Salviamo i nostri Marò

Salviamo i nostri Marò
I nostri due militari devono tornare a casa

Siamo contro ogni genere di Discarica nel nostro Territorio!

lunedì 29 ottobre 2012

In Ricordo di Mario Zicchieri.



Bellezza è l’Eternità che si contempla in uno specchio.
Noi siamo l’Eternità, Noi siamo lo Specchio.
 
In ricordo di Mario Zicchieri, nell’Anniversario del suo sacrificio.

Mario Zicchieri
La famiglia Zicchieri abitava in un appartamento, al secondo piano con due camere più servizi, in via Dignano D’Istria, borgata Prenestina periferia di Roma, una traversa stretta e tortuosa. Il marito, Germano, lavorava alla Stefer, azienda tranviaria, come impiegato. Taciturno e democristiano convinto. La moglie, Maria Lidia, invece, lavorava come commessa in una pasticceria di via Po, da “Pasquarelli”. Le figlie, Monica e Barbara, rispettivamente di tredici e dodici anni, frequentavano la scuola in via Aquilonia, dove le scuole medie e il liceo erano completamente attaccate. Infine, l’unico figlio maschio, Mario, diciassette anni, studente al terzo anno del corso per odontotecnici presso la scuola Eastman di via Galvani. Spesso l’orario di lezione si allungavano fino a tardi pomeriggio per le esercitazioni di laboratorio. Aveva fatto il boy scout, era iscritto alla palestra pugilistica di Angelino Rossi e al Fronte della Gioventù, organizzazione giovanile del Movimento Sociale Italiano, presso la sezione di via Erasmo Gattamelata, nel cuore di uno dei più popolosi quartieri della Capitale, una specie di avamposto nel deserto dei tartari. La simpatia per il fascismo era arrivata a Mario Zicchieri non solo dal lato materno, il nonno di Maria Lidia, Bonifacio Albanesi, fu podestà della cittadina sul litorale romano, Terracina, un personaggio sanguigno e forte, ma anche attraverso un’altra figura decisiva, il maestro elementare, un ex simpatizzante della Repubblica Sociale Italiana. In sezione tutti lo chiamavano “Cremino”. Quel soprannome non derivava dal colore della sua carnagione, ma dal fatto che era troppo goloso dell’omonimo gelato Algida. Una settimana prima dell’agguato, Mario Zicchieri, era andato a raccogliere le firme per una petizione popolare che chiedeva l’installazione degli impianti di illuminazione nel quartiere, insieme ad un altro missino e amico inseparabile, Marco Lucchetti, cresciuto in Australia dove il padre era emigrato come manovale. Ritornato a Roma, si era avvicinato al sezione del Movimento Sociale Italiano per fare amicizia e per ambientarsi. Intanto da giorni la guerriglia per il controllo del territorio era imperversa. Apparvero molte scritte sui muri ad opera di Avanguardia Operaia, persino sotto casa di Cremino, “Fascisti a Morte” con falce e martello. Il 29 ottobre del 1975 la scuola in via Galvani era in sciopero e Mario Zicchieri per arrotondare la paghetta aveva deciso di intrattenere per qualche ora il cuginetto. Gli zii più volte lo invitarono a fermarsi da loro ma Mario Zicchieri aveva degli impegni da rispettare. Infatti la sera prima era stato a cena insieme ad altri missini per organizzare un volantino e ricordare l’assassinio di Sergio Ramelli a Milano, preparare la manifestazione a favore degli sfrattati e aspettare il falegname per cambiare la serratura della sezione. Spesso era proprio Mario Zicchieri che disegnava i volantini, con lo stilo d’acciaio direttamente sulla matrice di cera. Non era facile con la pallina tonda del pennino, bisognava stare molto attenti, anche se Mario Zicchieri era già abituato con i ferri da odontotecnico. Cremino era in sezione, davanti al ciclostile che sputava inchiostro e divorava carta. Alcuni missini, guardando la strada lo invitarono ad uscire per guardare delle ragazze. Marco Lucchetti era già sulla soglia della porta, ed entrambi uscirono. Nemmeno a cinque metri dal marciapiede della sezione ad attenderli una macchina, una centoventotto di colore verde targata Roma M 92808, con il motore acceso. Scesero due persone, pochi passi e spararono con fucili a pompa, cartucce da caccia misura 00, una pioggia di pallini, da quella distanza non vi era scampo. Mario Zicchieri fu il primo a essere ferito, colpito alle gambe e al pube, avvitandosi su se stesso cadde a terra agonizzante. L’altra fucilata, invece, fu per Marco Lucchetti, colpito, invece, alle gambe e a una mano, non in pericolo di vita. Il più grave era proprio Cremino. Gli assassini avevano mirato al basso ventre, l’arteria era recisa e nel giro di pochi secondi già era in un lago di sangue. Il primo a soccorrerlo fu il tappezziere che aveva la bottega proprio al fianco della sezione missina. Subito si rese conto del problema dell’emorragia. Corse in negozio prese un giornale per tentare disperatamente di bloccare il sangue con dei tamponi improvvisati premendo sul bacino. Ma Mario Zicchieri era in stato di semincoscienza e quando fu trasportato all’ospedale era già clinicamente morto. Aveva appena diciassette anni. Proprio in quel momento, mentre partivano le fucilate, si trovava di passaggio un aviere in servizio, Vincenzo Romani. Il militare si lanciò con la propria vettura all’inseguimento, ma dalla centoventotto si abbassarono i finestrini e spuntarono di nuovo le armi. Il militare fu costretto a ritirarsi. Al capezzale di Marco Lucchetti, il