamo né una Costituzione – di cui non siamo stati capaci nemmeno di redigere un preambolo -, né un esercito; abbiamo sì una bandiera, anche bella, e un inno (preso dalla Nona di Beethoven) che però non possiamo cantare in quanto manca di parole adeguate.

Eppure oggi è successo un piccolo miracolo. Il Presidente del Parlamento Europeo, Martin Schulz,  ha inviato alla gente siciliana dei comuni coinvolti dallo sbarco del 1943 un messaggio per rievocare un evento accaduto sessantanove anni or sono. Un piccolo, doloroso evento: una goccia di sangue versata nell’oceano che stava affogando il mondo di quei giorni. Ma l’averlo ricordato oggi può rappresentare un giro di boa, il segno dell’inizio di qualcosa di davvero rivoluzionario e profondo.

Martin Schulz si è simbolicamente unito a un piccolo gruppo di cittadini riuniti per ricordare, con un semplice cippo, un evento doloroso e un crimine di guerra. Il massacro senza ragione, contro le leggi di guerra e contro le leggi umane e divine, di un gruppo di soldati italiani che si erano arresi da parte di un’unità delle forze armate statunitensi sbarcate in Sicilia. Un atto non solo inutile, ma anzitutto arbitrario e crudele.

Ma perché ricordarlo solo adesso? Si chiederà qualcun altro. E che cosa volete che significhi quell’episodio, nel mare di ferocia di una guerra che assisté addirittura a veri e propri genocidi? Rifletterà qualcun altro.

Qui sta appunto la sconvolgente novità. Sempre, dopo le guerre, si tende a criminalizzare i vinti e ad assolvere i vincitori. È una legge antica forse quanto il mondo: ma divenuta, all’indomani delle prima e soprattutto della seconda guerra mondiale, un dogma inviolabile. In tempi recenti, qualche stato ha addirittura proposto ed emanato leggi demenziali tese a derubricare a crimine passibile di pena  qualunque parere, comunque espresso, che potesse venir interpretato come un tentativo di rivedere  alcune pagine storiche e di ridistribuire, magari alla luce di nuovi elementi e documenti, alcune responsabilità. Si è indiscriminatamente e istericamente parlato di “revisionismo” e di “negativismo”, si è confuso tra ricostruzione dei fatti e critica di essi, ci si è abbandonati a un terrorismo che in qualche caso ha lambito anche sedi politiche ed accademiche elevate.

Oggi, Martin Schulz rompe l’omertà: e definisce per quel che è, un crimine, quel lontano atto di viltà e di ferocia che sarebbe stato chissà quante volte ricordato e stigmatizzato se fosse stato compiuto da soldati della parte che ha perduto la seconda guerra mondiale; mentre, per il fatto di essere stato commesso dai vincitori, era stato per troppi decenni “dimenticato”, rimosso.

Certo, il presidente fa quel che può. Molte altre lapidi, sparse un po’ dappertutto in Europa, parlano analogo criptico linguaggio. I crimini commessi dalle forze del Terzo Reich sono stigmatizzabili come “barbarie nazista”. Per gli altri, aggettivi qualificativi politically correct mancano. Quale barbarie ha reso possibile i bombardamenti di Dresda e di Hiroshima? Schulz risponde in modo corretto, pur senza infrangere le regole vigenti: “la barbarie della seconda guerra mondiale”, che ci ha insegnato a tenderci di nuovo la mano, a riconoscerci come fratelli. Ed è su ciò che bisogna costruire quell’unità europea per la quale poco di effettivo fino ad oggi è stato fatto, come giorni fa ha sottolineato la stessa cancelliera Angela Merkel. Ma per far questo occorre una reale volontà unitaria: che cominci dai giovani, dalla scuola.

Mezzo secolo fa noialtri giovani universitari invocavamo la nascita di una scuola unitaria europea, nella quale tutti i ragazzi degli stati membri studiassero, nella loro lingua rispettiva, la medesima storia e accedessero a una misura comunitaria della cultura europea, nella quale Shakespeare non fosse più un semisconosciuto a tutti meno che ai ragazzi britannici e Cervantes un semignoto a chiunque non fosse spagnolo. Mezzo secolo fa chiedevamo che in tutta Europa si abolissero le  intitolazioni delle piazze e strade alle vittorie nazionali e le si sostituissero con l’intitolazione alla concordia europea; che si smettesse di studiare la ristretta storia nazionale e si accedesse a un più ampio e comprensivo studio della storia europea. Perché dalla conoscenza nasce la coscienza, e dalla coscienza l’amore. Sono partiti i programmi Socrates ed Erasmus, importanti ma non sufficienti: poi, non si è fatto altro. Riprendiamo il cammino: partendo stavolta non dall’economia che ci ha dato l’Eurolandia, bensì dalla scuola, dalla cultura, dalla politica, dalla coscienza che un’Europa unita è più che mai quel che ci vuole per procurare un po’ di equilibrio a un mondo sempre più impazzito. Era un cammino che avremmo dovuto avviare dal ’45: abbiamo perduto quasi settant’anni.  L’appello del Presidente Schulz ci suggerisce di ricominciare da capo. Subito.

di Franco Cardini.