padre Alessandro, con il torace fasciato per le fratture che si era procurato in un incidente sul cantiere. La madre di Mario Zicchieri fu avvertita dal cognato mentre si trovava in pasticceria. Il padre, Germano, invece, nella sua abitazione, poco dopo il rientro dall’ufficio, da un giornalista, subito colto da malore. I solenni funerali furono organizzati nella chiesa di San Leone Magno, al Prenestino, il 31 ottobre del 1975 alle ore sedici. Migliaia di persone arrivarono in corteo da via Erasmo Gattamelata, letteralmente ricoperta di fiori e di corone. Come al solito fu un rito di casa missina. In testa il Segretario Giorgio Almirante, Teodoro Buontempo e D’Addio, parlamentari del partito e consiglieri comunali. Tutti i ragazzi indossarono la fascetta del Movimento Sociale Italiano. In chiesa numerosi cartelli, quello più significativo del Fronte della Gioventù: “ Mario aveva diciassette anni, voleva vivere, voleva cambiare questa sporca Italia”. Si presentò anche la fidanzata di Mario Zicchieri per la prima volta alla famiglia. Da via dei Volsci, sede di Autonomia San Lorenzo, un drappello di agitatori cercò più volte di interrompere la cerimonia. La situazione degenerò in assalti e contrassalti. Circa cinquecento missini, guidati da Paolo Signorelli e D’addio, si diressero verso il centro per assaltare il Ministero dell’Interno in via del Viminale, la sezione del Partito Comunista Italiano di via Cairoli, la sezione di lotta Continua in via dei Piceni. Quattro sconosciuti, a bordo di una Bmw, aggredirono a colpi di pistola, la sezione missina in via Etruria vicino a San Giovanni. Una centoventotto con quattro neofascisti fu data alle fiamme, per fortuna gli occupanti riuscirono miracolosamente a mettersi in salvo. Nella notte, i militanti missini, affissero in tutta la città manifesti in onore a Mario Zicchieri. Anche il Sindaco di Roma, Clelio Darida, dedicò la seduta alla giovane vittima. Germano Zicchieri, dal giorno della morte del figlio, lo sguardo si era pietrificato, era entrato in un tunnel, in un calvario di depressione che lo portò alla morte nel 1996. Monica e Barbara, le sorelle, con il contatto obbligato con i più grandi diventò per loro un inferno. Addirittura inseguite, spintonate e insultate da alcuni ragazzi della sinistra extraparlamentare del liceo. Furono costrette a perdere l’anno scolastico e a iscriversi presso un nuovo istituto. Maria Lidia, invece, fu licenziata dalla pasticceria, per fortuna trovò occupazione in una fabbrica a Pomezia grazie all’aiuto di Michele Marchio, avvocato del Movimento Sociale Italiano. Si costituì parte civile nel processo giudiziario per la morte del figlio. Lo Stato, come al solito, fu assente. Ancora una volta non si videro assistenti sociali, istituzioni, psicologi, nessuno. Completamente abbandonati al loro dolore. Il 2 gennaio del 1978 fu devastata la lapide che i giovani del Fronte della Gioventù avevano affisso sul muro di via Gattamelata. Un chilo di polvere da mina e venti per cento di tritolo. Il 16 luglio dello stesso anno un’altra bomba esplose contro la sezione Prenestino. Intanto, la Magistratura brancolava nel buoi. Una descrizione approssimativa dei due assassini venne data dall’aviere e da Marco Lucchetti proprio durante il periodo di degenza in ospedale. Il Questore, in un primo momento, aveva battuto la pista dei Nuclei Armati Proletari suscitando l’ira di Lotta Continua. In mancanza di necessari riscontri il Giudice Istruttore D’Angelo fu costretto ad archiviare l’inchiesta. Solo sette anni dopo, nel 1982, durante il processo Aldo Moro, le dichiarazioni di una brigatista pentita, portarono alla riapertura del caso. Emilia Libera sostenne che uccisero Mario Zicchieri per essere promossi brigatisti. In una riunione ristretta del Comitato Comunista di Centocelle si era parlato dell’omicidio di Mario Zicchieri. Gli esecutori furono Bruno Seghetti, Germano Maccari e Valerio Morucci detto “Pecos”, anni dopo considerati tutti organizzatori del sequestro Aldo Moro ad opera delle Brigate Rosse durante i cinquantacinque giorni del 1978. Le conferme arrivarono anche da altri brigatisti, Walter Di Cera e Antonio Savasta. Il giudizio per Mario Zicchieri fu inserito all’interno del processo Aldo Moro, insieme a tutti gli altri delitti compiuti dalle Formazioni Comuniste Armate, ribattezzate “Fac”. La richiesta di rinvio a giudizio fu per omicidio premeditato. Il 20 febbraio del 1986 la seconda Corte d’Assise di Roma, presieduta da Sorichilli, emise il verdetto. Assoluzione piena per non aver commesso il fatto. Sconcerto per la famiglia Zicchieri e per la parte civile. Il processo di secondo grado si svolse meno di un anno dopo. Sette ore di camera di consiglio, il rappresentante della Pubblica Accusa, Procuratore Generale Labate, chiese e ottenne l’assoluzione per insufficienza di prove. Nel settembre dello stesso anno venne incredibilmente bocciato il ricorso in Cassazione e per la parte civile non ci fu più nulla da fare. I tre brigatisti furono condannati per altri reati ma non per l’omicidio di Mario Zicchieri. Strano che un personaggio chiave come l’aviatore, Vincenzo Romani, testimone oculare dell’omicidio in via Gattamelata, non fu mai ascoltato dalla Corte.
CAMERATA MARIO ZICCHIERI, PRESENTE!
 

martedì 23 ottobre 2012

mercoledì 10 ottobre 2012

E il guerriero Jünger conquistò la pace.


Ernest Jünger
Guerriero, scrittore, filosofo: la vita e l'opera di Ernst Jünger possono essere riassunte e spiegate con queste tre categorie, esplorate nel volume collettaneo La mobilitazione globale. Tecnica, violenza e libertà in Ernst Jünger, a cura di Maurizio Guerri (Mimesis, pagg. 212, euro 18), che raccoglie gli interventi presentati al convegno sullo scrittore tedesco tenutosi nel 2005 all'Università degli Studi di Milano. Dall'estremismo radicale degli scritti degli anni Venti fino alle meditate profondità dei diari della vecchiaia, l'opera jüngeriana è una lunga e coerente ricerca dell'eternità da parte di un personaggio che Heidegger riteneva «il più freddo e acuto pensatore» capace di vedere la realtà, che si svela soprattutto nelle situazioni estreme, di guerra e di morte.
La morte è la sostanza della guerra, e quindi, probabilmente, non è un caso che morte e guerra siano state rimosse insieme dall'orizzonte della società contemporanea. Eliminata da una giovinezza artificialmente smisurata e quindi nascosta nell'asettico freddo degli obitori, la morte non fa più parte del mistero della vita, rendendola quindi insensata. Ridotta a semplice «operazione chirurgica» o convertita ipocritamente in «missione umanitaria», la guerra non è più scontro tra avversari di pari dignità ma si è trasformata nel feroce annientamento del nemico, divenuto estraneo al concetto stesso di umanità.
Un primo, allarmante segnale di questa discesa agli inferi si ha durante il Secondo conflitto mondiale, quando allo scontro in armi tra nazioni si aggiungono gli atti terroristici dietro le linee e le inevitabili rappresaglie. In uno scritto a lungo ritenuto perduto, Jünger, nelle vesti di ufficiale delle truppe di occupazione, stila, a futura memoria, un rapporto sugli attentati che funestano Parigi a partire dall'agosto 1941, ora pubblicato per la prima volta in italiano da Guanda col titolo Sulla questione degli ostaggi. Parigi 1941-1942, (pagg. 190, euro 14), dove l'esteta lascia il posto al burocrate, attento a sottolineare come le vittime delle rappresaglie tedesche muoiano senza mostrare «odio contro la Germania o le truppe di occupazione», come effettivamente risulta dalle lettere dei condannati a morte raccolte dall'autore e qui pubblicate in appendice.
Al tema classico della guerra è invece dedicato il volumetto Guerra e guerrieri curato ancora da Maurizio Guerri e pubblicato da Mimesis (pagg. 74, euro 8), che raccoglie il contributo di Friedrich Georg Jünger all'antologia collettanea Krieg und Krieger pubblicata nel 1930, insieme con il discorso di suo fratello Ernst tenuto a Verdun il 24 giugno 1979, per celebrare l'anniversario di una delle più sanguinose battaglie della Prima guerra mondiale e auspicare l'avvento di una pace mondiale.
Con la Grande guerra una nuova, inaudita violenza ha fatto irruzione sulla scena mondiale e, cancellando la separazione tra stato di pace e stato di guerra, aveva trasformato anche l'azione politica, che diventa appannaggio di un nuovo ceto, una aristocrazia guerriera nata dal fango delle trincee e forgiata dal fuoco delle tempeste d'acciaio. Finita la guerra, il nuovo tipo umano che aveva saputo interiorizzare l'esperienza del combattimento doveva, per i fratelli Jünger, trasferire la propria volontà trasformatrice dal fronte bellico a quello interno del lavoro, in attesa della rivoluzione nazionale che avrebbe sostituito «l'azione alla parola, il sangue all'inchiostro, il sacrificio alla retorica e la spada alla penna», come scriveva Ernst sul Voelkischer Beobachter nel settembre 1923, molti anni prima di giungere alla conclusione, citata nel discorso di Verdun, che «l'era delle guerre nazionali stava volgendo al termine».
A quell'epoca eroica, fa invece riferimento l'altro Jünger, Friedrich Georg, anche lui combattente nella Grande guerra, il quale, scrivendo al crepuscolo della Repubblica di Weimar, riteneva esistesse un destino - altro tabù contemporaneo - sia individuale sia comunitario, che la guerra ci avrebbe aiutato a capire, mettendoci di fronte a scelte ed esperienze così radicali da elevare «il singolo e la società in un ambito dove legge e forma si incontrano in modo vincolante e fraterno». L'aspirazione a una pace universale, vista come l'unica via d'uscita per l'umanità dopo l'invenzione della bomba atomica, e l'esortazione a «diventare ciò che si è» cercando di capire quale sia il proprio destino, sono la consegna che questo denso volumetto lascia all'umanità, oggi distratta da guerre mascherate da rivoluzioni più o meno colorate e strangolata da una spaventosa crisi globale, due elementi che potrebbero, prima o poi, rendere le idee dei fratelli Jünger di bruciante attualità.
di Luca Gallesi.

martedì 9 ottobre 2012

Chi inventò lo Stato sociale? Il Fascismo.



di Giuseppe Brienza.
È stato presentato a Roma, al circolo culturale “L’Universale”, il libro di Michele Giovanni Bontempo Lo Stato sociale nel Ventennio (Pagine, Roma 2010, pp. 290, € 17). A documentare quanto è stato fatto per costruire nel nostro Paese le fondamenta di un welfare State sul quale si è appoggiata la Repubblica italiana (basti pensare all’Istituto nazionale di assistenza malattie, all’Opera maternità e infanzia, all’assistenza previdenziale e ospedaliera) sono intervenuti, oltre all’autore ed all’editore Luciano Lucarini, Fabio Torriero, Teodoro Buontempo, Adalberto Baldoni, Nazzareno Mollicone ed Egidio Eleuteri. «Chi ha promosso il welfare italiano, cioè quella politica sociale, economica ed industriale, che ha reso grande l’Italia anche all’estero? – si è chiesto Michele Bontempo – Non la sinistra, ma il fascismo durante il Ventennio. Una legislazione sociale che ha ripreso il welfare giolittiano». Seguendo l’indice del saggio pubblicato nella collana dei Libri del Borghese, il giovane giurista e funzionario dello Stato ha quindi descritto con precisione il cambiamento della società italiana negli anni che videro la nascita e l’affermazione del fascismo, soffermandosi soprattutto sulle leggi e sui provvedimenti riguardanti il Welfare. Da Lo Stato sociale nel Ventennio emerge, infatti, con estrema chiarezza, la profonda maturazione della società italiana che vide modificarsi radicalmente i rapporti alla base del lavoro, con datori di lavoro e lavoratori che assumono giuridicamente e socialmente diritti e obblighi reciproci.
Passando in rassegna i testi storici e le Gazzette Ufficiali dell’epoca, Bontempo esamina al principio del suo volume le principali dinamiche della società e dell’economia. Partendo da tale premessa analizza quindi le politiche intraprese dal governo Mussolini per agevolare la tendenza a “fare impresa”. Una tendenza che avrebbe poi salvato l’economia italiana dando vita al boom economico degli anni Cinquanta e Sessanta. Tutto questo passando attraverso la promozione della politica sociale. Alla fissazione dell’orario di lavoro fa seguito l’ampia tutela per le donne (di questi anni il divieto di licenziamento per le gestanti) e i bambini. Non solo. Il saggio di Bontempo mostra molto chiaramente come il governo Mussolini abbia varato la prima normazione relativa all’igiene ed alla salubrità delle fabbriche.
Lo Stato sociale nel Ventennio, dunque, riporta coraggiosamente alla luce conquiste che non vengono insegnate a scuola e presentate dai media. È così che Bontempo ripercorre le radici del divieto di licenziamento senza giustificato motivo o senza giusta causa e degli istituti che garantiscono e regolano non solo la pensione ma anche le assicurazioni di invalidità, vecchiaia e disoccupazione. Il libro ricorda, infine, come sia proprio degli anni Trenta l’introduzione degli assegni per gli operai con famiglia numerosa e l’istituzione di strutture il cui fine è quello di assistere i poveri, i disabili e gli handicappati. Nel Ventennio – ha spiegato Bontempo – la conservazione del posto di lavoro era garantita e favorita da continui corsi professionali che avevano lo scopo di aggiornare i lavoratori.
A margine della presentazione del volume di Bontempo, il presidente dei «Circoli del Borghese», Biagio Ehrler, ha illustrato motivi e finalità di questa nuova iniziativa civica che, diffusasi nelle maggiori città italiane, come si legge nello Statuto, mira all’ambizioso obiettivo di «Aiutare la politica a rigenerarsi e i partiti a rinnovarsi», contrastando nel contempo il predominio culturale del “politicamente corretto” e della sinistra nel nostro Paese.

venerdì 5 ottobre 2012

Oltraggiato il Santuario della Madonna della Difesa con colpi d’arma.



Esprimiamo la nostra totale condanna ed il nostro più profondo sdegno per quanto avvenuto al Santuario della Madonna della Difesa. Ignoti hanno osato violare, crivellando con colpi da arma, il sacro muro del Santuario.
Non abbiamo parole di disprezzo e amarezza per condannare il gesto vile di questi vigliacchi che tanto hanno osato. Vorremmo semplicemente saperne il motivo augurandoci che vengano presto identificati dalle forze dell'ordine.
Periodicamente il suddetto Santuario, oltre ad essere luogo di bivacco di ogni genere dagli appuntamenti di coppia agli incontri di “fumo” ed alcol,  è  oggetto di atti vandalici, scritte sui muri e  vetri rotti, ora addirittura colpi d’arma. Cosa dobbiamo aspettarci ancora?
Tutto questo a nostro avviso è intollerabile specie per quello che il luogo rappresenta non solo a livello religioso ma anche storico e affettivo per la nostra comunità locale.
Noi militanti della Giovane Italia un anno e mezzo fa circa ne denunciammo lo stato di abbandono al Sindaco e all’ex parroco, chiedendone la ristrutturazione, il ripristino dell’illuminazione esterna, un sistema di sicurezza per salvaguardare la Sacra Effige e di riportare il cassone dell’immondizia.
Di queste quattro proposte soltanto due ne sono state accolte fino ad ora, la ristrutturazione e l’illuminazione esterna (se ancora non lo sapessero da oggi il santuario è di nuovo al buio).
Ciò non è avvenuto per opera del Sindaco e della sua giunta ma grazie all’arrivo del nuovo parroco, don Rino Lepera, il quale  nel mese di Luglio scorso l’ha fatto ristrutturare in occasione dei festeggiamenti Mariani, cioè un anno dopo la nostra denuncia.
Ora, per l’ennesima volta ci rivolgiamo a lei signor Sindaco, non al parroco perchè ha già  fatto tanto da solo, chiedendole a di far ripristinare il cassone dell’immondizia e di far dono al Santuario, tanto caro ai cittadini di Scandale, di un sistema di sicurezza e di videosorveglianza per evitare future azioni spregevoli.
Speriamo vivamente che almeno questa volta le nostre istanze vengano accolte, poiché riteniamo indecente tutto quello che è successo fino ad oggi, riconsegnando così ai fedeli un luogo più dignitoso ove poter vivere la propria spiritualità e devozione nei confronti della Vergine Maria

Antonello Voce
Presidente circolo "Paolo Di Nella"
Giovane Italia Scandale








 

giovedì 4 ottobre 2012

Giovane Italia occupa per protesta la sede del Pdl.


Di seguito la nota della Giovane Italia Crotone: I militanti della Giovane Italia hanno occupato, ieri sera, in segno di protesta la sede provinciale di Crotone del Popolo delle Libertà.

«Siamo stanchi e stufi – dichiara Fabrizio Zurlo – del nullismo politico dei vertici locali del partito, che da mesi non ci permettono di sfruttare neanche la federazione per fare attività politica. Il gesto, seppur non proprio etico, è testimonianza di insofferenza da parte nostra nei confronti di questo partito che a Crotone vive un lungo letargo, che si protrae ormai da troppo tempo e che tarpa le ali a chi realmente vuole fare politica tra la gente, senza alcuna aspettativa, senza pensare di servire un potere sempre più opportunistico e clientelare».
Con questo gesto i giovani militanti si riappropriano di ciò che ritengono casa propria.
«Noi siamo – continua Zurlo - la parte viva e l’anima del PdL, questa è casa nostra, eppure siamo stati costretti a fare un atto di forza per poter ripartire con la nostra attività politica».
La Giovane Italia ha deciso di assumersi l’onere di tenere aperta la sede ogni singolo giorno.
«Un grande Partito come il Popolo della Libertà, - dichiara inoltre il dirigente della Giovane Italia - dovrebbe essere faro e punto di riferimento per una comunità dilaniata da molteplici emergenze come è quella Crotonese, è questo che la nostra passione ci chiama a fare, gli altri dirigenti, se come hanno dimostrato vorranno portare solo le mostrine sulle spalle senza fare null’altro, se vorranno atteggiarsi a grandi strateghi politici, se non impareranno ad avere umiltà, a scendere in mezzo alla gente ed ad accogliere le proposte ed i numerosi malumori, se non incarneranno, quindi, gli ideali del centrodestra e non cercheranno di portare risultati concreti per il nostro territorio, da oggi è meglio che restino a casa o magari continuino a scaldare poltrone di pelle in questo o quel palazzo portando il loro negativismo e le loro polemiche all’interno delle loro abitazioni e non nel partito!».
La Giovane Italia ha deciso, quindi, di rompere gli indugi dando una sferzata alla dirigenza del proprio partito.
«Da oggi il vento cambia, - conclude Fabrizio Zurlo - da oggi si riaccende la fiamma della buona politica, della militanza, e la federazione di via risorgimento sarà aperta tutti i giorni per accogliere, ascoltare i simpatizzanti ed i cittadini. Il PdL non è il partito dei Fiorito e delle Minetti, ma una grande comunità umana, fatta da migliaia di ragazzi che ancora oggi si sacrificano per la propria Patria. Una goccia in mezzo a un mare?? Può essere.. ma la cosa importante è ripartire da zero!».
Oggi, giovedì 4 ottobre, alle ore 18,30 la Giovane Italia ha indetto una conferenza stampa, nei locali del PdL in via Risorgimento per rendere pubbliche le motivazioni di questo gesto così eclatante.

martedì 2 ottobre 2012

Pound, la «Carta da visita» straccia le banche usuraie.



Carta da visita di Ezra Pound, a cura di Luca Gallesi (Bietti, pagg. 106, euro 14). l libro fu scritto nel 1942 dall'autore direttamente in italiano, ed ebbe una seconda edizione (in sole in mille copie) per Scheiwiller nel 1974. Pubblichiamo parte dell'introduzione di Gallesi e alcuni brani di Pound.

 «Socrate fu accusato di empietà e di voler sovvertire le leggi del suo paese; eppure non era né empio né sovversivo, e la storia successiva lo ha dimostrato. Io sono accusato di tradire il mio paese, che amo tanto quanto voi italiani amate il vostro. Ma chi, come me, agisce alla luce di una verità percepita e pre­vista interiormente, anticipa nel presente una realtà futura molto certa». In queste parole, tratte da un’intervista del 1955, quando era ancora detenuto con l’accusa di tradimento a Washington, nel manicomio criminale di St. Elizabeths, c’è tutta la tragica grandezza di Ezra Pound, poeta, profeta e, soprattutto, patriota americano.
Pound si è sempre considerato, infatti, un leale cittadino statunitense, fedele ai principi della Costituzione americana, che i suoi governanti avevano, invece, manipolato e sovvertito. Come era già accaduto in occasione del primo conflitto mondiale, anche nella Seconda guerra mondiale gli Usa erano stati trascinati in un conflitto non voluto, che avrebbe arricchito pochi speculatori sulla pelle di milioni di vittime.
Proprio l’inutile strage della Grande guerra, che aveva mietuto le vite di molti suoi amici artisti, spinge Ezra Pound ad abbandonare il ruolo di esteta distaccato che aveva ricoperto fino ad allora per dedicarsi allo studio delle cause delle guerre, che sono spesso legate alla speculazione: «si fanno le guerre - scriveva ancora nel 1944- per creare debiti». Così, accanto alla sua infaticabile attività di talent scout, che favorì, tra gli altri, Eliot, Joyce ed Hemingway, e mentre cerca di dare con i Cantos un poema epico nazionale all’America, Pound denuncia la «guerra perenne» tra oro e lavoro, tra chi specula e chi fatica, tra gli usurai e gli uomini liberi, e decide di schierarsi a fianco di questi ultimi, scelta mai rinnegata e di cui pagherà dignitosamente tutte le conseguenze fino alla «gabbia per gorilla» in cui fu rinchiuso nel carcere militare statunitense allestito vicino a Pisa.
Prima di giudicare qualcuno, come il poeta stesso amava ripetere, bisogna esaminare le sue idee una alla volta, e quindi è necessario avvicinarsi alle sue opere senza pregiudizi, collocandole nel contesto storico generale e in quello biografico particolare. Riproporre, oggi, la sua Cartadavisita, che Pound scrisse direttamente in italiano, è dunque, innanzitutto, un’occasione per conoscere direttamente il pensiero di Ezra Pound, e confermarne, eventualmente, la profetica attualità.
Nel 1942, quando Carta da visita viene pubblicato la prima volta, il mondo è dilaniato dalla più spaventosa guerra mai combattuta, una tragedia che Pound aveva ingenuamente cercato di evitare con tutti i mezzi, incluso un viaggio intercontinentale per incontrare il presidente Roosevelt e convincerlo dell’importanza della pace.
Oggi, l’Europa non è in guerra, ma la situazione generale non è meno drammatica; il colonialismo si è trasformato in «delocalizzazione», i signori dell’oro sono diventati operatori di Borsa, e i popoli sono sull’orlo di un tracollo economico disastroso, esattamente come Pound aveva immaginato: «Il nemico è Das Leihkapital - tuonava il 15 marzo 1942 dai microfoni di Radio Roma - . Il vostro nemico è Das Leihkapital, il Capitale preso a prestito, il capitale errante internazionale. [...] E sarebbe meglio per voi essere infettati dal tifo e dalla dissenteria e dalla nefrite, piuttosto che essere infettati da questa cecità che vi impedisce di capire quanto siate compromessi, quanto siate rovinati ».
Sicuramente, in quegli anni, quando molti intellettuali impegnati si baloccavano con il mito della lotta di classe, Pound doveva risultare quantomeno eccentrico, con il suo insistere nella guerra contro la speculazione finanziaria, ricordando che «una nazione che non vuole indebitarsi fa rabbia agli usurai». Oggi, invece, il suo avvertimento contro «la banca che trae beneficio dall’interesse su tutta la moneta che crea dal nulla», come recita il Canto 46, risulta ben più efficace del rimedio allora auspicato da mol­ti, e cioè la «dittatura del proletariato».
I brani -  La Nazione non deve pagare l'affitto sul proprio credito
Risparmio. Abbiamo bisogno d’un mezzo di risparmio e d’un mezzo di scambio, ma non è legge eterna che ci dob­biamo servire dello stesso mezzo per queste due funzioni diverse. La moneta affrancabile (ovvero prescrittibile) si adoprerebbe come moneta ausiliaria, mai come moneta unica. La proporzione fra la moneta consueta, e l’affrancabile, se calcolata con perizia e saggezza, potreb­be mantenere un rapporto equo e quasi invariabile fra la quantità delle merci disponibili e desiderate, e la quantità della moneta della nazione, o almeno raggiungere una stabilità di rapporti sino al grado conciliabile.  Bacon ha scritto: «moneta come concime, utile solamente quando sparsa». Jackson: «il luogo più sicuro di deposito: le braghe del popolo».
Sociale. Il credito è fenomeno sociale. Il credito della nazione appartiene alla nazione, e la nazione non ha necessità di pagare un affitto sul proprio credito. Non ha bisogno di prenderlo in affitto da privati. [...] La moneta è titolo e misura. Quando è metallica, viene saggiata affinché il metallo sia di finezza determinata, nonché di peso determinato. Adoprando una tale moneta siamo ancora nel dominio del baratto. Quando la moneta viene capita come titolo, sparisce il desiderio di barattare. Quando lo stato capisce il suo dovere e potere, non lascia la sua sovranità in balìa di privati irresponsabili (o che assu­mono responsabilità non giustificate). È giusto dire che «la moneta lavoro» è «simbolo del lavoro». E ancor più è simbolo della collaborazione fra natura, stati e popolo che lavora. La bellezza delle immagini sulle monete antiche simboleggia, a ragione, la dignità della sovranità inerente nella responsabilità reale o imperiale. Collo sparire della bellezza numismatica coincide la corruzione dei governi.
Dichten=Condensare. La parola tedesca Dichtung significa poesia. Il verbo dichten = condensare. Per la vita, o se preferite per «la battaglia», intellettuale, abbiamo bisogno di fatti che lampeggino, e di autori che mettano gli oggetti in luce serena. L’amico Hulme ben disse: «Quello che un uomo ha veramente pensato (per sé) si scrive su un mezzo foglio. Il resto è spiegazione, dimostrazione, sviluppo». Chi non ha forti gusti non ama, e quindi non esiste.

lunedì 1 ottobre 2012

Ma è stata la democrazia a rivalutare il Fascismo.



"Fascista!" ha urlato Bersani a Beppe Grillo. Sembra essere tornati agli anni ’70 quando chi non si "dichiarava, laico, democratico e antifascista" era di per sè un fascista. Usare il termine "fascista" come insulto e strumento di lotta politica nell’anno di grazie 2012 non solo è un "non sense" è ridicolo. Evidentemente nella generazione dei Bersani, scatta ancora un riflesso, pavloviano dovuto all’età (a un Matteo Renzi, sindaco di Firenze, che di anni ne ha 37 e che pure è un Ds, non verrebbe mai in mente da dare del "fascista" a chichessia) e alla lunga militanza del Pci, che rischia di dare ragione a Berlusconi quando diceva che gli ex comunisti, nonostante tutti i cambi di sigle, erano rimasti, nel fondo della loro animuccia, comunisti.
Ma io vorrei spostare la questione su un altro piano. Alla luce dell’esperienza storica di quest’ultima secolo, "fascista" ebbe un’idea di Stato e di Nazione e cercò di attuarla con coerenza. Non fu solo treni che arrivavano in orario. L’Iri nel dopo guerra democratico diventò un indegno carrozzone, partitocratico, ma quando venne creato, nel 1931, fu un’intelligente risposta alla crisi del 1929 e infatti l’Italia non ne subì i contraccolpi se non marginalmente. Alberto Beneduce, che oltre all’Iri diresse altri importanti Istituti pubblici, fu uno straordinario "grand commis" che godette sempre di un’amplissima autonomia (la leggenda vuole che fosse il solo a poter di "no" a Mussolini). Le prime leggi a tutela dei beni culturali e artistici sono del ’39, come quelle ambientali e paesaggistiche, mentre dal ’42 ogni comune dovette dotarsi di un piano regolatore. Le bonifiche in Agro Pontino e in Maremma furono un modello di organizzazione anche se al prezzo dello spostamento forzoso, vagamente staliniano, di migliaia di contadini veneti. Mussolini aveva pronto anche un piano di frantumazione e redistribuzione del latifondo in Sicilia, cosa che ovviamente non piaceva ai baroni nè alla mafia (che il fascismo, col prefetto Mori, fu il solo a combattere seriamente). E i baroni e la mafia aprirono l’isola agli angloamericani, peccato d’origine le cui conseguenze, come si può ben vedere, scontiamo ancora oggi.
Il fascismo esercitò una censura sulla stampa feroce e stupida con esiti, spesso, esilaranti, ma in campo culturale ci fu sempre una certa libertà. L’architettura fascista può piacere o meno ma, a differenza di quella d’oggi, ha uno stile e in quegli anni fummo i primi nel design industriale (una vivacità culturale che la coraggiosa mostra milanese "Annitrenta" del 1982 osò mostrare per la prima volta). Anche l’idea della valorizzazione dell’agricoltura e di una ragionevole autarchia alimentare non era sbagliata, anzi è estremamente attuale. Certo poi ci sono gli orrori: il carcere di Gramsci ("dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare per almeno vent’anni") l’omicidio Matteotti, quello dei Rosselli, il criminale uso dell’iprite in Abissinia, le leggi razziali. E l’errore fatale: entrare in guerra impreparati, Mussolini, che da maestro era diventato succube di Hitler, credeva che i tedeschi avrebbero vinto la guerra in quattro e quattr’otto ("ci basteranno poche centinaia di morti per sederci al tavolo della pace"). Questo riluttante cinismo gli italiani l’avrebbero pagato carissimo. Ma oggi dopo gli ultimi quarant’anni di Italia repubblicana, dobbiamo ammettere, con amarezza, che è stata la democrazia a rivalutare il fascismo.
di Massimo Fini.